Un film di Apichatpong Weerasethakul. Titolo originale Sang Sattawat. Biografico, durata 105 min. – Tailandia, Francia, Austria 2006.
Due storie a sfondo ospedaliero: nella prima Tei, giovane dottoressa in un piccolo ospedale di provincia, si ritrova a respingere le timide avances di Toa, perché presa ancora dall’amore per il fioraio Noom. Nella seconda il dottor Nohng, medico praticante appena assunto in un ospedale del centro, inizia il suo primo giorno di lavoro. Il neoassunto vaga per l’ospedale e incontra un vecchio amico nel reparto di fisioterapia, finché la sera non giunge a un appuntamento con la fidanzata.
Questo il plot del nuovo film del tailandese Apichatpong Weerasethakul, cineasta apprezzato dalla critica per il precedente Tropical Malady, presentato due anni fa al Festival di Cannes. Dopo la storia d’amore omosessuale dell’ultimo film, il regista sceglie questa volta di indagare la memoria e i personali ricordi d’infanzia con uno stile estremamente privato e autobiografico.
Entrambi i genitori di Weerasethakul infatti erano medici, e il regista è cresciuto a stretto contatto con l’ambiente ospedaliero di una cittadina tailandese, osservando con curiosità l’umanità variegata che ogni giorno andava alla ricerca di cure mediche. Lui stesso dichiara: “Sono affascinato dagli spazi delle piccole città e dai panorami che offrono. Ora che la mia città natale sta cambiando così velocemente, diventando sempre più simile a Bangkok, i miei ricordi di questi spazi perduti sembrano ancora più lontani”.
È stata dunque l’incalzante globalizzazione a risvegliare nel cineasta un desiderio di semplicità e di nostalgia per una perduta innocenza, una nostalgia del passato che si concretizza nei ricordi – come insegna Wong Kar-Wai – “sempre pieni di lacrime”.
Syndromes and a Century è dunque un vecchio ricordo filtrato attraverso il moderno obiettivo di una camera lenta e sommessa, che si muove in punta di piedi (ma per lo più rimane fissa) tra i meandri della memoria. Un film dai toni lievi e rarefatti, i cui episodi appaiono legati tra loro dal filo conduttore dell’ambientazione ospedaliera, “architettura della memoria” per l’autore del film, ma non per lo spettatore. Il risultato finale appare dunque frutto di un’elaborazione troppo personale e frammentaria, una storia di ricordi che non riesce a entrare nel cuore di chi la osserva. Un film intimista che scivola sullo spettatore senza lasciare scossoni o tracce profonde, lasciandogli in eredità, allo scorrere dei fotogrammi, niente di più che immagini poetiche e sensazioni delicate ma labili e fuggevoli.
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