Plotone di paracadutisti americani in Birmania attraversa la giungla in territorio nemico per distruggere una stazione radar giapponese. Molte scarpe al sole. Grazie a Walsh e al suo ritmo forsennato, è uno dei più scattanti e realistici film di guerra usciti dall’officina di Hollywood. Un vero manuale di combattimento. Così antigiapponese da diventare razzista. Flynn a briglia corta. La trama sarebbe poi stata rielaborata in Tamburi lontani. Esistono copie in edizione più breve (127 minuti) e colorizzata.
Jean (Gabin) ha disertato e cerca abiti civili. Trova qualcuno disposto ad aiutarlo in una vecchia osteria. Siamo a Brest, nel nord della Francia. Lo aiutano due disperati come lui, un barbone e un pittore da quattro soldi. Jean incontra Nelly, triste e rassegnata a sua volta, in cerca di una qualche protezione, che trova nella casa di un vecchio che si rivela ben presto uno sporcaccione, addirittura un assassino. L’amore fra Jean e Nelly non è nemmemo un’oasi, è un momento casuale e già disperato. Si aggiunge un altro personaggio, malavitoso, che ce l’ha con Nelly. Per difenderla Jean umilia il malvivente che gliela giura. Alla fine niente va bene. Nelly torna dal vecchio, vittima di una strana, sordida attrazione, e Jean viene ucciso in strada dal malavitoso. Film di pura costruzione intellettuale studiato per simboli e con la più grande attenzione a evitare ogni minima tentazione realista. La nebbia che sovrasta tutto il film è il pericolo, è il destino, è l’avvertimento che tutto è travisato ed è ancora più difficile muoversi e decidere. Le case brutte, il caffè brutto, la gente brutta, è tutto un segnale di come sia impossibile persino la speranza. Gli uomini non determinano niente. È il destino a decidere tutto. Tutto questo nella poesia generale di un grande regista e un grande poeta che si integravano magnificamente. Carné e Prévert erano fra i padroni del cinema francese di quel momento. Perfettamente inseriti nella “moda” del Fronte Popolare, sofferenti come tutti gli intellettuali che erano stati sedotti dalle idee che venivano dall’Est e delusi dal non poterle effettivamente applicare. Dunque la miglior realizzazione di quel programma poteva stare nella solidarietà individuale e nell’amore. Ma tutto, in un momento così difficile, disperato, risultava impossibile: impossibile per Jean salvarsi fuggendo, impossibile l’amore con Nelly. In quegli anni film come Il porto rappresentavano quanto di meglio il cinema potesse offrire in Europa. Arte vera, contrapposta alla pratica americana del successo al botteghino. Un cinema di grande contenuto poetico legato, come già detto, alla cultura, ai simboli, ai significati di “quel” momento. Sono splendidi graffiti senza mercato, troppo incastrati nella cornice del loro tempo.
Edit 10/7: sostituita versione dvdrip fra subita con 1080p
Tom Horn, un uomo dal burrascoso passato, si trasforma in eroe scomodo quando viene incaricato da un ricco allevatore del Wyoming di mettere fine alle razzie di ladri di bestiame.
Breve e avventurosa vita del partigiano Silvio Corbari, Medaglia d’oro della Resistenza, che insieme a giovanissimi compagni tra l’8-9-43 e i primi mesi del 1944 diede molto filo da torcere alle SS, agli Alpenjäger e ai loro complici fascisti con incursioni in Romagna e in Toscana e anche, maestro di travestimenti, con imprese beffarde. Tradito da un delatore, fu arrestato già gravemente ferito e impiccato due volte a Castrocaro e a Imola. Lasciati i fratelli Taviani, Orsini – sceneggiatore con Renato Nicolai – balza nel cinema nazional-popolare con un film d’azione di matrice eretica che nella Resistenza privilegia l’individualismo contro il controllo dei commissari politici del PCI, la spontaneità contro l’organizzazione, offrendo a Gemma un personaggio insolito, diverso da quel Ringo che l’aveva reso un divo degli “spaghetti-western”. Al passivo una voce narrante intrusiva e la troppa musica di Benedetto Ghiglia.
Durante la rivoluzione messicana, un ambiguo generale dei ribelli libera un professore idealista, guida spirituale delle lotte rivoluzionarie, solo per carpirgli il segreto di una cassaforte piena di denaro. Si accende una violenta lotta trai seguaci del professore ed il torbido generale finché quest’ultimo non avrà la peggio.
Cybersix nasce dagli esperimenti genetici del terribile dottor Von Reichter, ex scienziato nazista, ed è l’unica superstite dei bambini della serie cyber, distrutta dal suo creatore perché capace di un pensiero autonomo e di disobbedire.
Jean è una donna affascinante, che ha successo nel lavoro e nella vita privata. Una conoscente, che l’ama alla pari del marito e della figlia, è uno strano personaggio di nome Marion. Nessuno sa cosa faccia di preciso e qualcuno sussurra addirittura che sia una strega. Il film meno conosciuto in assoluto di George A. Romero regista di La notte dei morti viventi.
Nigel Grey è un mercante molto particolare. Infatti, oltre a trafficare in opere d’arte è in grado di recuperare qualsiasi cosa gli venga chiesta. Dall’introvabile biglietto di un concerto a un falso d’autore Nigel è grado di esaudire qualsiasi desiderio. Nigel non lo sa, ma lui è un djinn, o genio della lampada se preferite, e sta per essere messo al centro di un drammatico conflitto che vede contrapporsi la centenaria congrega di S. Giorgio alle creature dei miti e delle leggende di tutto il mondo. Rifugiatesi nel sottosuolo di Londra, al seguito di mago Merlino, le creature magiche sono alla disperata ricerca dell’ultimo genio, il più potente tra gli esseri fatati che, con l’esaudimento di un solo desiderio potrebbe mettere fine alla sanguinosa guerra che li sta decimando.
In un tranquillo condominio, l’ordinaria e quieta vita di tre coinquilini ventenni viene irrimediabilmente stravolta dalla scoperta della morte di uno scienziato, loro vicino di casa. Nella sua casa il gruppo di ragazzi scopre una macchina fotografica che scatta polaroid del futuro.
Opera prima di Carlo A. Sigon tratta dal romanzo di Sandrone Dazieri. Sandrone, detto il Gorilla, soffre fin da piccolo di sdoppiamento della personalità. È Sandrone (buono, ironico, un po’ arruffato) e al contempo è Socio (razionale, freddo violento). Investigatore senza licenza, Sandrone/Socio si ritrova ad investigare sulla misteriosa morte di un albanese. La Colorado, dopo Quo Vadis Baby? sembra ormai lanciata sulla strada dei film con “brutti (non tutti), sporchi (spesso) e cattivi (solo un po’)”. Sigon, che ha una grossa esperienza sul piano della pubblicità e dei corti, sa destreggiarsi con abilità nella materia, ben coadiuvato da attori come Bisio, Rocca e Catania. Ha poi l’asso nella manica di un Borgnine divertente e divertito in trasferta italiana per la gioia dei cinefili che ancora ne ricordano le qualità. Resta però una perplessità che non sta tanto nel fatto che ‘non c’è più religione’ (capirete il perché e vedrete però anche che la sceneggiatura cerca subito di riequilibrare) ma nella mancanza di un vero tormento esistenziale che è connaturato al noir e che qui è troppo programmatico per risultare credibile. Le riprese (la notazione è importante per un film che è molto attento ai luoghi) sono state effettuate a Milano, nelle ex cartiere Binda, fabbrica dismessa alla periferia sud della città, e a Cremona dove Dazieri è nato nel 1964.
Situata nel 1987, è una dolente e tormentata storia d’amore tra un conducente d’autobus scozzese e una rifugiata nicaraguense, divisa in 2 parti: Glasgow, il nord del Nicaragua. La prima parte è la più risolta; nella seconda prevalgono gli intenti di propaganda politica, l’indignazione morale, la carica di denuncia critica contro il governo USA e la CIA per la sporca guerra dei Contras nel Nicaragua sandinista. Scritto con l’avvocato Paul Laverty.
20° film per il cinema di Loach, è il meno realistico ma il più divertente e fantasioso. Il merito è anche di Paul Laverty che gli ha scritto in 10 anni più di 8 film e un episodio di Tickets dove si sfiora l’ambiente del calcio. In concorso a Cannes 2009, fu poco capito da molti critici, italiani e non, inclini a ritenere, specialmente ai festival, il comico inferiore al drammatico. Non è un film su Cantona, anomalo ex giocatore francese del Manchester United, famoso in campo e fuori, di cui pure si mostrano diversi strepitosi goal. È solo un fantasma che dà lezioni di etica e di comportamento al protagonista, 50enne impiegato postale che ha sbagliato quasi tutto nella vita (come innamorato, marito, padre) ma non nell’amicizia, sul lavoro. Sono i suoi colleghi che, in una sequenza di strabiliante buffoneria, lo liberano dai ricatti di un gangster psicopatico e trascinano il racconto a una clamorosa lieta fine. Distribuisce BIM, ammirevole abbonata ai film di Loach.
Woody Allen cerca di fare il suo Otto e mezzo proponendo se stesso a mo’ di Fellini, un regista in crisi che firma la sua crisi. Risultando poi molto meno divertente (e profondo) del suo solito. Lo vediamo alle prese con produttori preoccupati del risultato commerciale del suo ultimo film, lo vediamo ricordare i suoi rapporti con tre donne (tutte più o meno nevrotiche) e, naturalmente, difendersi anche dagli ammiratori (ciascuno dei quali commenta assurdamente le sue opere).
Woody Allen prende in giro la rivoluzione sessuale ispirandosi a un manuale sull’argomento che fu un best-seller di quegli anni. Il film è diviso in sette episodi.
I carabinieri del re arruolano e spediscono in guerra due sottoproletari promettendo avventure, viaggi e ricchi bottini, i due, dopo aver fatto il loro dovere uccidendo in mezzo mondo e spedendo cartoline alla madre e alla sorella, Il più dichiaratamente brechtiano tra i film di Godard, non tanto perché vicino al tema di Un uomo è un uomo la divisa che trasforma l’uomo in assassino quanto per il tentativo di applicare al cinema la tecnica dell’estraniamento: quando uno dei protagonisti, durante le sue scorrerie, capita in un cinema, prima si spaventa per l’effetto della locomotiva che si fa incontro agli spettatori, poi cerca di scoprire le nudità di una bella bagnante, di afferrarla sullo schermo; ma il cinema è finzione e tra le mani gli rimane un lenzuolo. La fotografia, il montaggio, le didascalie di Les carabiniers sottolineano continuamente la presenza del « mezzo » tecnico, chiedendo continuamente al pubblico il distacco dalla vicenda.
A Kabul una dodicenne è costretta dalla madre a travestirsi da ragazzo per poter uscire in strada in cerca di un lavoro per sfamare una famiglia di sole donne. Reclutata dai talebani in una scuola coranica, è scoperta e condannata a morte, ma un vecchio mullah la chiede in sposa, portandola a casa insieme alle altre tre mogli. 1° film afghano dall’avvento e dopo la caduta del regime talebano. Segna il rientro in patria del suo autore dopo anni di esilio in Pakistan. Aiutato dalla società di Mohsen Makhmalbaf e postprodotto in Iran. Film claustrofobico di squisita eleganza figurativa, attenta alla lezione dei migliori registi iraniani (A. Kiarostami, S. Makhmalbaf) di cui condivide il principio pudico della sottrazione nel rappresentare la violenza: suscita angoscia prima ancora che indignazione per il modo in cui mette in immagini, in un regime totalitario e fanatico, la condizione disumana della donna che può essere (in misura restrittiva) a patto di non apparire . C’è un unico spiraglio aperto sul sogno-desiderio: quando la protagonista gioca a saltare la corda. Fotografia: Ebrahim Ghafuri. Camera d’Or e Medaglia Fellini dell’Unesco alla Quinzaine di Cannes 2003. Globo d’oro al miglior film straniero.
Joe, piccolo ma fortissimo, lavora per Spencer, ufficialmente per trasferire del bestiame, in realtà per contrabbandare uomini da una parte all’altra del confine Usa-Messico. Quando Joe si ribella, Spencer gli mette alle calcagna una squadra di killer, ma il piccolo cinese è imbattibile.
La storia della guerra nella contea di Johnson nel Wyoming. I grandi allevatori organizzano una spedizione punitiva contro i contadini. Ma costoro si difendono strenuamente guidati da uno sceriffo. Uno dei più grossi smacchi commerciali degli anni Ottanta. Portò al fallimento la United Artists e alla morte presunta il genere western.
Confuso melodramma su una ragazza costretta dalla povertà ad andare a lavorare in una salina. È insidiata dal sorvegliante, ma protetta da un bravo ragazzo.
Un gruppo di lavoratori dello spettacolo, capitanatati da Sabina Guzzanti, decide di mettere in scena le vicende controverse relative alla cosiddetta “trattativa”, quella che sarebbe intercorsa tra Stato e mafia all’indomani della tragica stagione delle bombe (Roma, Milano, Firenze). In un teatro di posa, dunque, un gruppo di attori ricostruisce, nei modi di una “fiction giornalistica”, i passaggi fondamentali di una vicenda complessa e piena di omissis che inizia dall’uccisione di Falcone e Borsellino fino ad arrivare al processo che vede sul banco degli imputati, fianco a fianco, politici e mafiosi. Vent’anni di storia italiana: l’uccisione di Salvo Lima, il maxi processo, la strage di Capaci, l’uccisione di Borsellino, le bombe a Roma, Firenze, Milano, la fallita strage allo Stadio Olimpico… con i suoi discussi protagonisti: Riina, Provenzano, Ciancimino padre e figlio, Caselli, i capi del Ros Mori e Subrani, Napolitano, Mancino, Scalfaro, i pentiti, Gaspare Spatuzza, Mutolo, Dell’Utri, Mangano… e Berlusconi, ovviamente, quello vero e quello fatto dalla Guzzanti. La trattativa, presentato Fuori Concorso alla Mostra di Venezia 2014, è un progetto al quale Sabina Guzzanti ha lavorato per molto tempo e che le ha richiesto, immaginiamo, una grandissima mole di lavoro. Oltre alle ricerche e alla raccolta dei tantissimi materiali e fonti, la parte più complicata ha coinciso con la “forma” della messa in scena, ovvero quale dispositivo utilizzare per raccontare questa vicenda. Molte potevano essere le alternative, e ognuna portatrice di conseguenze. La Guzzanti sceglie di dichiarare il meccanismo, si auto-denuncia, dice sin da subito che quella che si sta per vedere è una rappresentazione realizzata da dei lavoratori dello spettacolo, quindi svela gli “autori” (non giornalisti, non documentaristi, non magistrati, non storici) e il linguaggio utilizzato. Quel che si vedrà, tra materiali di repertorio, interviste realizzate ad hoc, docu-fiction, pannelli grafici e quant’altro, è il frutto di una ricostruzione siffatta, accurata ma anche “inventata”, eppure assunta come vera. L’aspetto più problematico di un’operazione come questa riguarda proprio la forma della messa in scena, in riferimento alla materia trattata, perché lì risiede la sua ambiguità. È finzione (spettacolo?), eppure si dice come sono andate le cose. In questo mischiare repertori e ricostruzioni, intercettazioni e deposizioni, interviste e cabaret, è difficile sapere chi dice cosa, se un dialogo è inventato o il resoconto di un fatto realmente avvenuto, se un passaggio è frutto di una deduzione giornalistica o probatoria, se il tic di un personaggio è una caricatura oppure una imitazione. E questo “dubbio”, in alcuni casi facilmente risolvibile in altri meno, sposta il film verso lidi remoti, para-televisivi, da cabaret di denuncia, facendo saltare l’impianto documentale e documentario a favore dello spettacolo della dietrologia in un girotondo che fa girare la testa. Questa confusione richiede l’accettazione aprioristica della “bontà” degli autori, da una parte, e anche la comprensione profonda della parzialità della ricostruzione. Sembrerebbe ovvio, ma non è proprio così, per quel tanto di intenzione didattica e didascalica espressa sin dalle prime battute del film, subito dopo la boutade di Gaspare Mutolo alla prova d’esami di teologia, conversione carceraria e mai tardiva. All’inizio la Guzzanti con sguardo aperto e chiaro, rivolgendosi allo spettatore, ci dice in che cosa è consistita la trattativa. Non ha dubbi sul fatto che sia esistita o meno, altrimenti non avrebbe fatto il film, e porta una serie consistente di deduzioni, ma la verità è nelle sue mani e non si fa problemi a mischiare questo e quello, finzione e realtà, sudore e cerone, imitazione e ritratto, testimoni e attori, libretti rossi con libretti rossi… Alla fine, ci chiediamo, che cosa è questo film? È un film di denuncia? Un film a tesi? Una docu-fiction? Un articolo di Travaglio? Uno spettacolo teatrale? Una puntata estesa di Santoro? Una serata speciale di Fazio curata dalla Dandini? È cinema? È televisione? Oppure una web-serie a puntate? Troppe domande, poche risposte. Allora eccone alcune. È utile? Dipende. È bello? Non proprio. È appassionante? A tratti. Se ne esce arricchiti o frastornati? Più la seconda. Si ride? C’è poco da ridere. Vuol far ridere? Un po’ sì. È ammiccante? Certo. Parla al suo uditorio? Senza dubbio. Convincerà chi la pensa diversamente? Non tanto. Fa domande o dà risposte? È un prontuario di risposte. Avrà successo in sala? C’è da sperarlo. Perché? Perché è meglio parlare di queste cose che non. È ritmato? Si. Annoia? No. Indigna? Solo chi non s’è fatto un’idea prima. Tira colpi bassi? Domanda inutile. C’entra qualcosa con Belluscone – Una storia siciliana, il film di Maresco? Niente: quello di Maresco è cinema e parla degli italiani, questo della Guzzanti è una docu-tv-fiction e parla agli italiani. Quello di Maresco è un urlo di dolore, quello della Guzzanti è semmai un urlo di terrore, bloccato in un ghigno.
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