Da un romanzo di Kenneth Fearing, sceneggiato da Jonathan Latimer. Jannoth (Laughton), magnate della stampa, uccide per gelosia la propria amante e incarica uno dei giornalisti più brillanti (Milland) del “Crimeway Magazine” di scoprire il colpevole. L’investigatore scopre una serie di indizi che sono tutti a suo carico. Vispo thriller la cui ingegnosa vicenda criminale fa perno su un simbolico grande orologio, metafora del potere malefico di Jannoth. Notevole il personaggio eccentrico di E. Lanchester. “È uno dei thriller più vicini alla perfezione che io conosca” (Joe Dante). Rifatto con Senza via di scampo (1987).
Uno dei due guardiani di una grande diga, vicino all’Adamello, è costretto a scendere a valle in seguito alla nascita di un figlio. Il suo posto viene preso da un giovane studente. I rapporti fra quest’ultimo e il rude montanaro, del quale è diventato collega, dapprima sono freddi e imbarazzanti, poi fra i due nasce una amicizia sincera, nella serenità delle candide distese nevose, delle montagne maestose, del silenzio.
Dal romanzo (1945) di Carlo Levi (1902-75): un intellettuale torinese, medico e scrittore antifascista a contatto con l’antica civiltà contadina della Lucania dov’è confinato intorno al 1935. F. Rosi mette la sordina alla dimensione antropologica e magica del bel libro di Levi e l’accento su quella sociale e politica. Un po’ raggelato nei paesaggi o lirici o didattici, ma ammirevole per l’intensità della sua delicatezza. Accanto a un G.M. Volonté introspettivo e sommesso e ad attori naturali ben guidati c’è un ottimo P. Bonacelli. La versione televisiva dura 270 minuti.
Un padre troppo occupato trascura la figlia e per farsi perdonare la porta a Busan dalla madre. Intanto un virus che trasforma in zombi si diffonde e mette in ginocchio il paese. Quel che è accaduto al paese accade in piccolo anche sul treno: una singola persona infetta scatena una reazione a catena in un ambiente ristretto e lanciato a tutta velocità verso la salvezza, e i caratteri dei personaggi emergono, le differenze sociali veicolano la lotta per sopravvivere, minacciata dall’egoismo di chi è abituato a esercitare il potere. Alcune soluzioni sono troppo facili per dare allo spettatore la possibilità di empatizzare con i buoni, sminuendo il climax emotivo. Trucco ed effetti speciali strabilianti premiati in svariati festival internazionali.
Storia del West è un fumetto western creato da Gino D’Antonio e Renzo Calegari[1], nel giugno 1967 e pubblicato dalla Edizioni Araldo (oggi Sergio Bonelli Editore), all’interno dei 162 numeri della Collana Rodeo per un totale, originariamente, di 73 albi editati (la serie venne in seguito ampliata, fino a raggiungere il numero di 75 albi[1]). Tra i disegnatori che si sono alternati alla realizzazione del fumetto si possono ricordare, oltre ai creatori Gino D’Antonio e Renzo Calegari, Sergio Tarquinio e Giorgio Trevisan. Le copertine originali sono tutte di Gino D’Antonio. A differenza di altri fumetti, Storia del West non ha un personaggio principale, ma una serie di figure che si avvicendano nel ruolo del protagonista. In ogni caso baricentro delle avventure è l’epopea dei MacDonald e degli Adams, che si snoda dagli inizi dell’Ottocento, con l’arrivo nel 1804 del capostipite Brett MacDonald nel nuovo mondo, fino agli anni ottanta dello stesso secolo. Sono protagonisti degli episodi molti personaggi realmente vissuti, tra i quali solo per citarne alcuni: Wild Bill Hickock (quasi un protagonista in molti numeri), Buffalo Bill, Calamity Jane, Custer, Wyatt Earp. Anche alcuni celebri capi tribù pellerossa saranno presenti negli albi, e tra questi: Toro Seduto, Cavallo Pazzo, Geronimo, Cochise e Capo Giuseppe. Naturalmente, ci sarà spazio anche per il Kit Carson storico; omonimo al (Kit Carson) presente anche in Tex.
La storia della più grande casa editrice di fumetti del mondo in un maxivolume di 350 pagine! Un oceano di colori, fumetti e illustrazioni, corredato dai testi di tre saggi dei comics USA: Peter Sanderson, Tom Brevoort e Tom DeFalco, che ripercorrono le gesta, i personaggi, gli autori, i trionfi e i drammi della Casa delle Idee dal 1939 ai giorni nostri. Settant’anni di Meraviglie, da Marvel Mystery Comics a Secret Invasion, da Captain America a Dark Reign. Prefazione di Stan Lee e postfazione di Joe Quesada.
La Terra viene invasa da malvagi alieni, i Morb. Solo un uomo avrà il coraggio di combatterli: Brad Barron, brillante biologo docente della Columbia University ma anche uomo d’azione, distintosi come soldato durante la seconda guerra mondiale (ne è una prova una cicatrice sul volto procuratasi in Normandia) con il grado di tenente.
Versione cow boy di Calamity Jane per le storie di Andrea Lavezzolo e i disegni di Sandro Angiolini e Franco Donatelli (n. 15). Copertine di Angiolini (nn. 1/14) e Donatelli (n. 15). Completano gli albi “Gli invincibili”, disegni di Franco Donatelli (nn. 1/11) e di PONCIO LIBERTAS, disegni di Le Rallic (nn. 12/15). Anno di prima pubblicazione: 1951
Samira ha tanti anni e un dolore grande: ha perso sua figlia, uccisa dal cancro e da una vita tribolata nella periferia di Palermo. Da sette anni la ritrova in un cimitero assolato e desolato, dove sfama cani e cuccioli prima di riprendere la strada di casa alla guida della sua Punto e a fianco di un genero ostile. Rosa ha una madre da lasciare andare e un passato da dimenticare a Palermo, dove accompagna Clara, la donna amata, al matrimonio di un comune amico. Inquieta e infastidita da una città da cui è fuggita anni prima, infila via Castellana Bandiera, un strada stretta e senza senso di marcia. In direzione ostinata e contraria arriva Samira e chiede il passo per raggiungere la sua casa a pochi metri dall’impasse. Contrariata e altrettanto risoluta, Rosa è decisa a mantenere la posizione. Irriducibili sotto il sole tenace di Palermo, Samira e Rosa si affronteranno in un duello che non contempla resa e retromarcia. Di un uomo caduto morto in un duello non si penserà che “abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista”, scrive Cormac McCarthy in “Meridiano di sangue”. Allo stesso modo Emma Dante, regista teatrale che debutta al cinema, elude ‘giustificazioni’ o allineamenti, decidendo per il dicotomico senza stabilire una vittoria di una parte sull’altra o affermare quello che è giusto su quello che invece è avvertito come inopportuno. Rosa e Samira sono opposti che si osservano e si affrontano a una distanza limite. Figlia di un’altra madre e madre di un’altra figlia, sono selvagge votate alla distruzione vicendevole, corpi in stretto rapporto e dotati dello stesso corredo di dolore. La natura identica e testarda origina allora la tragedia, riflettendole geometricamente e impedendole a praticare la tolleranza e l’integrazione emotiva dell’altro. Calate in un clima ‘pagano’, che mette in scena le incomprensioni e le follie di una comunità, le protagoniste (si) ingombrano la strada del titolo e lasciano fuori campo il buco, un vuoto, uno strappo, una ferita ‘non filmabile’. Oggetto di spettacolo diventa perciò la loro ostinazione all’immobilità. Schierate l’una di fronte all’altra come in un western classico veicolano pulsioni dissidenti e negative, infilando con via Castellana Bandiera il punto di non ritorno. Il duello, celebrazione dell’ordine sulle eventualità disgregative del disordine, nel dramma di Emma Dante genera al contrario una forza distruttiva che diventa espressione fondante della pulsione di morte dei suoi personaggi. Nessuno escluso. Non ci sono regole da stabilire (e da rispettare) in via Castellana Bandiera. Dove la forza produce un diritto e la gente abita lo stesso numero civico, c’è piuttosto da scommettere sul cavallo vincente. Acme del racconto, il duello made in Italy tra una Punto e una Multipla non risolve le tensioni create dalla narrazione ma le provoca definendo geometrie che si dispongono nella profondità delle protagoniste e da lì ripartono contaminando parenti, vicini, curiosi, avventori. Disagio e inesorabilità si distribuiscono frontalmente e si incarnano in donne incapaci di qualsiasi ricognizione, di qualsiasi compassione, di qualsiasi ripresa. Interpretato dalle efficacissime Elena Cotta e Emma Dante, ‘affiancata’ dalla Clara di Alba Rohrwacher, Via Castellana Bandiera è un film a imbuto che trascina idealmente e concretamente in un gorgo di smarrimento infinito i suoi personaggi. Confronto tragico e lontano da qualsiasi purezza eroica, l’opera prima di Emma Dante ci lascia testimoni muti e agghiacciati. Impossibilitati a intervenire inserendo la retromarcia per evitare la deriva e liberare la strada a un ‘paese’ bloccato e incapace di ripartire. Se non in direzione della collisione e del suo esito sciagurato.
Viavai tra Parigi e un castello dei dintorni dove un nobile ubriacone (O. Iosseliani) passa il tempo a guardare trenini elettrici, mentre la moglie (L. Lavina) fa affari e il figlio Nicolas (N. Tarielashvili), travestito da povero, frequenta a Parigi ladruncoli e vagabondi, impegnato in lavoretti precari. Sotto le apparenze di affollata commedia giocosa in cadenze divertite di balletto (o di giostra?), raccontata con lo sguardo ironico da filosofo stoico e antropologo un po’ svagato, il regista georgiano continua il suo imperterrito discorso sull’assurdità, i meccanismi e i vizi (la cupidigia innanzi tutto) della vita sociale. Film da guardare e da ascoltare (più che cercarne segni, significati, morale), per cavare tutto il piacere di una sapienza combinatoria in cui sfociano varie influenze, da Buñuel a Ophüls. Per Iosseliani spirito (inteso come alcol), spiritoso e spirituale hanno la stessa radice.
Meg e Brad Russell hanno finalmente trovato la casa dei loro sogni, il luogo ideale per far crescere i loro due figli, Tyler e Gina. Peccato che ben presto la piccola Gina inizia a vedere delle inquietanti “fatine”, che ne turbano la serenità domestica. I genitori la portano da uno psichiatra, ma non si rendono conto che le creature che vede la bambina sono reali ed estremamente pericolose… Ennesima variazione sul tema di Poltergeist, con il protagonista di Arancia meccanica, Malcom McDowell, nel ruolo dello psichiatra.
Remake del film L’avventura del Poseidon (1972): durante la festa di Capodanno, il gigantesco transatlantico Poseidon è travolto da un’onda anomala. Uno sparuto gruppetto di personaggi cerca di mettersi in salvo tra mille difficoltà. Effetti speciali strabilianti, ritmo narrativo e di montaggio sempre molto sostenuto, scarsa credibilità (inevitabile) di alcune scene e soprattutto di personaggi (discreti gli interpreti ma senza esagerare) che diventano un po’ troppo in fretta invincibili e inarrestabili, buona suspense a tratti efficacemente claustrofobica, regia di robusto mestiere. Ben poco da ridire, eppure alla fine molto si dimentica e resta invece inalterata la memoria dell’originale.
Odissea di 10 personaggi intrappolati in un transatlantico rovesciato da una gigantesca ondata. Dopo Airport, negli anni ’70 rilanciò la moda del catastrofico. Il piattoforte sono le suggestive scenografie (capovolte) di W. Creber. Oscar per la canzone “The Morning After”, candidature per fotografia (H. Stine), musica (J. Williams) e Shelley Winters. Seguito da L’inferno sommerso.
Primavera in una piccola città è un film cinese in bianco e nero del 1948 , scritto da Li Tianji ( cinese :李天濟; pinyin : Lǐ Tiānjì ) e diretto da Fei Mu , un regista noto per il suo ritratto empatico delle donne.È stato prodotto e finanziato dalla Wenhua Film Company , il cui grande deficit finanziario all’epoca portò a produrre Spring in a Small Town con un budget basso con una trama e un’ambientazione minimaliste . Il film presenta solo cinque personaggi, e si concentra sulle lotte di un marito e una moglie, e sul conseguente tumulto quando Zhang Zhichen, ex compagno di classe di Liyan e, ironicamente, ex amante di Yuwen, fa una visita non programmata alla residenza.
Il film è ambientato in un complesso familiare in rovina in una piccola città nella regione di Jiangnan dopo la guerra sino-giapponese e racconta la storia della famiglia Dai, un tempo prospera. Il film si apre con Yuwen ( Wei Wei ) che cammina da sola lungo le rovine delle mura della città, raccontando la natura circolare e dal ritmo lento della sua vita. Suo marito Liyan (Shi Yu) è malato e si crogiola nella triste realtà della perdita della sua famiglia. A causa della sua malattia e depressione, il suo matrimonio con Yuwen è stato a lungo senza amore, sebbene entrambi rimangano coniugi rispettosi l’uno verso l’altro. Liyan trascorre le sue giornate nel cortile esprimendo nostalgia per un momento migliore. Nel frattempo, la giovane sorella adolescente di Liyan, Xiu (Zhang Hongmei), troppo giovane per ricordare il passato, resta allegra e giocosa tra le rovine della loro casa. Lao Huang (Cui Chaoming) è un vecchio servitore della famiglia Dai che rimane fedelmente con la famiglia.
Un impiegato accetta di diventare assassino su commissione pur di guadagnare denaro. Si dimostra anche bravo finché non gli ordinano di uccidere una donna. Allora si intenerisce e ci rimette la vita.
Un extraterrestre scende sulla Terra con l’intenzione di sfruttare le sue conoscenze scientifiche più evolute per approntare le misure necessarie a salvare dalla siccità il suo pianeta morente. Assunte sembianze umane e il nome di Thomas Jerome Newton, l’alieno fonda ben presto un impero finanziario rivoluzionando il mondo delle comunicazioni ed avviando la costruzione di un’astronave per trasportare acqua alla sua gente. Mary-Lou, donna con la quale ha stretto amicizia, scopre la vera identità di Newton e il professor Bryce, venutone a conoscenza, lo denuncia alle autorità. I beni di Newton vengono sequestrati e incamerati dallo Stato e Newton stesso è fatto oggetto di studio da parte degli scienziati governativi. Rapito, torturato, umiliato, e infine svuotato di ogni volontà, l’alieno diventa sempre più simile all’uomo: abbrutito dall’alcol e in completa solitudine, continua a vegetare tra gli uomini tormentato dalla visione della sua famiglia, della sua gente e del suo pianeta morenti. Ispirandosi liberamente al romanzo di Walter Tevis, Nicolas Roeg realizza un’opera drammatica e visionaria, pregevole per ricchezza formale e coinvolgente. Più interessato al contenuto della vicenda che non ai possibili risvolti avventurosi, Roeg concentra la sua attenzione sul protagonista. Attraverso un sapiente mosaico di inquadrature che confondono i confini spazio-temporali, il regista conduce lo spettatore a sostenere emozionalmente la tragica esperienza dell’extraterrestre che in un processo di degradazione psicologica e fisica è forzato a farsi uomo per abbandonare la sua (inquietante per gli uomini) diversità. Una storia simbolica, che sacrifica in più di un momento la struttura logica, per far risaltare la bassezza delle passioni umane, dall’odio all’invidia, l’istinto aggressivo e la paura del perturbante.David Bowie nel ruolo dell’alieno/Newton fornisce la sua interpretazione migliore e più convincente.Il soggetto ricorda nelle linee essenziali quello di un trascurato film del 1951, The Man from Planet X. Rifatto per la televisione nel 1987 (S.O.S. Terra, titolo italiano per The Man Who Fell to Earth).
MacGyver è una popolare serie televisiva di avventura creata da Lee David Zlotoff e interpretata da Richard Dean Anderson, che impersona l’ingegnoso agente segreto Angus MacGyver. Il telefilm è andato in onda negli Stati Uniti per sette stagioni, dal 1985 al 1992, e ha ottenuto grande successo anche in Italia, trasmesso per la prima volta su Italia 1, ogni mercoledì sera in prima serata nel 1986, inserito successivamente in programmazione quotidiana nelle fasce orarie pomeridiane, dal 1988 sino al 1992.
MacGyver è un agente operativo di un’Agenzia Governativa (chiamata DXS che sta per Department of eXternal Services) che, successivamente, diviene un attivo collaboratore della Fondazione Phoenix. È un eroe solitario che non fa uso di violenza né di armi da fuoco. Aiuta i deboli, rispetta l’ambiente, ama il prossimo ed è fiducioso nella legge. È single e a differenza dei cliché degli eroi solitari non è un donnaiolo. In sette stagioni ha poche relazioni d’amore, una delle quali gli diviene quasi fatale. MacGyver è un ex giocatore di hockey, cresciuto e laureatosi in Minnesota, che vive e opera a Los Angeles, pur spostandosi laddove le sue missioni lo richiedono. Le sue armi sono l’ingegno e l’intelligenza e i suoi unici equipaggiamenti sono un coltellino svizzero e talvolta anche nastro adesivo, che utilizza spesso nei suoi cosiddetti “macgyverismi”, opere dell’ingegno con oggetti e cose che trova attorno a lui.
Un film di William A. Wellman. Con James Cagney, Jean Harlow, Edward Woods, Beryl Mercer, Donald Cook. Titolo originale The Public Enemy. Drammatico, b/n durata 84 min. – USA 1931. MYMONETRO Nemico pubblico [1] valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nell’America del 1909, alle soglie del proibizionismo, il ritratto senza reticenze dell’ascesa e della caduta di un gangster, Tom Powers (James Cagney), dall’infanzia trascorsa nelle strade di un quartiere povero di New York alle prime imprese criminose insieme con il fido amico Matt Doyle (Edward Woods), dagli amori travagliati con la fidanzata Kitty e la bellissima Gwen Allen (Jean Harlow) alla tragica fine per mano di una banda rivale. Interpretato da un vibrante James Cagney, capace perfino di far assumere al personaggio dimensioni eroiche nonostante la sua totale negatività, è insieme a Piccolo Cesare e Scarface il film che meglio rappresenta il genere ‘gangster movie’. La serratissima regia di William Wellman si esalta in alcune sequenze chiave come il laconico finale con l’abbandono del cadavere di Cagney davanti alla casa della sua famiglia.
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