Una saga post-apocalittica che attraversa più linee temporali, raccontando le storie dei sopravvissuti a un’influenza devastante mentre tentano di ricostruire e reimmaginare il mondo da capo conservando il meglio di ciò che è stato perso.
Sceneggiato da Castellano & Pipolo, è un insieme di episodi farseschi sulle manie di moda: collezionismo, spogliarello, cambiali, tifo sportivo, ecc. Satira annacquata nel qualunquismo.
Il giapponese Mori torna a Seoul per ritrovare Kwon, che non vede da due anni. Nel frattempo vive alcune curiose avventure in città, che racconta in una lettera a Kwon, nella speranza che questa possa leggerla. Aprendo la lettera Kwon fa cadere le pagine, smarrendo così il loro ordine sequenziale: le leggerà in questa nuova sequenza, cercando di ricostruire quanto avvenuto a Mori. L’arte quantomai complessa di mutare tutto senza mutare apparentemente nulla appartiene sempre più a Hong Sang-soo, un anti-gattopardo del cinema, che prosegue incessantemente nella sua opera di cesello di storie minimaliste e divertissement che, tra uno scherzo registico e l’altro, trovano il tempo di filosofeggiare sull’esistente. Hill of Freedom non fa eccezione, anzi, pare quasi un ulteriore passo avanti, nonostante la lunghezza contenuta, nella poetica del regista sudcoreano. In meno di 70 minuti Hong trova il modo di condensare gli espedienti narrativi e le tecniche di ripresa a lui più care: zoom e piani fissi prolungati accompagnano un’ardita scomposizione tra fabula e intreccio, un nuovo esperimento à la Resnais sull’arte dello storytelling. Cinema e vita paiono ormai indistinguibili, ambedue suddivisi in fotogrammi, ambedue scanditi da un Tempo tiranno che pare oggettivizzare concetti in realtà soggettivi. Passato, presente e futuro sono solo proiezioni dell’uomo, come spiega lo spaesato Mori, ignaro di essere egli stesso il fulcro della dimostrazione empirica di questo concetto. Ma è il tocco a fare la differenza, quella raffinata carezza che è tale anche e soprattutto in contrasto rispetto a uno stile scarno e volutamente semplicistico. Ancora una volta il dialogo tace quando è l’amore a parlare, ma è soprattutto indicativo che Hong scelga l’ellissi quando sono i pugni a parlare, non mostrando ciò che chiunque mostrerebbe, in coraggiosa controtendenza con un preponderante e diffuso esibizionismo registico. Hong appartiene a un’altra epoca e a un’altra idea di cinema, senza farne mistero. Ma in fondo renderla anche la nostra epoca è solo una questione soggettiva: di passato, presente e futuro.
Eugenia è legata ad Enzo da un tenero sentimento, ma quando appare Giovanni si innamora anche di lui. Le difficoltà di inserimento nella vita sociale portano Eugenia ed Enzo alla decisione di raggiungere l’Africa e Giovanni, rimasto solo, si lascia morire.
Rose ha una figlia, Sharon, che sta morendo per una terribile malattia. L’ultimo tentativo per salvarla è portarla da un guaritore, e, contro la volontà del marito, Rose fugge con la bambina. Direzione: Silent Hill. Ispirarsi a un videogioco, per il cinema, non è mai stata una cosa semplice. Le trame dei game sono studiate a livelli, a crocevia, mentre una sceneggiatura cinematografica deve essere scorrevole, dettagliata, seguire una “consecutio temporum”. C’è però un elemento che i due mondi hanno in comune, ovvero l’opportunità di creare atmosfere, visive e sonore.
Nel 1938 a Zurigo una giovane cantante tedesca ama un musicista ebreo. La guerra li separa. La cantante, tornata in Germania, diventa famosa grazie alla canzone “Lili Marleen”. A guerra finita si reca a Zurigo dove trova l’amato Robert sposato. Ispirato al romanzo autobiografico della cantante Lale Andersen Il cielo ha molti colori , il film apre idealmente la quadrilogia fassbinderiana sulla Germania in forma di un cinemelodramma in cui è difficile distinguere dove finisce il Kitsch nostalgico perseguito con voluttuoso accanimento e dove comincia la bischeraggine invereconda. La vera ragione di vederlo è la Schygulla. La famosa canzone (scritta nel 1916, musicata nel 1930 e registrata nel 1938) ha ispirato altri 3 film: 2 britannici (1952, 1970) e uno tedesco (1956).
Un film di Werner Herzog. Titolo originale Echos aus einem düsteren Reich. Documentario, durata 90′ min. MYMONETRO Echi da un regno oscuro valutazione media: 3,00 su 3 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Michael Goldsmith, corrispondente dell’Associated Press dal Nordafrica, conduce l’inchiesta su Jean Bedel Bokassa, ex imperatore della Repubblica Centrafricana, spodestato da un colpo di stato, accusato di molti crimini efferati (anche di cannibalismo), condannato a morte in contumacia e poi chiuso nel carcere di Bangui. Diversi tipi di testimonianze e di testimoni, interessati e disinteressati, si alternano con spezzoni di documentari. Non mancano gli inserti di taglio grottesco e surreale: i granchi sulla spiaggia all’inizio, lo scimpanzé che fuma alla fine, immagine insopportabile perché, al tempo stesso, troppo umana e troppo vera. Più che un documentario sugli orrori della realtà è un’indagine sulla natura del potere dispotico, è “un film sulla menzogna, sull’inattendibilità, sulla messa in scena della testimonianza” (A. Pezzotta). Fotografia di Jörg Schmitte-Reitwein, musiche di J.S. Bach, A. Vivaldi.
Malick con questo documentario ritorna all’essenza del cinema e grazie alla sola potenza delle immagini stimola la riflessione rammemorante dello spettatore sull’esistenza umana e ne provoca lo stupore, con la stessa forza con cui quel treno dei Lumiere, all’inizio, destò la meraviglia del pubblico nel primo cinematografo.
Durante le guerre napoleoniche, tra il 1808 e il 1810, il capitano inglese Hornblower contende una bella dama all’ammiraglio Leighton. Sontuoso film di avventure in costume ben girato da Walsh e tratto da ben 3 romanzi di Forester. Girato a Londra per gli interni. Esterni di mare al largo tra Nizza e Monaco.
Biografia dello statista democristiano Alcide De Gasperi (1881-1954) dal massacro delle Fosse Ardeatine sino alla morte. Accolto severamente dalla critica come una penosa compromissione col potere democristiano, determinato dalla committenza di un editore di destra (E. Rusconi), può essere letto come il tentativo di fare un film di storia contemporanea che riassuma il decennio della ricostruzione realizzata con la collaborazione di tutti i partiti dell’arco costituzionale (fu fatto alla vigilia del “compromesso storico” tra DC e PCI). Il didascalismo smorza il pathos del racconto, fiacco specialmente nel nesso tra vicende pubbliche e private (il finale, comunque, è uno dei più asciutti e tristi di Rossellini), ma fa da spia al distacco con cui si rievocano gli avvenimenti.
Assicuratore indaga sulla morte di donna anziana, sospetta sua figlia e per sapere la verità ne diventa l’amante. Tratto dal romanzo La morale privata di Antonio Leonviola e sceneggiato, tra gli altri, da Suso Cecchi D’Amico e Raffaele La Capria, è un dramma dove la struttura dell’investigazione è soltanto un pretesto: si indaga sui sentimenti, non sui fatti; non sulle azioni, ma sulle motivazioni. “Come attrice Paola Pitagora mi piaceva molto e ho fatto il film per lei” (L. Comencini).
Il vulcanologo John Sherpherd e un suo allievo giungono ad una terribile scoperta: presto tutti i vulcani del mondo erutteranno sterminando ogni creatura vivente. Cercherà cosi di convincere le autorità riguardo la veridicità della sua scoperta e del terrificante pericolo che incombe..
Re Artù, con l’aiuto di Lancillotto del Lago, fonda la Tavola Rotonda e porta la pace in Bretagna. Ma i due guerrieri sono divisi dall’amore che Ginevra, la moglie del re, porta (castamente) a Lancillotto. Della cosa approfitta il malvagio Mordred, che istiga i cavalieri alla rivolta. Artù muore. Lancillotto lo vendica. Ginevra si fa suora.
Bologna, 1938. Il prof. Michele Casali, docente al Liceo “Galvani”, ama in modo assoluto la figlia Giovanna, bruttina e con problemi psicologici. La ama al punto di estraniarsi la moglie e non cessa di amarla quando lei uccide per gelosia una bella compagna di scuola. Abbandona casa e lavoro per starle vicino quando è richiusa nel manicomio criminale di Reggio Emilia dal quale esce nel 1945. È il film più “russo” di Avati, regista/produttore di lungo corso: in 40 anni 36 regie di cui 31 per il cinema. Oltre ad amare la natia Bologna, Avati ama i suoi personaggi: buoni, cattivi, ambigui, spesso impotenti e perdenti. E sa dirigere gli interpreti anche quando li usa in modo insolito o li recupera (dal passato come fa qui con la Grandi o dalla TV come Greggio). Mette in luce una giovane attrice emergente (la fiorentina Rohrwacher che ha vinto 1 David di Donatello) in un personaggio non facile che passa dai 17 ai 24 anni e impegna il veterano Orlando in un ruolo che è complesso più che ambiguo, visto che risulta negativo come padre, proprio nella misura in cui stravede per la figlia. È un personaggio estremo come, meglio di molti critici, ha capito la giuria internazionale di Venezia 2008 che l’ha premiato con la Coppa Volpi.
È la seconda parte del film fiume dedicato da Troell agli emigrati svedesi in America all’inizio del secolo scorso (la prima parte circolò nei cinema col titolo Karl e Kristina). Qui è descritto l’arrivo della famiglia nel Minnesota. Dopo dieci anni Kristina muore di parto. Karl rimane solo, a portare avanti la famiglia e la terra.
La rivista è centrata sulla figura della ex-pornodiva Selen (Luce Caponegro), che viene trasformata in fumetto dalla matita di Luca Tarlazzi. In ogni numero della rivista è presente un episodio della saga di questa “eroina erotica” tra realtà e immaginazione. Sono poi presenti altri fumetti in gran parte “d’autore” prestati al tema dell’erotismo o della vera e propria pornografia (la rivista è vietata ai minori di 18 anni).
Mancano diversi numeri, non chiedetemeli, non li ho trovati.
Arthur Fleck è in carcere per aver commesso cinque omicidi (in realtà sei, ma di uno la polizia non è al corrente), fra cui quello più clamoroso in diretta tv nazionale, ed è in attesa del processo che deciderà della sua pena: la sua avvocatessa vuole chiedere per lui l’attenuante dell’infermità mentale che riconosca la personalità doppia Arthur/Joker, il viceprocuratore distrettuale Harvey Dent invece vuole la sua testa, invocando la pena di morte. I suoi carcerieri (e aguzzini) lo deridono e lo umiliano, ma uno di loro gli permette (a titolo di scherno) di entrare in un coro di internati di cui fa parte Lee, la giovane donna di cui Arthur si innamora all’istante, intravvedendo in lei la sua prima opportunità di essere realmente visto e accolto: ma Lee è innamorata di lui o del Joker
Al risveglio nel Mondo Spirituale, André Luiz incontra creature tenebrose e minacciose che vivono, insieme a lui, in quel luogo cupo e oscuro. Oltre a ciò è anche atterrito e sconvolto dal fatto che, nonostante sia “morto”, ancora prova fame, sete, freddo ed altre sensazioni fisiche. Dopo un lungo periodo di sofferenza in questa zona di dolore e purificazione dagli errori del passato, viene raccolto da Spiriti elevati e portato alla Colonia Spirituale Nosso Lar, da cui prende nome il film. Da quel momento, André Luiz inizia a conoscere meglio la vita dell’oltretomba e ad apprendere lezioni, acquisendo conoscenze che cambieranno completamente il suo modo di vedere la vita.
Un film di Gregory Ratoff. Con Ingrid Bergman, Leslie Howard Titolo originale Intermezzo, a Love Story. Drammatico, b/n durata 66 min. – USA 1939. MYMONETRO Intermezzo valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un affermato musicista si innamora dell’avvenente insegnante di piano della sua bambina. È un amore impossibile al quale la giovane cede dopo essersi a lungo dibattuta nel rimorso. I due si separano per sempre quando la piccola muore in un incidente automobilistico.
Inghilterra 1940, dopo Dunkerque. Scompaginata compagnia teatrale di giro, tra un allarme e l’altro, recita Shakespeare. Il grande capocomico al tramonto è assistito da un fido segretario tuttofare. Teatro in scatola in confezione di gran classe. P. Yates ha fatto un film che è un appassionato omaggio al teatro e alla sua gente, di ambientazione suggestiva e ritmo serrato. Interpretazione superba di A. Finney e T. Courtenay. Da una pièce di Ronald Harwood, adattata dall’autore.
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