Una bella donna, moglie di un avvocato, confida al suo psichiatra di aver sognato che ammazzavano una sua vicina di casa. Qualche giorno dopo la vicina viene ammazzata davvero.
In una villa di campagna si trovano in otto, divisi in due squadre, a giocare alla roulette cinese: un crudele massacro verbale. Nel finale uno sparo. Non importa chi muore. Lo meriterebbero tutti. Comincia come una pochade, passa alla ferocia di Strindberg, termina come un dramma filosofico di Sartre. Tagliente commedia antiborghese dalla recitazione raffreddata. Non è tra i Fassbinder più felici: greve e manieristico.
Ambientato nella fatiscente periferia di Calcutta, Labour of Love è il racconto lirico di due vite ordinarie costrette dalla spirale della recessione a stare lontane. Sono vincolate a un turno di lavoro e alle faccende domestiche, e passano lunghi periodi nel silenzio di una casa vuota. Condividono la solitaria ricerca di un sogno che pare lontano e che li sfiora ogni mattina.
Aditya Vikram Sengupta, alla sua opera prima, realizza una sinfonia metropolitana, nei meandri di una fatiscente e caotica megalopoli, Calcutta. Praticamente senza parole, i pochi dialoghi non hanno nulla di narrativamente significativo. Una canzone di due esseri umani, di due solitudini, di due coniugi che non si vedono mai, le cui vite non si possono incrociare, costretti a orari e turni di lavoro differenti. Sullo sfondo la violenta recessione che ha colpito anche l’India, e che costringe i protagonisti ad arrangiarsi con tutti i mezzi possibili. Il film si dipana per immagini, il cui susseguirsi scandisce le giornate della vita dei due personaggi. La città, il giorno e la notte, come in un trip sinfonico, come un film di Godfrey Reggio, come un allucinato Les parapluies de Cherbourg sprofondato nella dimensione lorda della città indiana.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Un incidente d’auto fa incontrare ex-scassinatrice che guida un taxi di notte e la ragazza di un gangster che gestisce una bisca di lotte di cani. Per entrambe sarà l’occasione per fuggire da violenze e debiti: organizzano un piano per rubare i soldi delle scommesse, ma non sono le uniche interessate al malloppo. Trama fitta di intrecci, situazioni e consequenzialità temporali spesso di difficile decifrazione. E botte da orbi dispensate da tutti, perché non esiste gangster movie alla coreana senza scazzottate estreme, nonostante il tono semi-serio che attraversa l’intero film. Tanti – forse troppi – i personaggi di contorno, ma la scena è tutta per la coppia di donne.
Tokyo, 1958: il dopoguerra ha offerto alla nazione la possibilità di risorgere, e l’espansione economica è in pieno slancio. Le vicende degli abitanti del downtown, situato nei pressi della Tokyo Tower, si evolvono intrecciandosi. La famiglia del meccanico Suzuki e la loro giovanissima dipendente giunta dalla campagna, il commerciante di dolciumi che sogna di diventare scrittore, la locandiera, il medico: non esistono segreti nel quartiere, e le conquiste di ciascuno influenzano gli altri, in uno squarcio nostalgico di vita comune sullo sfondo di una megalopoli brulicante. Una pregevole ricostruzione storica e ambientale, orientata al nostalgico sia nei contenuti che nella forma, ci catapulta indietro nel tempo, tra personaggi ben caratterizzati e atmosfere confortevoli. Imbevuta di buoni sentimenti e votata all’happy ending, la pellicola colpisce per semplicità d’intenti, trasmettendo un’infornata di messaggi in modo trasparente ed onesto. Buonista e artefatto, ma nel modo giusto.
Tratta dall’autobiografia di Tom Braden, un giornalista di Washington, la serie racconta le vicissitudini della famiglia (televisiva) più famosa degli anni ’70. Dick Van Patten è Tom Bradford, giornalista del “Register” di Sacramento in California; Diana Hyland veste i panni della moglie Joan. I figli sono addirittura otto: David (Grant Goodeve), Mary (Lani O’Grady), Joannie (Laurie Walters), Susan (Susan Richardson), Nancy (Dianne Kay), Tommy (Willie Aames), Elisabeth (Connie Newton) e Nicholas (Adam Rich). La loro età, che varia dai sette anni di Nicholas ai ventitré di David, impegna i genitori a risolvere alcune situazioni proprie della pubertà e dell’adolescenza, non senza aspetti comici e occasioni di divertimento.
Nascita, crescita, apoteosi e inizio di declino di Elvis Aaron Presley, il mito di più generazioni, vengono raccontati e riletti dal punto di vista del suo manager di tutta una vita: il Colonnello Tom Parker. È lui che accompagna, con voce narrante e presenza in scena, la dirompente ascesa di un’icona assoluta della musica e del costume mentre si impegna, apertamente ma anche in segretezza, per condizionarne la vita con il fine di salvaguardare la propria.
Troppo tardi e troppo poco perché la fine del mondo si potesse fermare. E così, come da peggiori profezie eco-apocalittiche, alle 4:44 di un giorno X tutto avrà fine, per una coppia di amanti come per l’umanità intera. “Al Gore was right”. Una profezia recepita tardivamente quella apocalittica del quasi-presidente degli Stati Uniti d’America, sorta di santone che, insieme al Dalai Lama e alle sue riflessioni sull’umanità, ricorre in loop come coro morale del film di Abel Ferrara. Un Ferrara quasi pacificato, quasi sereno di fronte all’apocalisse incombente. La sua tipica figura tormentata tra edonismo e desiderio di autodistruzione, senso di colpa e voglia di redenzione, si annulla nello smarrimento collettivo della comunità umana, in balia di eventi di cui è sfuggito il controllo. E con il tormento dell’individuo sparisce anche la dannazione, sostituita da una voglia di affetto e di composizione dei contrasti, di ultimo godimento dei semplici piaceri della vita, quelli a cui è impossibile rinunciare fino all’ultimo respiro.
Con la tipica carnalità e convivialità dell’autore di New Rose Hotel, l’opera a cui 4:44 Last Day on Earth è forse più accostabile, quella sensazione di abbraccio familiare che coinvolge anche il pubblico; quella fisicità unica, che lo accompagna anche durante i litigi via Skype. Un’empatia che il regista ormai mostra di privilegiare rispetto alla cura formale per il film, girato in digitale e lasciato scorrere in uno stream of consciousness suggestivo ma talora povero visivamente. Sostanza più che forma, faccenda che ancora una volta accenderà i fan di Abel e contemporaneamente scatenerà i suoi (molti) detrattori.
Trovata versione in ita grazie ad un utente, versione 720p in inglese su sito russo (i subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni)
Tina ha un fisico massiccio e un naso eccezionale per fiutare le emozioni degli altri. Impiegata alla dogana è infallibile con sostanze e sentimenti illeciti. Viaggiatore dopo viaggiatore, avverte la loro paura, la vergogna, la colpa. Tina sente tutto e non si sbaglia mai. Almeno fino al giorno in cui Vore non attraversa la frontiera e sposta i confini della sua conoscenza più in là. Vore sfugge al suo fiuto ed esercita su di lei un potere di attrazione che non riesce a comprendere. Sullo sfondo di un’inchiesta criminale, Tina lascia i freni e si abbandona a una relazione selvaggia che le rivela presto la sua vera natura. Uno choc esistenziale il suo che la costringerà a scegliere tra integrazione o esclusione.
Romero, colui che attraverso una figura irreale, lo zombie, aveva negli anni ’70 demolito certezze e instillato dubbi più che concreti, torna a criticare aspramente la civiltà moderna con un film romanticamente crepuscolare e ben riuscito, per quanto non privo di insospettabili difetti. Che Land of the Dead sia un film politico è palese: meno palese (e prevedibile) è il fatto che sia “solo” un film politico. La trama: i morti viventi vagano in una terra disabitata, mentre gli esseri umani si sono rifugiati in una città-fortezza per poter continuare a vivere le proprie vite. Ma al di fuori delle mura l’esercito dei morti viventi sta diventando sempre più numeroso Tensione, suspance e colpi di scena sono quasi completamente assenti e poco riescono le ottime caratterizzazioni dei personaggi a supplire alle mancanze di una sceneggiatura che, se presa come pamphlet sociale risulta essere perfetta (e condivisibile, almeno da un punto di vista proletario), mostra invece le corde sia come elemento portante di uno zombie-movie classico, che come base per un film capace di regalare emozioni forti. Romero è ancora capace di grandi suggestioni e immaginifiche trovate (i fuochi d’artificio la cui visione stordisce e ammalia per un attimo le menti ottenebrate degli zombie), ma oggettivamente qui è poco a suo agio con l’azione vera e propria. Non c’è apparizione zombesca che non appaia telefonata, non c’è personaggio che non abbia già scritto in faccia il suo destino fin dalla prima inquadratura. Sembra quasi che, troppo concentrato sull’inserire messaggi e intra-lettura nella pellicola, Romero si sia scordato la parte relativa all’intrattenimento. L’America, che ha sostenuto ben poco il film, è distante e, probabilmente, lo è anche il resto del mondo cinematografico e non. C’è ancora posto per il cinema di Romero nel 2005? Forse, o forse no, sta di fatto che La Terra dei Morti Viventi è un bel film, anche se la sensazione dominante è che, anche per gli zombie, dopo notti, albe e giorni, sia arrivato davvero il tramonto.
Un commissario governativo e scrittore si reca con il fratello a Dawson City per documentarsi sui cercatori d’oro nel Klondike. I due sono accompagnati da una guida indiana che ha con sé il figlioletto e il lupo Zanna Bianca. Un losco avventuriero, notate le straordinarie qualità dell’animale, non esita a uccidere la guida indiana per impadronirsene, facendo poi anche altre vittime. Nella lotta contro il malvivente, alla fine comunque avrà la meglio il commissario.
Era il 9 ottobre del 1963 quando 260 milioni di metri cubi di terra e rocce del monte Toc si staccarono e franarono nel lago artificiale della diga del Vajont. L’anomala, immensa onda relativa sommerse Longarone. Morirono oltre 2000 persone. Si parlò si fatalità, ma non era così. C’era stato chi aveva previsto la tragedia essendo la diga costruita su un terreno inadatto. La giornalista Tina Merlin cercò di portare alla luce la verità, indagando fra omertà e scarichi di responsabilità. Un funzionario si tolse la vita. Il processo, durato decenni, produsse solo condanne ridicole. Martinelli racconta tutto questo cercando di mediare lo spettacolo (troppi effetti speciali e addirittuta “esagerati”) e l’inchiesta. La Morante è brava ma fin troppo aggressiva. La vera Merlin non era così. Ma, si sa, il cinema ha le sue licenze. Film, comunque, benemerito.
Nicole sta cercando un appartamento per un futuro matrimonio con Dan, il quale è stato di recente radiato dall’esercito ed è senza lavoro. L’agente immobiliare è l’anziano Thierry il quale è segretamente innamorato della religiosissima collega Charlotte la quale gli presta cassette di programmi cattolici al cui termine compaiono lunghe riprese di lei che si spoglia. Charlotte di sera fa la badante al vecchio e satirico genitore di Lionel che fa il barista in un locale di cui Dan è un assiduo frequentatore e in cui dà un appuntamento al buio a Gaëlle, sorella di Thierry. Ancora una volta il Maestro Resnais affronta con il tocco che gli è proprio un nuovo (per lui) modo di fare cinema. Si tratta di teatro di un grande autore come Alan Ayckbourn che gli dà un copione da grande teatro londinese su cui Resnais interviene da par suo. “Le relazioni tra i protagonisti mi fanno pensare alla tela di un ragno drappeggiata tra due cespugli di ginestra spinosa e ricoperta dalla rugiada della notte. Thierry, Charlotte, Gaëlle, Dan, Nicole, Lionel e Arthur sono come insetti, che lottano per sfuggire alla trappola.
Nishida, uno studente di ingegneria, è costretto ad alloggiare in un decrepito caseggiato per risparmiare il più possibile. Situata nei pressi di una base militare americana, la casa è divisa in una decina di piccole stanze ed è abitata per lo più da prostitute, alcolizzati o famiglie di bassissima estrazione sociale; quasi nessuno riesce a pagare l’affitto e la proprietaria dell’immobile, un’avida cinquantenne, non vede l’ora di sfrattare gli inadempienti. L’occasione di cacciare gli inquilini si presenta quando un imprenditore è disposto ad rilevare la proprietà, demolire l’edificio e costruirci un bagno pubblico. Per liberare il caseggiato, la padrone si avvale dei servizi di Jo, un violento delinquente fidanzato con la cameriera Shizuko, innamorata di Nishida.
Blek Macigno, noto anche come il grande Blek, è un personaggio immaginario protagonista di una serie di strisce a fumetti realizzata negli anni cinquanta dal gruppo EsseGesse, formato dai tre sceneggiatori e disegnatoriGiovanni Sinchetto, Dario Guzzon e Pietro Sartoris, pubblicato dall’Editoriale Dardo[2][3]. Raggiunse una tiratura di 400.000 copie settimanali ed è stato più volte ristampato,imponendosi non solo in Italia ma anche sul mercato europeo[4][5] dove sono state realizzate versioni del personaggio da altri autori italiani e stranieri. Blek è un atletico trapper dai lunghi capelli biondi che indossa sempre un cappello di marmotta, un gilè di pelliccia che copre il torace e dei pantaloni rossi. Per combattere usa principalmente le mani nude ma usa anche il fucile “Kentucky” usato dai cacciatori americani dell’epoca. Conosciuto come Blek Macigno per la sua stazza e la sua forza lotta per raggiungere l’indipendenza dell’America coloniale contro il predominio inglese scontrandosi frequentemente con le giubbe rosse. Comprimari fissi delle sue avventure sono un coraggioso adolescente, Roddy Lassiter, e lo scienziato professor Cornelius Occultis. Non sono presenti personaggi femminili
Per evitare una pesante condanna per reati vari, un delinquente completamente succube psicologicamente della madre preferisce accusarsi di un furtarello e farsi qualche mese di prigione. Mentre lui sconta la pena, fuori ne succedono di tutti i colori.
Soggetto: un cameraman, all’ossessiva ricerca della comprensione del significato della paura, vive una simbiosi morbosa con la sua telecamera e finisce per dare di matto e ammazzare della gente. Film: se vi chiamate Michael Powell, passate il soggetto al fido e geniale Leo Marks, gli fate scrivere una sceneggiatura che è un trattato di psicologia da pubblicazione, mettete su una troupe e girate un capolavoro che si chiama L’occhio che uccide (Peeping Tom); se invece vi chiamate Takashi Shimizu, vi fate aiutare da uno dei maggiori sceneggiatori della serie animata Digimon a scrivere il film, date la parte del protagonista a Shinya Tsukamoto (hai visto mai che non vi dà una mano nella regia…), fate una scorpacciata di peperoni e ve ne andate a nanna con la certezza che gli incubi saranno quanto mai d’ispirazione per dare al film un’evoluzione assurda. I primi venti minuti di Marebito, infatti, fanno urlare al plagio nei confronti del grande cineasta inglese. Poi, in perfetto stile nipponico, il film prende una china del tutto inattesa che rasenta, quindi sconfina, infine straripa ne la follia.
Ispirato a 5 novelle del Boccaccio. Ambientato in una Firenze trecentesca colpita dalla peste: un gruppo di giovani fugge dalla città e si rifugia in una casona di campagna, dove passano il tempo a raccontarsi storie. I Taviani aprono e chiudono il film con scene di peste, simbolo di tutti i mali – “tutte le pesti di cui siamo circondati: dallo spettacolo d’orrore di quei monatti vestiti di nero che guidano prigionieri vestiti d’arancio alla crisi di casa nostra” – e valorizzano (o per lo meno vorrebbero farlo), nello sviluppo narrativo, la forza delle donne – “sono loro ad aver l’idea di lasciare Firenze e gli uomini vengono loro dietro” – ma scene e costumi da serie tv degli anni ’70 (le parrucche sono inguardabili), una recitazione filodrammatica penosa e la prolissità uccidono tutte le migliori intenzioni.
Ciò che l’occhio non vede è una sorta di documentazione d’autore firmata da otto registi durante le Olimpiadi di Monaco del 1972. Il critico Tullio Kezich scrive a proposito di questo documento: «Ciò che l’occhio non vede lo vede l’obiettivo della macchina da presa. Questa tesi, che si direbbe di ispirazione antonioniana, mosse quattro anni fa l’iniziativa del produttore americano David L. Wolper che in occasione dei giochi di Monaco ha invitato alcuni autori cinematografici a illustrare ciascuno un aspetto della manifestazione.
Liberamente tratto dal racconto For the Rest of Her Life di Cornell Woolrich. Bibliotecaria trentenne, con madre alcolista e soggiogata dal padre, sposa Helmut Salomon che si rivela un secondo padre-padrone, ma più sadico. Un incidente stradale la lascia su una sedia a rotelle, completamente in sua balia. È uno dei 3 film per la TV che Fassbinder diresse nel ’73, ma per una complicata lite di diritti legali rivide la luce soltanto nel ’94 quando, come evento speciale, fu esposto alla 51ª Mostra di Venezia. Un’altra impietosa analisi del sadomasochismo nei rapporti coniugali, uno dei temi cari a Fassbinder.
Di estrema compattezza, fin troppo schematico come melodramma raffreddato, spiazzante per la atmosfera da romanzo gotico del ‘700 inglese, calato nella traslucida fotografia di Michael Ballhaus, ha la tesa semplicità della traiettoria di una freccia, ma anche una certa ambiguità nel tacito accordo tra i due personaggi. “Martha non è oppressa, ma plasmata… La maggior parte degli uomini non è capace di opprimere le donne in modo così perfetto come esse vorrebbero” (Fassbinder). Unica menda: la Carstersen, memorabile in Le lacrime amare di Petra von Kant, non ha il physique du rôle di Martha.
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