Un film di Blake Edwards. Con Kim Basinger, Bruce Willis, John Larroquette, William Daniels, George Coe.Titolo originale Blind Date. Commedia, durata 95 min. – USA 1987. MYMONETROAppuntamento al buio valutazione media: 3,13 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Appuntamento fra un manager e una bella ragazza. Timida e adorabile quando non beve, scatenata ninfomane se si ubriaca. La serata pazza pazza finisce per sconvolgere (ma in definitiva positivamente) la vita d’entrambi.
Se in Victor Victoria era una donna a trasformarsi in un uomo qui, in circostanze completamente diverse, troviamo un uomo che assume le sembianze di una donna. C’è inoltre una certa somiglianza con Il paradiso può attendere di Warren Beatty e Buck Henry. Nel film di Edwards troviamo un manager dongiovanni che viene giustiziato dalle sue tre amanti. Per poter andare in Paradiso ed evitare l’inferno, deve trovare almeno una donna che nella vita lo abbia amato. L’impresa risulta difficile in quanto viene ricatapultato sulla Terra, ma trasformato in donna. Perciò ci saranno molti equivoci e situazioni particolarmente divertenti fino al finale a sorpresa. Ellen Barkin conferma le sue doti già apprezzate in film come Seduzione pericolosa e Johnny il bello.
Andare in pensione dopo 37 anni di lavoro sembra ad Hannes, bidello in una scuola, la fine di tutto. Non ha amici, non ha grandi passioni, ha lasciato appassire il sogno di tornare a vivere sull’isoletta abbandonata da giovane in seguito alla distruttiva eruzione di un vulcano. I suoi rapporti con i figli sono pessimi e pure dalla moglie sembra essersi molto allontanato.
Un giovane patriota siciliano è inviato sul continente per dare notizie precise a Giuseppe Garibaldi che prepara la sua spedizione e per sollecitarne la partenza. Si salpa da Quarto e sbarco a Marsala. Garibaldini e picciotti siciliani combattono insieme e vincono a Calatafimi: la liberazione dal dominio borbonico è cominciata. Tratto da un racconto di Gino Mazzucchi, autore della sceneggiatura con Blasetti ed Emilio Cecchi che lo produsse per la Cines e invitò il regista, prima delle riprese, a leggere Noterelle di uno dei Mille (1880) di G.C. Abba. Assai apprezzato dalla critica (ma non dal pubblico) dell’epoca, considerato dopo la guerra uno degli incunaboli del neorealismo, oggetto poi di una lunga polemica di carattere storicistico, messo in croce per le sue consonanze palesi o implicite con la propaganda del regime fascista (i 5 minuti che mancano dall’edizione originale ne contenevano i segni più grossolani), oggi conta per la sua asciuttezza stilistica (non senza influenze del cinema sovietico), la scoperta del paesaggio, la coraggiosa scelta di tipi e personaggi popolari, l’efficacia del montaggio, l’incombenza come eroe e demiurgo di Garibaldi che pur vi appare fisicamente soltanto in sei veloci inquadrature. Blasetti stesso ne curò, dopo la guerra, un’edizione tagliando quei 5 minuti. Uscì col titolo I Mille di Garibaldi nel 1951.
Messo a disagio dalla figlia che sposa in pompa magna un fervido cattolico e dal compito di girare un’altra versione de I promessi sposi , il regista Franco Elica ripara a Cefalù (PA) dove incontra un locale regista di filmini matrimoniali e conosce un principe indebitato che gli propone di filmare le nozze (di convenienza) di Bona, l’irrequieta sua figlia. È forse il film più libero di M. Bellocchio, sicuramente il più divertente come può esserlo una digressione. Nel suo apparente disimpegno, non mira alto, ma arriva giusto ai bersagli. Non è politico, ma sul versante sociale graffia con un’ironia qua e là sarcastica, alternata a un umorismo allusivo sotto le righe. È il suo film più sfizioso per la ricchezza delle invenzioni registiche di un linguaggio realistico, visionario, ellittico. Con leggerezza va dal buio alla luce come rivelano il salvataggio e la conquista della bella principessa, autoironica fine di una fiaba. Ovviamente è anche un film di metacinema, con la tragedia di un uomo ridicolo, lo Smamma di Cavina che si finge morto per vincere almeno un David di Michelangelo (!). Se, come il solito, S. Castellitto è una garanzia, D. Finocchiaro, amata dalla cinepresa di Pasquale Mari, conferma la sua duttilità interpretativa. Complessa e sorprendente, come il film, la colonna musicale di Riccardo Giagni.
Èla storia di un amore platonico fra due personaggi di mezza età, destinati a non incontrarsi mai. La donna, una scrittrice americana, Helene Hauff (autrice del libro da cui è stato tratto il film), entra in contatto epistolare con il direttore di una libreria londinese, Frank, che le fornisce periodicamente vecchie edizioni di classici inglesi. La loro corrispondenza diviene molto fitta, quasi amorosa. Ma passeranno vent’anni prima che lei riesca a varcare l’oceano. È troppo tardi però. Frank muore pochi giorni prima del suo arrivo.
Nella notte tra il 14 e il 15/11/1959 due giovani in libertà vigilata entrano in una casa isolata di Holcomb (270 abitanti, Kansas) a scopo di furto e fanno strage della famiglia Clutter (padre, madre, due figli). Il 30 dicembre sono arrestati. Rei confessi al processo, sono giustiziati il 14/4/1965. L’anno dopo Truman Capote pubblicò il romanzo-documento, costato sei anni di lavoro, che gli diede la fama. Autore anche della sceneggiatura, R. Brooks ne cava un film di stile semidocumentaristico: asciutto, intenso, implacabile, girato nei luoghi reali, compresa la casa del delitto. Scene raccapriccianti, ma senza compiacimenti. 4 candidature agli Oscar: sceneggiatura, regia, fotografia (Conrad Hall), musica (Quincy Jones). Nel 1996 ne fu fatta una versione TV, regia di Jonathan Kaplan.
La serie è strutturata su un arco narrativo di cinque anni, distribuiti in cinque stagioni di 22 episodi. Il fulcro della storia è una vasta stazione spazialechiamata Babylon 5, in orbita attorno al terzo pianeta della stella Epsilon Eridani[5]; lunga circa 8 chilometri e dal peso di 2,5 milioni di tonnellate, la colonia rotante è l’ultima stazione a portare il nome Babylon ed è stata costruita dopo che le prime tre stazioni Babylon sono state sabotate e distrutte e la stazione Babylon 4 è scomparsa misteriosamente poco prima di entrare in servizio. La costruzione della prima stazione Babylon inizia al termine di una devastante guerra, generata da una banale incomprensione, tra l’Alleanza Terrestre e il popolo alieno Minbari. Le diverse razze avvertono la necessità di un luogo di incontro per costruire la pace attraverso diplomazia, commercio e cooperazione; anche se non tutti lavoreranno in questo senso. Le parole del comandante di Babylon 5 riassumono al meglio la missione della stazione spaziale: “la nostra ultima, grande speranza di pace“. Nonostante la sua missione sia improntata alla pace e spiccatamente diplomatica, la stazione è al centro di intrighi politici e conflitti che sono l’oggetto degli episodi che compongono la serie.
Alla fine della guerra civile americana dilaga la carestia in molte regioni degli Stati Uniti. Solo in Texas l’abbondanza di bestiame dà una speranza alla popolazione ma ovunque regnano disordine e violenza. Dan e Tod, due giovani originari della Virginia, mentre vanno in Texas alla ricerca di fortuna, sono involontari testimoni dell’assalto ad una diligenza. Disperati, decidono di derubare a loro volta i rapinatori e scappare con il bottino. Per sfuggire alla banda, decidono di dividersi e non si vedono più per lungo tempo. Quando si rincontrano sono cambiati: uno si è trovato dalla parte degli allevatori, l’altro si è unito ai banditi. La legge li oppone l’uno all’altro e dovranno incontrarsi di nuovo per la resa dei conti.
Èil film meno sentito e più impersonale del regista di Hollywood Party e La pantera rosa, meritatamente scoperto come autore dalla critica francese. L’ambiente è quello ipocrita e perbenista dei medici-baroni di Boston. Si raccontano le peripezie del chirurgo Carey, che vuole dimostrare l’innocenza di un suo amico nel caso di una ragazza morta per procurato aborto.
Demetan è un giovane ranocchio proveniente da una famiglia povera (vive assieme ai suoi genitori, il padre fa il giocattolaio), al punto da non potersi neppure permettere di andare a scuola, e per questo è automaticamente un emarginato all’interno della comunità. Tuttavia fa amicizia con una graziosa ranocchietta, popolare e molto dolce, di famiglia ricca di nome Ranatan; questo nonostante la differenza del loro status sociale.
Ovviamente il padre della ranocchia, che è anche il sindaco del villaggio delle rane dello stagno, non si trova per nulla d’accordo riguardo al fatto che la figlia frequenti in modo così assiduo Demetan e cerca in tutti i modi di ostacolar tale relazione. Pian piano, però, la loro amicizia trascenderà tutte le difficoltà, e avrà la meglio sui pregiudizi non solo del padre di Ranatan, ma anche dell’intera comunità dello stagno in cui vivono.
Insieme i due vivranno numerose avventure, imparando molto sull’amore, sull’odio e sull’invidia. Le storie sono spesso tristi, al limite del sadismo, con Demetan che deve fare i conti con predatori naturali (il pesce gatto) o difendersi dai bulli che dominano lo stagno.
Emigrato bruttone, 50enne e malandato cerca moglie per lettera fingendosi bello. Gli risponde una prostituta che si finge illibata e cerca un espediente per cambiare vita. Zampa imprime alla sua storia un timbro narrativo compatto, limpido e il racconto, se si esclude qualche ridondanza nella 2ª parte, scorre rapido e interessante. Bene Sordi e Cardinale.
The Shield è una serie televisivastatunitense di genere poliziesco creata nel 2002, che tratta delle vicissitudini di un gruppo di agenti di polizia nella città di Los Angeles.Ideato e prodotto da Shawn Ryan, la serie narra di un distretto di polizia di un immaginario quartiere malfamato di Los Angeles, Farmington (riconducibile al distretto di Rampart), dove la giustizia deve fare quotidianamente i conti con la violenza, la corruzione e la mancanza di risorse.Il primo episodio della serie andò in onda negli USA il 12 marzo 2002.
Il protagonista, Vic Mackey, capo della squadra di assalto è un detective che ottiene quasi sempre ciò che vuole; votato in un certo senso alla giustizia, ma dai modi violenti, bugiardo, corrotto ed incline alle azioni criminali.Una sua scelta è di venire spesso a patti con la malavita, talvolta non per scopi criminali, ma per trovare un equilibrio di potere ed evitare inutili spargimenti di sangue nelle strade del quartiere; altre volte, invece, lo fa proprio per guadagno personale (anche se principalmente destina il “bottino” ai tre figli, di cui due autistici e che richiedono scuole e cure costose). Questo comportamento ambiguo gli procura incessanti attriti con i colleghi e soprattutto con i superiori. Per colpa delle loro azioni le vite dei quattro membri della squadra di assalto finiscono per scontrarsi con un destino sempre più duro.
Nell’immaginario regno di Arendelle, situato su un fiordo, vivono due sorelle unite da un grande affetto. Un giorno, però, il magico potere di Elsa di comandare la neve e il ghiaccio per poco non uccide la più piccola Anna. Cresciuta nel dolore di quel ricordo, Elsa chiude le porte del palazzo e allontana da sé l’amata sorella per lunghi anni, fino al giorno della sua incoronazione a regina. Ma ancora una volta l’emozione prevale, scatena la magia e fa piombare il regno in un inverno senza fine. Sarà Anna, con l’aiuto del nuovo amico Kristoff e della sua renna Sven, a mettersi alla ricerca di Elsa, fuggita lontano da tutti, per chiederle di tornare e portare l’atteso disgelo. Dell’ispirazione dichiarata, fornita da una delle fiabe più ermetiche e suggestive di Andersen, “La regina delle nevi”, c’è ben poco, a parte la scheggia di ghiaccio nel cuore e il viaggio di una ragazzina per riportare a casa l’oggetto del suo amore. Ma questo racconto più tradizionale, sceneggiato da Jennifer Lee, ha un suo appeal, differente, nell’urgenza emotiva che porta in scena e nell’originalità dei personaggi principali, nessuno dei quali si svela del tutto al primo ingresso. Così come il dono di Elsa ha un risvolto maledetto, anche i sentimenti di Anna acquistano infatti un’imprevista doppiezza, parallela a quella di Kristoff, per non parlare di quella molto meno ingenua che anima il principe Hans. La natura di vera e propria operetta musicale di Frozen (una scelta ardita, che rischia di non incontrare un consenso unanime) assegna ad ognuno il suo momento di gloria, approfittandone per innescare un’efficace sintesi narrativa in materia di presentazione del cast. Ecco allora che “Per la prima volta” (“For the first time in forever”) racconta in poche strofe il disperato desiderio di vita e d’amore di Anna, mentre “All’alba sorgerò” (“Let it go”) dà adito alla liberazione di Elsa dalle catene nelle quali si era costretta da sola e alla completa accettazione della sua natura portentosa. E, come in ogni musical che si rispetti, i costumi non sono accessori ma parte integrante dello spettacolo, che qui si arricchisce delle architetture nordiche, delle citazioni pittoriche e dello straordinario livello tecnico con cui il digitale dà forma, luce e sostanza al ghiaccio. Gli adulti non potranno non pensare a Carrie o ai mutanti della saga degli X-Men, mentre i più piccoli non avranno occhi che per Olaf, il pupazzo di neve. Intanto la Disney conferma di aver intrapreso un cammino lento ma ben visibile verso un nuovo modello di principessa, che non ha più bisogno del bacio del principe per scoprirsi degna del proprio ruolo.
Ex combattente della prima guerra mondiale, James Allen è condannato innocente ai lavori forzati, subisce la brutalità di un carcere del Sud, evade, cambia identità, si costituisce, ma, irritati dalla sua pubblica denuncia delle inumane condizioni carcerarie, lo trattano peggio di prima finché evade per la seconda volta. Tratto da un racconto autobiografico di Robert E. Burns, è uno dei più coraggiosi e vigorosi film sociali della Warner, piuttosto spregiudicato anche nella rappresentazione del sesso. Ma il codice Hays non era ancora entrato in funzione. Girato in sobrio stile semidocumentaristico rimane un classico del cinema carcerario. In DVD dal 2006 (Ermitage distr.) con la voce di Emilio Cigoli per Muni e un saggio di F. Di Giammatteo sul prison movie.
Scritto da Bridget O’Connor (cui il film è dedicato) e Peter Straughan dal romanzo (1974) di John le Carré, già trasposto in una serie TV (1979 – 7 puntate) di grande successo, famosa anche per l’interpretazione di Alec Guinness come George Smiley (qui Oldman): il più maturo degli agenti del MI6 (il servizio segreto dello spionaggio britannico) per le sue competenze e conoscenze è incaricato di scoprire tra i colleghi la talpa infiltrata dal KGB sovietico. La regia è dello svedese Alfredson di cui in Italia s’è visto soltanto Lasciami entrare (2008). Condensare in 2 ore una vicenda con una quarantina di personaggi che nella serie TV dura più di 400 minuti non era facile. Per gustare questo film antispettacolare – dove le spie non sono acrobatici eroi da missioni impossibili, ma mediocri burocrati che separano il dire dal fare, la verità dalla realtà; organizzato in ellissi, ricco di dettagli e di analisi psicologica, affidato a una puntigliosa ricostruzione d’epoca (1973-74 in Inghilterra, a Budapest, a Istanbul) – bisogna saper rinunciare alla voglia di capire quel che sta succedendo per apprezzarne il clima minaccioso di grigiore, squallore, sospetto, sfiducia e malinconia e godersi gli attori.
Leo, figlio irrequieto di Luciano, una notte spara alcuni colpi di fucile sulla saracinesca di un bar protetto da un clan locale, in quel di Africo nel cuore dell’Aspromonte. Una provocazione come risposta a un’altra provocazione. Un atto intimidatorio, ma anche un gesto oltraggioso che il ragazzo immagina come prova di coraggio e affermazione d’identità nei confronti del clan rivale e nei confronti del padre, maggiore di tre fratelli, dedito alla cura degli animali e dei morti, e lontano dalla cultura delle faide. I fratelli di Luciano hanno preso altre strade lontano da Africo, in una Milano permeata di affari criminali lungo la rotta della droga tra l’Olanda e la Calabria. Dopo la provocazione notturna, Leo deve e vuole cambiare aria, e raggiunge lo zio Luigi, il più giovane dei tre fratelli, spavaldo nel correre su e giù per l’Europa stingendo patti “commerciali” con cartelli sudamericani, e lo zio Rocco, ormai trapianto a Milano con aria e moglie borghese, arricchito proprio dai proventi di quei traffici internazionali. L’eco della bravata di Leo giunge in quel di Milano e risveglia la mai sopita attrazione per la vendetta, la faida in un misto di orgoglio represso dal benessere, o da esso alimentato sotto mentite spoglie.
I preti sono due: il giovane padre Greg (L. Roache), di rigidi principi e di omosessualità repressa, e il più anziano padre Matthew (T. Wilkinson), parroco di un quartiere popolare di Liverpool, schierato con i poveri, che convive con una piacente perpetua (C. Tyson). La sceneggiatura di Jimmy McGovern mette in fila tanti incidenti e quesiti morali che basterebbero per 3 film. L’intrepida esordiente A. Bird, che viene dalla TV, cerca di darle una forma filmica, riuscendovi soltanto in parte, in continua oscillazione tra il dramma sociale alla Ken Loach e la soap opera alla Uccelli di rovo, tra il realismo semidocumentaristico e l’apologia predicatoria, con qualche inverosimiglianza logica e narrativa.
Una prostituta, la moglie di un disoccupato, l’amica ricca di un pittore squattrinato, una ragazza incinta, una servetta e altre venti donne, richiamate da un annuncio che promette un lavoro, s’affollano su una scala che crolla. Forse il miglior film del diseguale e ambizioso De Santis e un’opera chiave dell’ultimo neorealismo. Da un fatto di cronaca nasce una ricca galleria di personaggi femminili in fertile equilibrio tra passione e ideologia. Sostenuto da una sapiente sceneggiatura cui collaborarono, tra gli altri, Zavattini e Sonego. Nastro d’argento per le musiche (M. Nascimbene). Allo stesso fatto di cronaca è ispirato Tre storie proibite.
Primo gangster movie sonoro, prodotto da D.F. Zanuck e H.B. Wallis per la First National. Chicago, anni ’20. Rapida ascesa di Cesare (En)Rico Bandello, gangster di provincia che conquista il controllo della malavita metropolitana. Questo personaggio di criminale feroce, ambizioso, egocentrico, probabilmente impotente e forse omosessuale, deve molto all’interpretazione di E.G. Robinson, attore di origine rumena, grazie alla sceneggiatura di F.E. Faragoh e R.W. Lee, tratta dal 1° romanzo (1929) di William Burnett, e soprattutto alla regia asciutta e spedita di taglio quasi cronachistico di M. LeRoy. Datato, ma che forza! I riferimenti ad Al Capone, la fotografia di Tony Gaudio, il suo realismo stilizzato ne fanno un “classico” del genere. Distribuito in Italia nel 1963 (il romanzo nel 1948).
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