Porno-horror girato a Santo Domingo come il successivo “Porno Holocaust”,ma incentrato più sul filone zombi lanciato da Romero ed omaggiato da Fulci l’anno prima.Strutturato come un flashback,risulta assai più efficace del film successivo.Qui sesso e gore sono meglio distribuiti,e la trama pur restando filiforme è strutturata con un pizzico di impegno in più.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Un giovane, dotato, spregiudicato avvocato della Florida (K. Reeves) accetta un’allettante proposta di uno studio legale di New York, guidato da John Milton (A. Pacino) e si rende conto di aver venduto l’anima al diavolo. Letteralmente. Da un romanzo di Andrew Neiderman _ con la fotografia del polacco Andrzej Bartkowiak, le scene di Bruno Rubeo, gli effetti visivi di Richard Greenberg e i demoni disegnati da Rick Baker _ è uscito un filmone difficile da catalogare: horror giudiziario? farsa orrorifica? parabola faustiana? Nel suo toccare antichi e nuovi temi religiosi (con frequenti citazioni dell’Apocalisse giovannea) la materia del film è ambiziosa e rischiosa: il sublime confina col ridicolo, e spesso ci sprofonda. Non bastano gli effetti speciali per fare un buon film fantastico. Vien voglia di leggere il romanzo: i dialoghi sono forse la componente più interessante del film, e Pacino _ doppiato da Giancarlo Giannini _ li dice con un potente istrionismo ben temperato.
All’inizio del XX secolo, il vedovo Henry vive con il figlio adolescente Wyatt in una piccola fattoria coltivando la terra e allevando animali. La sua tranquillità è interrotta dal ritrovamento di un uomo gravemente ferito in una zona poco lontano dalla proprietà. Henry porta in casa l’uomo – che si chiama Curry ed è uno sceriffo in fuga – e lo cura dopo averlo legato al letto e dopo aver nascosto la borsa piena di denaro ritrovata al suo fianco. Quando gli uomini che danno la caccia a Curry, guidati dal feroce Ketchum, anch’egli un sedicente sceriffo, si presentano a casa di Henry, l’umile contadino, che forse nasconde un passato da criminale, si rifiuta di consegnare il suo ospite e si appresta a combattere l’ultima battaglia per difendere sé stesso e il figlio.
American Gothic è una serie televisivastatunitense di genere drammatico creata da Corinne Brinkerhoff. La CBS annunciò una stagione di 13 episodi il 9 ottobre 2015. La serie è andata in onda per la prima volta il 22 giugno 2016.[1] Il 17 ottobre 2016 la CBS cancella la serie dopo una stagione.
Gli Hawthornes, una facoltosa famiglia altoborghese di Boston, vengono sconvolti in seguito alla scoperta della doppia vita del patriarca, il quale potrebbe aver avuto un passato da serial killer. A deteriorare i rapporti già delicati tra i familiari sono i pesanti sospetti che l’omicida abbia avuto un complice tra i membri della stessa famiglia.
Nel 1976 la Nippon Animation ha prodotto un’altra serie animata ispirata ai personaggi del romanzo di Collodi, conosciuta in Italia col titolo “Bambino Pinocchio“.
La storia è quella classica del romanzo di Collodi, che narra del burattino di legno reso vivo da una fatina benevola per la gioia del suo “costruttore”. L’eroe principale è un ingenuo e molto fiducioso giocattolo/pupazzo di legno animato dalla magia della Fata: egli ha molte carenze e lacune da dover superare e vincere, prima che gli possa venir permesso di diventar un uomo vero.
La storia inizia quando Geppetto, un anziano falegname che vive da solo, desidera avere un nipotino che possa tenergli compagnia, inizia così a scolpire un ceppo di legno proveniente da un albero magico. La fata dai capelli turchini dona la vita al burattino e promette che se si rivelerà esser una brava persona dimostrando d’aver un buon cuore in futuro potrà anche esser trasformato in un esser umano.
Ambientata nei primissimi anni del Secondo Dopoguerra, la serie ripete pedissequamente lo schema dei racconti gialli di Ellery Queen: lo spettatore viene messo a conoscenza di tutti i fatti e gli indizi utili a scoprire il colpevole e, prima dell’ultima scena, l’investigatore si rivolge al pubblico e lo sfida a risolvere il caso. Come da tradizione del giallo vecchio stile (ad es. Hercule Poirot nei romanzi di Agatha Christie), Ellery Queen raduna tutti i sospettati in una stanza e alla fine svela il nome dell’assassino. Nonostante il successo di pubblico, la serie durò solo una stagione. La morte di Hutton nel 1979 mise poi la parola fine al ventilato progetto di produrre una nuova serie di episodi.
Quarta parete
A differenza di tutti i film e telefilm polizieschi/investigativi, quasi alla fine di ogni episodio, prima di rivelare il nome del colpevole di turno, il personaggio di Ellery Queen si rivolgeva direttamente alla telecamera e quindi al pubblico televisivo (infrangendo in questo modo la quarta parete) chiedendo se, viste tutte le prove e gli indiziati, qualcuno avesse capito chi fosse davvero il colpevole.
Ex carcerato vuole svaligiare in un sol colpo a Ferragosto tutti gli appartamenti di un lussuoso palazzo. Ha cinque complici e un boss mafioso che lo finanzia. Ma la polizia li tiene sotto controllo. Veloce, spezzettato, ritmo serrato e riprese concise, il film rispetta le regole del genere poliziesco, ma è anche un commento sull’America moderna: la manipolazione, il denaro, la corruzione. Da un romanzo di Lawrence Sanders.
In un tempo abbastanza vicino a quello presente una famiglia che ha lasciato la città a causa delle forti tensioni sociali prende possesso della casa di campagna. O, meglio, vorrebbe poterlo fare perché la trova già occupata e chi la occupa uccide il proprietario. La moglie, rimasta sola con i due giovani figli, prende a vagare per la campagna. Ha così inizio un’odissea ambientata in una no man’s land in cui non filtra quasi mai la luce del sole. Haneke ha realizzato questa volta un film molto rigoroso che chiede allo spettatore un’attenzione che non molti sono disposti a concedere.
Hubert è un ragazzo cresciuto senza il padre e che soffre per la sua omesessualità. Il suo dolore represso viene continuamente gettato addosso a sua madre, l’unica figura della sua vita che può accogliere la sua ribellione e capire i motivi più profondi all’origine del suo disagio.
Un pittore parigino salva dal suicidio una ragazza disperata che gli racconta l’amore per un uomo. La sua vita ne è sconvolta e cerca di aiutarla. Rimarrà ancora solo. Dal racconto di Dostoevskij Le notti bianche (1848) – cui si ispirarono anche G. Roscial (1933) e L. Visconti (1957) – Bresson ha tratto un film rarefatto e rigoroso sui temi della solitudine, della sproporzione tra la povertà dell’esistenza quotidiana e l’intensità della vita sognata, e dell’amore. “Ritenuto ingiustamente un film minore, e certo meno ricco di altri… è uno dei risultati più esemplari, nella sua perfezione conchiusa e toccante, del ‘cinematografo’ di Bresson” (A. Ferrero).
Pregiudicato e scarcerato, un po’ ritardato e quietamente asociale, il giovane Jong-du di Seul corteggia Hang Gon-ju, handicappata cerebrolesa. Cerca di stuprarla, fugge, ritorna, avvia con lei una relazione fortemente emotiva che diventa amore, osteggiato dalle famiglie. Lui le restituisce la femminilità; lei lo fa sentire adulto e responsabile. Scandalo rientrato alla Mostra di Venezia 2002 dove vinse il premio per la regia e altri 4 minori tra cui quello della Fipresci e il Mastroianni a Moon So-ri, migliore attrice esordiente. Scandalo annullato dal rigore della messinscena dei due congressi carnali, l’uno straziante e l’altro tenero, e dalla capacità del regista/sceneggiatore, al suo 3° lungometraggio, di raccontare, senza demagogia, l’orrore che si cela nella rispettabilità egoistica e meschina della gente normale e delle convenzioni sociali. Definito dall’autore un film sui confini: tra normalità e handicap, tra realtà e fantasia, tra vita e cinema, tra crudezza e poesia. Una conferma della ripresa del cinema sudcoreano, iniziata a metà degli anni ’90, parallelamente al cambiamento del clima politico in senso democratico.
Tra l’anziana amah (domestica) Ah Tao e il suo padrone, l’attore cinematografico Roger, si instaura un rapporto che assomiglia a quello tra una madre e il proprio figlio, destinato a intensificarsi durante la degenza in ospedale di Ah Tao. Una lunga carriera come quella di Ann Hui, dedita sin dagli inizi alla denuncia di storture della società e alla raffigurazione di spaccati di quotidianità raramente visti su grande schermo, non poteva che trovare coronamento in un film come A Simple Life, che già nel titolo pare assurgere a summa della poetica della regista. La storia di Ah Tao è quella esemplare della vita di una persona semplice, una donna costretta dagli eventi a trascorrere sin dall’infanzia una vita al servizio degli altri, ma che a questa condizione ha saputo infondere dignità e passione; una donna, a prescindere dallo status, speciale e unica, proprio come il fiocco di neve del vetusto stereotipo. Riecheggia qualcosa di Ozu nella dinamica servo-famiglia, ma la cifra stilistica è inconfondibilmente quella di Ann Hui, che accarezza con la macchina da presa i corpi dei suoi personaggi, ma soprattutto le espressioni, anche le meno percettibili, carpendo sguardi e ammiccamenti furtivi tra due personaggi che spesso non necessitano di parole per comunicare il reciproco affetto. Quello che arriva al pubblico in una sorta di empatia che supera lo schermo e cresce man mano che Roger e Ah Tao capiscono di rappresentare la famiglia nella sua totalità l’uno per l’altro. Proprio quell’Andy Lau che la Hui lanciò nel lontano 1982 di Boat People torna, ormai superstar, nei panni del protagonista di A Simple Life, privandosi di ogni glamour e dimostrando per la prima volta di accettare la sua mezza età e l’inesorabile verdetto del tempo che passa. A fianco di Lau, diversi i cameo di celebrità del cinema di Hong Kong, tra cui un sorprendente Tsui Hark, che – con Andy Lau e Sammo Hung – riforma, in una breve parentesi di cinema nel cinema, la trimurti a cui dobbiamo Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma. Una lezione di compostezza e raffinata gestione dei sentimenti da un’instancabile osservatrice della vita umana.
La donna bionica (The Bionic Woman) è una serie televisivastatunitense nata come spin-off della serie L’uomo da sei milioni di dollari. In essa nasce il personaggio di Jaime Sommers (la donna bionica), interpretato dall’attrice Lindsay Wagner, che ha ottenuto notevole successo, tanto da spingere la casa di produzione Universal a creare una serie incentrata su di lei.
Le caratteristiche di questo telefilm sono molteplici e si caratterizza per il connubio tra la fantascienza e l’aspetto umano e psicologico dei personaggi che affrontano diverse vicissitudini quotidiane. In particolare il personaggio di Jaime Sommers, per volontà anche della stessa Lindsay Wagner, riesce a evidenziare con emotività la difficoltà di accettarsi con parti “diverse” da quelle delle altre persone senza per questo abbattersi. Jaime infatti decide di mettere al servizio dell’OSI, ufficio di sicurezza degli Stati Uniti d’America diretto da Oscar Goldman, le proprie facoltà bioniche come agente segreto, e durante le sue missioni riesce a portare a termine il difficile compito assegnatole, usando i suoi particolari poteri senza mai eccedere in prevaricazioni o violenza, ma usando spesso astuzia, sensibilità e cervello per uscire da situazioni pericolose.
Shuji è un giovane regista intransigente, cultore del cinema del passato e appassionato testimone del verbo cinematografico. Un giorno, il ragazzo scopre che suo fratello, uno strozzino che si è indebitato per finanziare i suoi film, è stato giustiziato da una banda affiliata alla yakuza, per non aver pagato quanto doveva. Il debito, maggiorato, pesa ora sulla testa di Shuji stesso, che prova ad estinguerlo in un fight club clandestino allestito in un bagno pubblico, prestando il proprio ventre ai pugni degli avventori. Girato come un film giapponese in tutti sensi, dalla scelta delle location al movimento di macchina all’utilizzo di tre camere alla maniera di Kurosawa, il film non è in realtà un’incursione nell’esotismo per Naderi ma, al contrario, un ritorno ad una cultura più prossima a quella iraniana, soprattutto nella concezione dell’arte. Ai grandi maestri del cinema giapponese, tra gli altri ma forse più degli altri, a Ozu, Mizoguchi (I racconti della luna pallida d’agosto), Kurosawa e colleghi, Naderi attribuisce una linfa vitale da recuperare assolutamente, pena la morte del cinema come arte e la sua conversione in prostituta o in buffone di corte.
Attore viziato dalla vita e dal mestiere, sciupafemmine e pluridivorziato, infantilmente irresponsabile, Sandro Lanza gira con difficoltà la boa dei 50 anni. Crisi esistenziale e professionale: lo stanno emarginando da una soap opera che per anni l’ha reso popolare; gli va male un intervento di chirurgia estetica. Gioca la carta del tentato suicidio annunciato e all’ospedale accorrono le tre figlie, avute da tre mogli diverse. Per riaccasarlo lo fanno incontrare con una sua ex fan, anche lei vittima della labilità maschile. 5° film di P. Avati con D. Abatantuono, forse il 1° che ha nel titolo la definizione di genere e in coda la filmografia – inventata – del protagonista. Commedia di ritmo alacre, ricca di puntute annotazioni di costume (affilata e leggera in quelle satiriche), giocata con finezza sull’ambiguità dei sentimenti familiari. L’amarezza di fondo si stempera alla fine, rivelando la sua nascosta natura di racconto di formazione. Recitata benissimo da tutti, compresa F. Neri, in un ruolo eccentrico e lontano dalle sue corde abituali.
A Primo Spaggiari, industriale caseario della Bassa Padana, si chiede, per il riscatto del figlio sequestrato da un gruppo di terroristi, un miliardo; quando il figlio viene dato per morto, Spaggiari escogita un piano truffaldino e utopistico per salvare il caseificio sull’orlo del fallimento. L’ultimo film di B. Bertolucci di ambiente italiano prima di Io ballo da sola (1996) è ricco di ossimori: è un giallo senza spiegazione; è un film sul terrorismo dove i terroristi sono invisibili; è angoscioso, ma percorso da momenti umoristici, fratture ironiche, colpi di vento trasgressivi; le immagini chiare e distinte di C. Di Palma sono al servizio di una storia che chiara non è; sta tutta sulle spalle di Tognazzi, attore comico che qui coinvolge e sconvolge, premiato a Cannes. Su una materia da romanzo “patetico” è un film “critico-comico”. Leggibile anche in chiave onirica, come variante sul tema dell’uccisione del padre. Invece di ucciderlo, il figlio cerca di togliergli quel che ha di più caro: l’azienda.
Da quando la moglie è morta e i figli, ormai grandi, se ne sono andati, Lorenzo, avvocato scorbutico in pensione, vive da solo in una bella casa nel centro storico di Napoli. La sua vita quotidiana, scandita dai riti ripetuti, è messa in discussione dall’arrivo nel palazzo di una giovane coppia, Michela e Fabio, e dei loro figli Bianca e Davide, con i quali instaura un rapporto di tenera affettività che lo porterà, non senza drammi, a rivedere alcune durezze del suo carattere, nonché a un profondo ripensamento esistenziale. Riuscito pamphlet sulle dinamiche dei rapporti umani, su solitudine, senso di colpa, incapacità di comunicare. Carpentieri, dimesso e teatrale, conferisce una grande profondità psicologica al personaggio di Lorenzo, che è il fulcro del film. Qualche sbavatura nella trama, gli altri personaggi meno riusciti che rendono non funzionanti le relazioni col protagonista, un autocompiacimento a volte eccessivo nei dialoghi, portano il film a non essere del tutto riuscito.
“Una natura stupida, oscena e sbagliata”. Questa è la conclusione cui si arriva di fronte alla toccante riflessione per immagini del regista tedesco, lacerante docu-dramma che ripercorre le tredici estati (dal 1990 al 2003) trascorse in Alaska dall’americano Timothy Treadwell, attivista/ecologista animato dall’ossessione di proteggere dai bracconieri una comunità di orsi grizzly. Alternando estratti da quel “film di estasi umana e di cupo tumulto interiore” (come l’ha definito il regista) realizzato da Treadwell stesso, suggestive riprese naturalistiche e interviste realizzate a parenti e amici di Tim dallo stesso Herzog, la pellicola va a costruire una drammatica parabola esistenziale sull’utopico sogno dell’Uomo di poter dominare, seppur benevolmente, una Natura atavicamente spietata e violenta . Riecheggiando quella di tanti travagliati eroi solitari del cinema di Herzog, la storia di Tim si conclude infatti tragicamente con il brutale attacco da parte di un grizzly all’uomo e alla fidanzata Amie Huguenard, quell’estate al suo fianco. Attacco registrato dal microfono della videocamera di Tim, testimone esclusivamente sonora di una tragedia annunciata. E dolorosamente ripercorsa nel film da Herzog che, mettendosi in campo in prima persona, in maniera toccante e discreta fa sua – ma fortunatamente non nostra – questa straziante e privata tragedia sonora. Il regista tedesco ribadisce così la sua pessimistica visione del mondo della natura, restituendoci allo stesso tempo tutta l’innocenza e la spontaneità di uno spirito umano ingenuo e vitale. Ultimo amico della natura, oltre ogni limite.
Storia di un americano medio, un professionista, che s’è fatto una posizione e una famiglia nella sua cittadina, senza mai uscire dalla sua mediocrità. Qualche volta, però, rimpiange le occasioni perdute: chissà cosa sarebbe stata la sua vita se avesse sposato una bellissima di cui era innamorato.
Rientrato in casa mentre la moglie dorme, un ingegnere-designer si prepara una ricca cenetta. Trova una vecchia pistola, la rimette in ordine, si proietta filmini, scivola nel letto della cameriera, elimina la moglie e s’imbarca su un veliero. Forse il miglior film di Ferreri in assoluto. Nelle apparenze di un esercizio di stile quasi sperimentale (per tre quarti della sua durata soltanto Piccoli davanti alla cinepresa) è un notturno happening sulla nevrosi, l’alienazione e l’orrore del quotidiano. Astratto e, insieme, concretissimo.
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