Un film di Eric Rohmer. Con Pascal Greggory, Arielle Dombasle, Fabrice Luchini Titolo originale L’Arbre, le maire et la médiathèque. Commedia, Ratings: Kids+16, durata 105 min. – Francia 1993. MYMONETRO L’albero, il sindaco e la mediateca valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Girato in 16 millimetri, di fattura semplice ma frizzante e divertente. Ci troviamo nel villaggio di Saint-Jure dove il sindaco socialista spera di farsi eleggere ancora una volta. Vuole costruire un complesso multimediale che comporterebbe l’abbattimento di un albero secolare. Il maestro del paesino è contrario e coinvolge anche la figlioletta, che umilia il sindaco. I piani falliranno anche grazie a un articolo che doveva essere pro sindaco, mentre sostiene le idee del maestro. Fabrice Luchini è il più bravo tra gli attori.
Nella cartella trovate anche due file .srt con i subita ma non sono sincronizzati, se qualcuno li vuole mettere a posto poi mi contatti nei commenti
Il processo, la condanna, la morte di Jeanne d’Arc che, sotto l’accusa di eresia e stregoneria, fu arsa sul rogo a Rouen nel 1431 all’età di 19 anni. 6° film di Bresson, è, come gli altri, il resoconto di un’avventura spirituale e un omaggio, nato dall’amore, a una creatura di Dio di cui ancor oggi persino i non credenti ammirano “la prudenza, la finezza, l’intelligenza”. Il ritmo del film non è dato dal dialogo: è il dialogo stesso – stupendo per limpidità, bellezza e concisione – desunto parola per parola dagli atti storici e dalle minute dei due processi, quello di condanna e quello, successivo di 25 anni, di riabilitazione. Si chiude sull’immagine del tronco d’albero annerito dal fuoco da dove pendono, ormai inutili, le catene. È una metafora di Bresson sul proprio cinema.
Un poliziotto, incaricato da un ricco avvocato di indagare su un discografico, ne ritrova il corpo. La foto di una donna nuda lo spinge a orientare le indagini sulle conoscenze femminili del defunto: una mannequin, una cantante e la moglie.
La storia ruota intorno al personaggio di Dexter Morgan, all’apparenza un tranquillo e metodico tecnico della polizia scientifica diMiami, in realtà un feroce e spietato serial killer, che però agisce seguendo un proprio rigoroso codice: uccidere soltanto criminali che sono sfuggiti alla giustizia.[2] La serie è basata (solo per quanto riguarda la prima stagione) sul romanzo La mano sinistra di Dio di Jeff Lindsay. Esistono anche altri libri sul personaggio, sempre dello stesso autore, che seguono però una diversa continuity rispetto alla serie. Rimasto orfano all’età di tre anni, Dexter viene adottato da Harry Morgan, sergente della polizia di Miami. Dopo aver scoperto che Dexter ha iniziato a uccidere degli animali, Harry capisce che il figlio è un sociopatico e un potenziale serial killer; cercando di evitargli un futuro in carcere o sulla sedia elettrica, gli insegna a incanalare i suoi impulsi violenti verso chi “se lo merita”, ovvero tutti quei criminali che in un modo o nell’altro sono riusciti a sfuggire alla giustizia. Secondo il codice di Harry, che Dexter segue alla lettera, le sue vittime devono essere esclusivamente assassini, stupratori, pedofili, e tutti coloro che potrebbero rivelarsi pericolosi per la società. Inoltre Harry insegna al figlio a costruirsi una facciata per apparire normale e innocuo agli occhi degli altri, e a sfuggire egli stesso alle indagini della polizia. Una volta cresciuto, l’attrazione per il sangue – che si evince dai “trofei” che preleva alle sue vittime – porta Dexter a diventare un tecnico forense nell’analisi delle tracce ematiche, lavorando così insieme alla sorellastra Debra, diventata agente di polizia come suo padre, presso la polizia di Miami. Come parte del suo progetto di mascheramento, Dexter frequenta Rita, una donna separata con due figli piccoli, Astor e Cody. Sebbene sia un sociopatico, inizialmente incapace di provare genuini sentimenti, in realtà ha, a suo modo, un rapporto di sincera amicizia con amici e colleghi, in particolare con Debra a cui è molto legato.
Da un centro di ricerche per la guerra batteriologica situato a Leipzig, nella Germania dell’Est, si disperde, accidentalmente, il terribile virus classificato “MM88”, che provoca la morte nel tempo di appena tre giorni. La scienza è impotente di fronte al pericolo e l’epidemia dilaga dalla Siberia a Washington, da Parigi a Tokyo… Una sola regione del pianeta, l’Antartide, grazie al rigidissimo clima, sembra immune al virus. Lì, in alcune basi scientifiche e militari sperdute tra i ghiacci, si contano gli ultimi sopravvissuti, di nazionalità diverse: 863 persone… delle quali soltanto 8 sono donne!I comandanti delle varie stazioni concordano un ferreo regime di disciplina per garantire una parvenza di ordine e di civiltà, ma non possono evitare che la tensione si acuisca fino a sfociare in rivalità interne, scoppi di follia e violenze di ogni genere. A complicare le cose c’è anche un sottomarino, con a bordo un equipaggio in parte contagiato, che chiede di approdare per avere una speranza di salvezza. E a precipitare la situazione c’è un imprevisto tilt che manda all’aria gli abbandonati sistemi di difesa nucleare americani facendo sì che le testate atomiche puntino direttamente proprio verso l’Antartide… Kinji Fukasaku, regista del Fango verde e di Message from Mars, questa volta fa le cose in grande. Mobilitate le risorse della casa di produzione “Haruki Kadokawa” e acquistati i diritti per la trasposizione cinematografica di un romanzo di successo, riesce a coinvolgere nell’operazione grossi nomi del mondo hollywoodiano. Più che nella storia, l’originalità del film sta, tuttavia, nella rilettura in chiave fantascientifica del fortunato filone dei film “catastrofici” che in quegli anni riempivano ancora le sale di tutto il mondo.La pellicola è stata girata in Canada e in Alaska. Sul mercato americano è stata distribuita in versione accorciata di circa 50 minuti.In USA ha per titoli: Day of Resurrection, Virus.
Il sax Gianca (Briguglia) e la tromba Nick (Santamaria) s’incontrano nel 1994 a Umbria Jazz e diventano amici per la pelle, cioè per il jazz, ma presto il primo si rende conto che soltanto l’amico ha talento. Si consola sposando la fulva ragazza (Puccini, già Elisa di Rivombrosa ) che entrambi corteggiano. E si rassegna alla quieta routine di commercialista. I tre si rincontrano dieci anni dopo a un concerto bolognese di Nick e riallacciano il loro rapporto sulla scia di un motivo musicale, composto in passato da Gianca, intitolato Ma quando arrivano le ragazze? Quando il bolognese Avati ritorna al jazz, suo amore di gioventù (verso la fine degli anni ’50), si può stare tranquilli: parla di sé stesso con tenerezza, un po’ di malinconia e molta nostalgia, questo sentimento che si nutre di amnesie più che di ricordi. Come certe canzoni d’amore di cui fece l’elogio Truffaut, è un film che dice poco, ma lo dice bene, con grazia un po’ ruffiana. E con l’assolo del recuperato Dorelli (non a caso suo coetaneo) fa centro. David di Donatello alle musiche di Riz Ortolani.
Lorenzo ha 14 anni e, come molti adolescenti, è scontroso, insofferente, perennemente isolato dalle cuffie che sembrano quasi iniettargli musica rock nel cervello. Quando la sua classe parte per la settimana bianca, lui mente alla madre, finge di aggregarsi ai compagni barricandosi invece nella cantina di casa armato di libri, generi di sostentamento e un formicaio chiuso in una teca. Ma la sua pace solitaria dura poco. All’improvviso irrompe Olivia, la sorellastra più grande, tossica arrogante e in crisi di astinenza che con la sua presenza sconvolge i piani e la vita di Lorenzo, costretto questa volta a confrontarsi con un’altra persona. Da tempo in sedia a rotelle, Bertolucci torna finalmente a dirigere dopo quasi 10 anni. Liberamente desunto dal romanzo breve (2010) di Niccolò Ammaniti, che l’ha sceneggiato con il regista, Umberto Contarello, Francesca Marciano e Barbara Melega, è forse il film più emotivo e indifeso di Bertolucci, che sceglie 2 giovani sconosciuti e li trasforma in personaggi vibranti che si stampano nella memoria. Indimenticabile il loro ballo sulle note di “Ragazzo triste”, la “Space Oddity” di David Bowie che per l’occasione canta in italiano. L’ottimo Cianchetti alla fotografia non ha puntato sul dinamismo danzante della cinepresa, ma su un chiaroscuro che trapassa dall’espressionismo al barocco, con veloci incursioni nell’astratto. Distribuito da Medusa.
Provincia di Piacenza, anni Sessanta. Aldo Braibanti è un intellettuale con un gran seguito tra i giovani, che frequentano la sua “factory” dove si recita, si creano installazioni artistiche, si scrivono poesie. Fra i suoi adepti c’è Riccardo, che sogna di essere apprezzato dal suo maestro ma che da lui riceve solo critiche. Un giorno Riccardo porta con sé il fratello Ettore, che ha scovato una di quelle formiche che Braibanti, anche mirmecologo, colleziona in una teca. E l’intellettuale dimostra subito gratitudine e stima verso quel ragazzo intelligente e gentile. Ma anche un’attrazione, presto reciprocata dal ragazzo, che gli costerà lalibertà e la carriera: perché Braibanti è anche un omosessuale dichiarato.
Giovanni Pallidissimi, attore di cinema, torna dopo molti anni in famiglia a Bologna dove il fratello gemello è morto suicida e ha tormentati rapporti con la madre e con Wanda, fidanzata del fratello, entrambi risolti in modo positivo. Scritto con l’apporto di Vincenzo Cerami, l’8° lungometraggio narrativo di Bellocchio ha per temi centrali la separazione dal passato (cioè la crescita e i suoi costi affettivi) e il bisogno di chiudere conti rimasti aperti. Dopo una prima mezz’ora senza una grinza, rivela frizioni e dissonanze quando l’autobiografismo dell’autore s’intreccia con quello dell’attore, ma vanta anche un grande momento di cinema nella scena finale tra Giovanni e la madre. Angoscioso e tenero, può essere visto come la 2ª parte di un’ideale trilogia, aperta da I pugni in tasca (1965) e chiusa con L’ora di religione (2001). Castel doppiato da Sergio Castellitto.
Dopo aver vissuto alla giornata per anni, un uomo decide di mettere radici in un piccolo paese. Qui conosce una donna più anziana di lui, maltrattata dal marito infermo, e se ne innamora, ricambiato. Quando il marito scopre la relazione, scoppia il dramma: provoca un incendio nel quale trovano la morte i due sfortunati amanti.
Da un romanzo di Robert Ludlum, sceneggiato da Alan Sharp e Ian Masters: per vendicarsi di un superiore che ha autorizzato l’assassinio di sua moglie, un agente della CIA fa passare per spie al soldo del KGB sovietico tre amici di un affermato giornalista televisivo che li ospita con le mogli nella sua villa in campagna. Costruito col sistema delle scatole cinesi e reso ancor più complicato da tagli imposti dalla produzione, l’ultimo film di Peckinpah è un pamphlet contro la CIA e il suo potere incontrollabile, un apologo contro l’invadenza perversa della televisione, una parabola sull’ossessione voyeuristica della civiltà elettronica dello spettacolo in cui diventa sempre più difficile distinguere chi guarda da chi è guardato, la realtà dalla sua riproduzione, la verità dalla menzogna. Come macchina spionistica ha qualche ingorgo, ma anche pagine di forza lampeggiante e una parte finale in crescendo, da incubo allucinato.
Dal libro Quel bowling sul Tevere di M. Antonioni. 4 storie d’amore, o di disamore, legate dalla figura di un regista (Malkovich) che visita i luoghi dell’azione (Ferrara e Comacchio, Portofino, Parigi, Aix-en-Provence: sequenze girate da W. Wenders). È un piccolo mosaico sulla drammatica (inevitabile?) incompletezza di ogni relazione amorosa. Storie sottovoce con aneddoti ridotti all’osso, qua e là verbose e un po’ liricamente sforzate. Tre congressi carnali sembrano troppi, ma c’è anche, nell’episodio parigino, un’insolita brezza di soave ironia. Girato da Antonioni dopo 10 anni di inattività per malattia.
Marc un giorno decide di tagliarsi i baffi. Niente di eccezionale se non fosse per il fatto che li porta sin da quando era ragazzo. Si aspetta quindi che sua moglie Agnes commenti (positivamente o negativamente) il fatto. Invece nulla. Neppure le altre persone del suo entourage sembrano accorgersi del cambiamento. Nel momento in cui si decide a chiedere un parere gli viene detto che la domanda è assurda: lui non ha mai portato i baffi quindi… Inizia così una spirale di presunta follia che coinvolge in modo particolare la coppia. Agnes vuole farlo visitare da uno psichiatra. Lui si convince sempre più o che sia lei a non essere più in sé o che si tratti di un complotto ordito ai suoi danni. Un viaggio ad Hong Kong dovrebbe aiutarlo a fare chiarezza. C’è un certo tipo di cinema francese che va consigliato a una ristretta fascia di pubblico. È un cinema che si avvale di attori davvero bravi e capaci di sostenere situazioni che, con altri al loro posto, sfiorerebbero il ridicolo. In questo caso Vincent Lindon ed Emmanuelle Devos appartengono a quel tipo di interpreti. È un cinema che però si avvita in un intellettualismo raffinato che finisce col creare quesiti tra lo psichico e il metafisico senza l’intenzione di risolverli. È un cinema che ha assolutamente bisogno della lingua con cui è stato concepito, cioè il francese. Da noi invece si doppia e l’effetto in gran parte si vanifica. Se poi si aggiunge che il film, dopo un primo tempo che riesce a costruire un buon livello di tensione, si perde in una peregrinazione hongkonghese che sembra essere messa lì solo per allungarne la durata e farlo passare dal medio al lungometraggio, allora la situazione si complica. Se poi ci aggiungete un titolo italiano assolutamente deviante rispetto all’originale (che è anche il titolo del libro che il regista aveva scritto una ventina di anni fa) il gioco è fatto. Portando a una valutazione che dovrebbe essere doppia: 3 stelle per l’interpretazione, 2 stelle per il risultato complessivo. Per rispetto nei confronti degli interpreti che debbono ‘reggere’ la storia opteremo per le 3.
Julio e Tenoch sono due amici diciassettenni che hanno una gran voglia di crescere. Nel corso di una festa conoscono una ventottenne spagnola, Louisa, che corteggiano in coppia.Costei è un misto di vitalità e di tristezza, ma è capace di accettare la proposta di un viaggio in tre verso una spiaggia denominata Boca del Cielo che i due in realtà non sanno dove si trovi. Il viaggio permetterà di verificare come l’erotismo e la gioventù non escludano il dolore. Si tratta di un film che ha un inizio abbastanza greve ma sa poi trovare una sua capacità di lettura dei sentimenti.
Un commando di “Settembre nero” rapisce cinque ragazze ricchissime mentre stanno per prendere il largo a bordo del Rosebud e chiede, in cambio della loro vita, giustizia per i palestinesi. Un agente inglese interviene.
Al momento non ho trovato versione in italiano
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
Killer Joe è il poliziotto con l’hobby dell’omicidio a pagamento, assoldato da una famiglia di redneck del Texas per uccidere l’ex moglie ed ex-mamma, da tempo scappata con un altro uomo. Hanno scoperto che la sua morte frutterà 50.000 dollari di assicurazione, soldi con i quali verrà pagato il killer e la famiglia si tirerà fuori da diversi guai. Ma non è mai così semplice uccidere ed incassare e Joe non è il tipo che ammette ritardi o intoppi nel suo lavoro. Dopo aver firmato almeno una pietra miliare per ogni decennio di attività, William Friedkin arriva alle porte del secondo decennio del nuovo millennio con un film in pieno stile pulp, che lui (e non solo) sembra considerare l’aggiornamento del noir (la doppia indennità della trama fa subito pensare a La fiamma del peccato).Prendendo le mosse dall’omonima opera teatrale di Tracy Letts (riscritta per lo schermo da lui stesso), Killer Joe si assesta dalle parti dello stile tarantiniano, per quanto riguarda l’appeal, l’umorismo e la spiazzante stravaganza dei personaggi, e a quello dei fratelli Coen sul versante dei risvolti di trama e di una più generale visione nichilista del mondo. Sotto una superficie aliena però batte forte il cuore del regista di Vivere e morire a Los Angeles, che calza i panni di un genere nuovo (per lui) non come un travestimento ma come un buon abito. Lo si vede nel rigore dello stile (estraneo ai registi precedentemente citati), nella sapida asciuttezza dei momenti più determinanti, nella ferma chiarezza d’intenti di un film che corre come un treno verso i suoi cinque minuti finali e soprattutto nel modo in cui, ancora una volta, Friedkin lavora con i suoi attori. Matthew McCounaghey in un ruolo tra il comico e il terrificante, bello, rassicurante e pronto a diventare disturbante in un attimo, è il capolavoro del regista. Con l’abilità che gli è riconosciuta nel caratterizzare scene e personaggi attraverso i movimenti e l’uso di tutto il loro corpo, spesso con inquadrature a figura intera, spesso con lunghi piani sequenza, Friedkin riesce a trasformare uno degli attori finora meno malleabili. La sorpresa dei protagonisti nel trovarsi preda di quello che doveva essere un loro dipendente è la stessa che lo spettatore prova nel vedere il lento mutamento di un attore che ha la commedia romantica marchiata sui pettorali. Da quel corpo pulito da bravo ragazzo Friedkin parte e attorno a lui fa ruotare Emile Hirsch, Thomas Haden Church, Juno Temple e Gina Gershon, i quali, di volta in volta, sembrano guadagnarsi il ruolo da protagonisti. Eppure alla fine sarà McCounaghey a incarnare il senso ultimo di un viaggio nell’America violenta e spietata, una piccola parte di un mondo dominato dal caos.
L’agente K è un blade runner della polizia di Los Angeles, nell’anno 2049. Sono passati trent’anni da quando Deckart faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Niander Wallace e ha convinto il mondo con nuovi “lavori in pelle”: perfetti, senza limiti di longevità e soprattutto obbedienti. K è sulle tracce di un vecchio Nexus quando scopre qualcosa che potrebbe cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare fino in fondo. Come in ogni noir che si rispetti dovrà, ad un certo punto, consegnare pistola e distintivo e fare i conti da solo con il proprio passato.Ed è certamente sul piano visivo, e delle scelte operate in questo senso, che il film di Villeneuve trova la propria originalità costitutiva: quella di un ibrido tra blockbuster e film personale, specie nella gestione del tempo, che il canadese sottrae alle logiche di mercato e fa proprio nel bene e nel male, lungaggini comprese. Il disordine e la spazzatura della L.A. Del 2019 sono un ricordo lontano: ora tutto è ordine, K stesso, come gli ricorda il suo capo, è pagato per mantenere l’ordine. Ma non è facile assolvere questo compito quando i ricordi d’infanzia si mescolano agli interrogativi metafisici, proprio come in “Fuoco pallido”, il romanzo di Nabokov che torna a più riprese. Non è facile quando, come nell’archetipo di ogni detection contemporanea, la tragedia di Edipo, cacciatore e cacciato sono la stessa persona. Dice tante cose, il film di Villeneuve, forse troppe, d’altronde fa parte di un processo di espansione, di creazione di un universo Blade Runner. E di certo non le dice sempre nel migliore dei modi: non ha l’asciuttezza dell’originale, stordisce di spiegazioni, arriva persino in ritardo sulle intuizioni dello spettatore, ma la forza interna del racconto, la materia di cui è fatto, è così potente che trascina oltre, come una corrente.
“Io ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”: frase storica, storico film, giunto – a venticinque anni dalla sua prima uscita – alla terza edizione, dopo il director’s cut del 1992 e la versione, a quanto pare definitiva, del 2007. Torna dunque in servizio l’ex poliziotto fallito Rick Deckard, prestato all’unità speciale Blade Runner, per dare la caccia ai replicanti, uguali in tutto e per tutto agli esseri umani salvo per l’apparente incapacità di provare dei sentimenti e per la durata limitata delle loro esistenze: circa quattro anni. In una Los Angeles del futuro, anno 2019, cupa, nebbiosa e terribilmente affollata, il simulacro dell’esistenza nella pessimistica penna di Philip K. Dick ritrova vita nelle immagini girate nel capolavoro di Ridley Scott. Oltre al piacere di rivedere un classico del cinema – con tutti i costrutti filosofici che ne conseguono – questa nuova versione di Blade Runner sembra soddisfare più un ben determinato piano commerciale, piuttosto che una vera e propria rivisitazione operata dal regista rispetto alle scorse versioni. A parte la rimasterizzazione dell’opera e lo zampino già noto dell’artista francese Moebius (Jean Giraud) chiamato a evocare alcuni scenari tratti da un suo fumetto a sfondo fantascientifico, nonché delle musiche a sfondo futuristico dei Vangelis, “Blade Runner” vanta dei cambiamenti quasi impercettibili (almeno rispetto al Director’s Cut del 1992) rimanendo quello che era: il cult movie che ha conquistato almeno tre generazioni di spettatori. La voce narrante, onnipresente nell’originale del 1982, è totalmente sparita, togliendo al film la sua caratterizzazione principale e indebolendo parzialmente la storia (passata) del personaggio interpretato da Harrison Ford. Più nitida, invece, la scena centrale del sogno, importante chiave di (non) lettura sulla vera natura di Rick Deckard, forse anch’egli un replicante. Ed è il finale a confermare una tendenza pessimistica (rispetto all’happy end “ecologista” imposto dalla produzione nella prima stesura, portata a termine con le scene scartate da Kubrick in Shining), che si rifà sostanzialmente a quello della seconda versione. Insomma, il ritorno al cinema (e in un cofanetto con ben 5 dvd) di Blade Runner è un piacere per gli occhi e per la mente. Ma non aspettatevi grosse novità: dopotutto i replicanti vivono all’incirca quattro anni, mentre Blade Runner è già entrato nella storia.
Siamo a Hollywood verso la fine degli anni Trenta. Un’attrice di secondo piano è contesa tra un giovane scenografo e un anziano professionista; la sua leggerezza scatena la delusione del primo e la pazzia del secondo, vittima di un gesto sconsiderato. La ragazza rimane sola.
A-Team (The A-Team) è una serie televisivastatunitense trasmessa in prima visione assoluta dal 1983 al 1987 sul canale televisivo NBC. Creata da Frank Lupo e Stephen J. Cannell, segue il filone del “militarismo buono”, in cui l’uso di armi ingegnose e letali non comporta mai la morte o il ferimento grave dei nemici, secondo un’impostazione tipica dell’intrattenimento popolare negli anni 1980[2]. Il titolo A-Team si riferisce indirettamente agli “A-Teams”, termine con cui si intendono gli ODA, Operational Detachments Alpha (Distaccamenti Operativi Alfa). Un commando di ex-combattenti della guerra del Vietnam chiamato A-Team (Squadra A), un tempo appartenenti al 5th Special Forces Group dell’esercito degli Stati Uniti, viene accusato ingiustamente di aver rapinato la banca di Hanoi. Evasi in maniera rocambolesca, vivono in fuga, ricercati e braccati dalle autorità militari per un reato che non hanno mai commesso. I componenti della squadra sopravvivono prestando servizio come mercenari e venendo, nella quasi totalità degli episodi, assoldati da persone o da gruppi di persone oppresse da situazioni d’ingiustizia o di pericolo. Grazie alle qualità militari e umane dell’A-Team, ogni episodio si risolve in maniera definitiva a favore dei più deboli. Pur essendo considerati mercenari dagli altri personaggi della serie, i membri dell’A-Team sono schierati sempre dalla parte del bene. Famoso è il loro furgone GMC Vandura nero e grigio con 2 strisce rosse laterali, che si uniscono sullo spoiler superiore, usato come mezzo principale di trasporto e di azione dell’A-Team.
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