L’agente Dormer (Pacino) del dipartimento di Los Angeles viene chiamato in un paese dell’Alaska per indagare sulla morte di una ragazza. Lo accompagna un collega. Collabora con lui la giovane poliziotta locale Ellie, che considera Dormer una vera leggenda. Rincorrendo nella nebbia l’ assassino, Dormer uccide incidentalmente il collega e non è nella condizione, per una certa indagine avviata dal suo dipartimento, di assumersi quella responsabilità. Dà la colpa all’assassino, che però ha visto tutto e ritiene di avere in pugno il poliziotto. I due sarebbero dunque legati dalla complicità. Si incontrano, sono costretti a proteggersi a vicenda. Ma Dormer è troppo onesto per reggere il gioco, e poi la poliziotta comincia a capire. Finisce come deve finire. Da rilevare Robin Williams che ormai si diverte nei ruoli di cattivo, come in One Hour Photo, (è lui lo psicopatico scrittore di gialli che ha ucciso la ragazza) e poi la solita performance di Pacino grande e tollerabilmente sopra le righe. L’insonnia è dovuta alla sua angoscia e al fatto che da quelle parti, in quella stagione, è sempre giorno. Il film parte meglio di come poi arrivi. Un po’ anche per il tributo al talento un po’ invadente del protagonista. E’ magnifico che l’indagine si svolga con gente che ragiona, parla e cammina, e non solo al computer. Sopra la media.
Dario, un radiocronista che conduce una rubrica serale, è chiamato dal fratello ad Atlantic City per dargli consigli su un affare. La situazione familiare è estremamente intricata. Dario torna alla sua radio e racconta, durante una lunga trasmissione, tutta la sua tragedia familiare.
Un film che ha come traino il personaggio televisivo di Pee-Wee, notissimo negli Stati Uniti, e che ha incassato sette milioni di dollari. Pee-Wee vive in una fattoria e ha un maiale parlante, Vance, con il quale coltiva delle strane piante. È un tipo molto particolare, ed è fidanzato con Winnie. Salverà un circo caduto in disgrazia.
Il primo dei due film con il personaggio creato per la tv da Paul Reubens, il secondo sarà Big Top Pee-Wee – La mia vita picchiatella. Lo squinternato Pee-Wee parte per un lungo viaggio per riavere la bicicletta rubata, fino ad arrivare agli studi della Warner Bros. Sarà l’ispirazione per un film. Tim Burton ce la mette tutta e riesce a salvare la mediocre sceneggiatura.
Violeta Parra (1917-1957) è un’icona della musica popolare cilena e, in generale, uno degli artisti più significativi dell’America Latina: cantautore, ricercatore del folklore, ma anche pittrice, ricamatrice, scultore e ceramista, nonché la prima latinoamericana a cui fu consacrata un’esposizione di opere al Louvre. Il film inizia descrivendo la sua infanzia e l’adolescenza tormentate trascorse nel sud del Paese, nella regione di Chillán, in una famiglia proletaria numerosa. Il padre Nicanor è un maestro e insegnante di musica alcolista, mentre la madre, di origine contadina, cuce a macchina in casa. Fin da bambina è vivace e dimostra inclinazione per la musica (compone le prime canzoni a 12 anni) e per il teatro. Violeta si sposa due volte, partorisce 4 figli, si integra in un gruppo teatrale itinerante, dove canta in coppia con la sorella Hilda, e si impegna politicamente con i comunisti. Si assiste alle sue peregrinazioni nei paesini delle Ande alla ricerca di antiche canzoni e ballate popolari da apprendere e reinterpretare.
Nel 1954, viene invitata ad esibirsi in Polonia e successivamente trascorre 2 anni in Europa. Tornata in Cile inizia a incidere dischi e, nel 1958, fonda il Museo Nacional del Arte Folklórico. All’inizio degli anni ’60 è a Parigi insieme al grande amore della sua vita, il musicologo e antropologo svizzero Gilbert Favre, con cui intrattiene una relazione tempestosa e contrastata. Rientrata in Cile, nel 1965 inaugura il suo progetto più ambizioso, la tenda-teatro a La Reina, che vuole essere una “Universidad del Folklore”. Vi si esibisce con i figli Ángel e Isabel e con altri cantautori, fra cui Victor Jara. Ma nel frattempo Favre la lascia e si trasferisce in Bolivia. Andrés Wood ha tracciato un ritratto intenso: descrive la donna e l’artista appassionata e contraddittoria, tenacemente creativa, ma anche in lotta con i suoi demoni interiori, con eccessi di cupezza, disincanto e persino di egoismo e risentimento. Al contrario il suo attivo compromesso politico e la relazione di sfida che mantenne con la borghesia cilena sono appena abbozzati in qualche fugace episodio. Si notano le similarità di approccio con il notevole film Frida, naturaleza viva (1986), del regista messicano Paul Leduc, che esplora la vicenda della famosa pittrice Frida Kahlo (1907-1954). Il film ripercorre le tappe salienti della vita della Parra (con alcune licenze poetiche), ma non è un tradizionale biopic. La narrazione è sapientemente frammentaria e si struttura attraverso ellissi e salti temporali, flashbacks e flashforwards, intervallati da un curioso filo conduttore. Si tratta di un’intervista rievocativa concessa nel 1962 a un giornalista televisivo argentino tendenziosamente provocatorio, a cui la Parra risponde con sfrontata ironia. Lo straordinario montaggio, non lineare né sequenziale, di Andrea Chignoli, è caratterizzato da libere associazioni e zone chiaroscurali. Siamo lontani da un mero realismo e dalla omogeneità conciliatoria, anche se la pur felice descrizione episodica delle pulsioni caotiche mostra, a volte, qualche limite retorico. Senza dubbio la forza del film risiede nella straordinaria interpretazione di Francisca Gavilán. L’attrice sembra davvero incarnare Violeta, quasi attuando un processo di osmosi. La sua recitazione emotiva e coraggiosa fa emergere i marcati contrasti della personalità di un’artista forte, ma anche insicura, socievole, ma anche individualista e angustiata. Ma soprattutto risulta contundente il fatto che ella stessa interpreti versioni bellissime di tutte le 21 canzoni presenti nel film. La fotografia di Miguel Joan Littin, abituale collaboratore di Wood, cattura magistralmente la luce peculiare delle Ande e le penombre parigine lungo la Senna e correla spesso gli stati d’animo della protagonista.
Pat esce dall’ospedale psichiatrico dopo otto mesi di trattamento con una sola idea in testa: rimettersi in forma e riconquistare la moglie Nikki. Un divieto di avvicinamento lo costringe, però, nel frattempo, in casa con la madre e il padre, che ha perso il lavoro e si è dato alle scommesse, e gli impone degli incontri settimanali con il dottor Patel. A questo punto, la già precaria autodisciplina di Pat viene sconvolta dall’incontro con Tiffany, giovane vedova con una recente storia di dipendenza da sesso e psicofarmaci. In cambio della sua intercessione presso Nikki, Tiffany vuole infatti che Pat le faccia da partner per un bizzarro concorso. Il bilanciamento di dramma e commedia è ormai la norma, difficilmente si trovano rappresentanti puri di una delle categorie, e il cinema in questo non fa altro che avvicinarsi ulteriormente alla vita (anche se poi, su entrambi i fronti, è tutta questione di punto di vista). Ciononostante, il quid del film di O. Russell, ciò che lo eleva sopra la norma priva di particolare interesse, è proprio in questo equilibrio, più riuscito e ardito del solito, perché operato su una materia scivolosa, fatta invece di squilibri, di ricadute e continue ridefinizioni degli obiettivi e delle aspettative. Al di là del dato biografico del regista, ex caratterino indomabile, che può essersi mescolato o meno al romanzo di Quick che ha anticipato e suggerito il film, la scommessa vincente di O. Russell – la cui regia in senso tecnico è probabilmente sopravvalutata ma ha senza subbio qualcosa da insegnare sullo spazio cinematografico- è quella di restringere il campo ad un metaforico tratto di strada. Si consuma infatti tutta qui, tra l’abitazione dei Solitano, il garage di Tiffany e l’agognata e proibita meta rappresentata dalla casa di Nikki, la preparazione alla vita di Pat: una preparazione atletica ad una vita “ballerina”. Dopo un po’ la strada si spiana e il film si adagia sull’asfalto della commedia sentimentale più classica, perdendo di poesia e finendo per coincidere con la riduzione banaleggiante che il titolo italiano, Il Lato Positivo , opera sull’originale. Resta però l’eco della presenza scenica di Jennifer Lawrence, che possiede una forza d’urto letterale, e dell’impresa interpretativa di Bradley Cooper, che depura il personaggio di carta dalla pellicola protettiva dell’ingenuità e si carica sulle spalle il peso di una consapevolezza che fa il film più amaro e più vero.
Figlio di un nobile inglese, Larry Talbot torna nel castello dei suoi avi. Nel soccorrere una ragazza aggredita da un licantropo rimane ferito e nelle notti di luna piena si trasforma in lupo e aggredisce gli abitanti del villaggio, che organizzano una battuta di caccia. L’ultimo dei mostri della Universal non ha una forte fonte letteraria come i suoi predecessori: è un’invenzione dello sceneggiatore Curt Siodmak nel film Universal del 1935, Il segreto del Tibet . Siodmak ne accentua la struttura di tragedia greca: colpito dal Fato, Talbot è condannato senza una vera colpa. Notevole per l’uso della nebbia (fotografia: Joseph Valentine), così bianca e fitta da dare agli esterni un aspetto visionario; l’ottimo trucco di Jack Pierce; le musiche d’atmosfera di Charles Previn e Hans J. Salter (sfruttate in molti horror successivi) e l’interpretazione della Ouspenskaya come preveggente zingara che cerca di aiutare Larry. Seguito da Frankenstein contro l’uomo lupo (1943). Rifatto nel 2010 da J. Johnston.
L’isola degli zombies (White Zombie) costituisce il primo autentico zombie-movie, progenitore di decine di film realizzati negli anni successivi (da Tourneur a Romero), realizzato già nel lontano 1932 dai fratelli Halperin (Victor regista, Edward produttore). Il film è ambientato ad Haiti, tra bambole voodoo e potenti magie nere, dove un superbo Bela Lugosi è il negromante Murder Legendre, un satanico individuo che schiavizza zombie utilizzandoli come manodopera nelle raffinerie di zucchero. In quegli anni, infatti, lo zombie appare soprattutto l’essere privato della propria anima che si distingue per l’andatura rigida e lo sguardo fisso, lontano dai mostri antropofagi nei quali ci si imbatterà in seguito, corpi umani privati della volontà e resi simili ad automi da pratiche stregonesche nella migliore tradizione della macumba caraibica. Nel film di Halperin, un vero “incubo a occhi aperti”, gli zombie sono schiavi di colore costretti a lavorare nella piantagione anche dopo morti, metafora scoperta di un capitalismo aggressivo e feroce.
Lascia l’America per andare da un amico messicano, miliardario e corrotto politicante, ma tutto si incrina quando scappa con la giovane moglie. Intruglio di orgoglio, pregiudizio, tradimento, vendetta, violenza, sesso con un pizzico di horror: tremendo. Come mangiare a cucchiaiate farina cruda.
Una prostituta diventa amante di un drogato, spacciatore di stupefacenti. Per un po’ di tempo smette con la “vita”, poi, quando i soldi cominciano a mancare, torna sulla strada mentre lui rubacchia insieme al fratello. Accusata di furto da un cliente, la ragazza si salva denunciando ad un poliziotto il suo amante e l’uomo che li rifornisce di droga. La via della depravazione è ormai definitivamente imboccata.
Nel 1845, a Parigi, durante i festeggiamenti del carnevale, il dottor Mirakle (Bela Lugosi) sbalordisce il pubblico esibendo in un circo delle meraviglie il possente Erik, un gorilla ammaestrato che egli dice di aver catturato nel cuore dell’Africa Nera. In realtà, lo spettacolo costituisce l’alibi per poter, nottetempo, rapire giovani ragazze e realizzare un esperimento che confermerebbe la validità della teoria sull’evoluzione dell’uomo dalla scimmia: individuare un gruppo sanguigno compatibile con quello di Erik per affiancargli una compagna. Poiché le prigioniere non sopravvivono alle trasfusioni, Mirakle con l’aiuto del fedele assistente Janos si sbarazza dei loro corpi gettandoli nella Senna, ma il giovane Pierre Dupin, analizzando i cadaveri, si insospettisce e va a curiosare nel laboratorio di Mirakle appena in tempo per evitare la morte a Camille, sua fidanzata, che il folle scienziato ha appena fatto rapire da Erik. Fallito il progetto di filmare la storia di Frankenstein con Bela Lugosi, Robert Florey rilegge il celebre racconto di E.A. Poe per ricavarne una pellicola a metà strada tra l’horror e la fantamedicina. Della pagina scritta, il film conserva il nome di Dupin, l’idea del rapimento ad opera del gorilla e la morte di una donna trascinata nel camino, ma, per il resto, racconta una storia originale che attinge ai temi (assai fortunati in quegli anni) dell’uomo-scimmia e dello scienziato pazzo e che trova in Lugosi, reduce da Dracula, l’interprete ideale. L’eccellente fotografia di Karl Freund e le scenografie distorte di Charles D. Hall (inevitabile il richiamo al Gabinetto del dottor Caligari, del quale si ripercorre anche l’intreccio) recuperano con proprietà le suggestioni espressionistiche del cinema tedesco. Gli effetti speciali, realizzati in parte con la stop-motion, e il trucco della scimmia (impersonata da Charles Gemora) sono superiori alla media del tempo. Il film è conosciuto in Spagna con i titoli Doble Asesinato en la Calle Morgue e Los Crímenes de la Calle Morgue.
Dal teledramma (1956) di Rod Sterling: un peso massimo del pugilato, alla fine di una carriera impietosamente sfruttata da un manager esoso, passa al catch, diventando l’amara caricatura del campione che fu. Un film sulla boxe alquanto sopravvalutato. Il regista e un po’ anche A. Quinn risolvono in melodramma quel che nell’originale TV di Sterling era asciutto e senza fronzoli sentimentali. Notevoli l’evocazione soggettiva di un KO e lo spietato finale. Appare anche Cassius Clay.
Un vecchio guantone da baseball ricevuto improvvisamente per posta costringe Bobby Garfield, affermato fotografo di mezz’età, a ritornare indietro nel tempo e nel luogo, a quella lontana estate del 1960, quando straordinari eventi segnarono la fine della sua infanzia. È la mattina del suo undicesimo compleanno quando, nella casa dove Bobby (Anton Yelchin) abita con la madre, arriva Ted Brautigan (Anthony Hopkins). L’uomo è tormentato da un passato misterioso, e da strane trance precognitive che lo angosciano, eppure è in grado di instaurare col ragazzino un profondo rapporto di amicizia, prestandogli quelle attenzioni che la madre vedova (Hope Davis), troppo amareggiata e disillusa, non è in grado di dare al figlio. È così che Bobby scopre i valori dell’amicizia e del coraggio, ed è così che si innamora per la prima volta della sua compagna di giochi, Carol. Ma gli eventi precipitano, Carol è picchiata a sangue da un ragazzetto crudele, la madre di Bobby scopre a proprie tragiche spese la verità sul suo datore di lavoro, e Ted è costretto a rimettersi in fuga: gli uomini grigi che da tempo lo stanno braccando sono ormai vicini.
La commedia americana sta vivendo un buon periodo: dopo lo spassoso School Of Rock e il tuffo nel passato di Down With Love, il tandem Stiller /Homburg, già responsabile de Ti presento i miei e Zoolander ci riprova, aggiungendo alla formula magica un po’di sentimento ma, ahimè, togliendo quel gusto per il cinismo e la corrosione, che aveva caratterizzato i due titoli precedenti. Il risultato è un film breve, sfizioso, divertente, leggero e dimenticabile.
Immersione in apnea nel microcosmo a porte chiuse degli agenti immobiliari, disposti a tutto pur di vendere. Da una commedia (1982) di D. Mamet, premio Pulitzer, un bell’esempio di teatro in scatola (o di cinema di parola) con un’eccellente squadra di attori e una regia funzionale anche nel dare ritmo implacabile a un testo che fa pensare a una jam-session jazzistica. Una media di 4-5 parolacce al minuto. Fu rappresentata in Italia con la regia di Luca Barbareschi.
Condannato a morte dai seguaci di Cromwell, nel 1660 Carlo II Stuart (D. Fairbanks Jr.) vive profugo in Olanda, aiuta in incognito la bella Katie (P. Croset) nel lavoro dei campi e nel governo della locanda, ha una parentesi galante con una contessa (M. Montez), riceve gli amici, si sbarazza dei nemici finché lo richiamano sul trono d’Inghilterra. Dal romanzo His Majesty, the King di Cosmo Hamilton, sceneggiato dallo stesso Fairbanks e dal regista, è il 1° film a Hollywood di M. Ophüls. “Mai visto un film di cappa e spada così elegante, così delicatamente cesellato” (L. Marcorelles): poca azione, molti dialoghi, diverse divagazioni e un prezioso impianto figurativo cui contribuiscono la fotografia di Franz Planer e deliziose, deliranti scenografie teatraleggianti: tutti gli esterni olandesi furono ricostruiti in studio a Hollywood.
Nella camera di un hotel un uomo gioca simbolicamente con sé stesso, con gli oggetti e le forme evanescenti che lo circondano fino a formulare quel che è radicato nel suo subconscio, l’identità uomo-donna. Basato su un testo dello stesso Bene, può essere considerato come il manifesto della sua poetica. Il nucleo centrale è l’ossessiva presenza della madre come unica immagine femminile, desiderio di un’identificazione, bisogno di un ritorno all’essere che dà la vita, per ricostituire un’identità originaria, ricomporre la propria esistenza dimezzata (gusto del trasformismo, necessità del travestimento, bisogno del narcisismo). Scrittura barocca, recupero del floreale, ricorso al melodramma e all’enfasi recitativa, usati in modo dissacrante e ironico. Fotografia: Giulio Albonico. Musiche: Vittorio Gelmetti, Giuseppe Verdi.
Ispirandosi molto liberamente a un dramma di anonimo inglese del 1600, Bene racconta due storie parallele. La prima è quella di una giovane donna, abituata a girare nuda per casa, che si innamora sempre di uomini vecchi e decrepiti e ora cerca di assassinare il marito con il suo cadentissimo amante. La seconda è quella di un uomo (interpretato dallo stesso Carmelo Bene) che, insieme a una prostituta, cerca di suicidarsi provocando incidenti d’auto.
Un film stravagante formato da diversi episodi senza una trama precisa sull’incomunicabilità tipica del mondo moderno. Il regista è un noto pittore d’avanguardia. Ci sono anche brevi comparsate dello scrittore Alberto Moravia e del poeta Sandro Penna.
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