Da un racconto di Helen Rose. Un giornalista sportivo e una disegnatrice di moda si sposano, scoprendo che hanno pochi interessi in comune. Come mostra spiritosamente la conclusione, il mondo del sogno (la moda) ha la meglio su quello della realtà (la boxe). Scritta con impeccabile garbo, ricca d’inventiva a livello di regia (e di scenografie), elegante, divertente, è una commedia che regge il paragone con i modelli degli anni ’30. Un solo neo: Peck non è abbastanza duttile per una parte che avrebbe richiesto Cary Grant.
Inghilterra dell’XI secolo: Lady Godiva, una donna bella e tenace, sposa un nobile. Ferve la contesa tra sassoni e normanni. Il marito della protagonista vi si trova coinvolto, ma ne esce vittorioso. Godiva, accusata di adulterio, è costretta a cavalcare nuda per le strade.
Joanna Crane ha una doppia vita a schizofrenia libera: strapagata stilista di giorno, tutta casa e lavoro, al calar del sole si traveste da prostituta e va a battere i marciapiedi dell’infima Los Angeles. Film truculento e trito, indigesta mistura di naturalismo attardato, decadentismo decorativo, infantilismo freudiano, greve moralismo e congenita ruffianeria mercantile. Il talento di K. Russell affiora qua e là a schegge.
La banda dei ricercatori è tornata: l’associazione a delinquere “con il più alto tasso di cultura di sempre” di Smetto quando voglio decide di ricostituirsi quando una poliziotta offre al capo, Pietro Zinni, uno sconto di pena e a tutto il gruppo la ripulitura della fedina penale, a patto che aiutino le forze dell’ordine a vincere la battaglia contro le smart drug. Così questi laureati costretti a campare di espedienti in un’Italia che non sa che farsene della loro cultura vanno a recuperare un paio di cervelli in fuga e lavorano insieme per stanare i creatori delle nuove droghe fatte con molecole non ancora illegali. Pietro però non può rivelare nulla del suo nuovo incarico alla compagna Giulia, incinta del loro primo figlio, ed è costretto ad inventare con lei bugie sempre più colorite.
Un film di Sidney Lumet. Con Diana Ross, Michael Jackson, Nipsey Russell, Ted Ross, Mabel King. Titolo originale The Wiz. Commedia musicale, Ratings: Kids+13, durata 133 min. – USA 1978. MYMONETRO I’m Magic valutazione media: 2,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Tratto dal libro e dalla commedia musicale di L. Frank Baum, la storia di Dorothy (Diana Ross) nel fantastico mondo di Oz insieme ai suoi amici: lo spaventapasseri (un non ancora famoso Michael Jackson), l’uomo di latta e il leone. Il film è il più costoso musical mai realizzato, ma non regge il confronto con Il mago di Oz di Fleming (’39) con la quindicenne Judy Garland.
Chirurgo senza scrupoli raccoglie ragazza in fin di vita per un incidente in moto e le pratica un innesto cutaneo di nuovo tipo. Nell’ascella della ragazza si forma un pungiglione in forma di pene con cui perfora i disgraziati che incontra, succhiandogli il sangue e trasformandoli in vampiri. Il contagio si diffonde per tutta Montréal. Al suo 2° lungometraggio D. Cronenberg aggiorna e declina al femminile il tema del vampirismo, facendone un atto di accusa contro i soprusi della scienza che pretende di ricreare artificialmente l’uomo. Anche a livello stilistico il film “assomiglia a un melodramma più che a un horror tradizionale” (G. Canova). È diventato un film di culto anche per la presenza della pornostar canadese M. Chambers, imposta al regista dal produttore Ivan Reitman, non ancora passato a Hollywood.
È meticolosamente controllato il film di Jim Jarmush sui limiti del controllo. Un killer americano segue una serie di indizi improbabili per effettuare una misteriosa missione criminale. The Limits ha una struttura ridondante ben chiara: una serie di incontri bizzarri, delle anomalie (de Bankolé che prende due espressi in tazze separate in ogni bar), delle ricorrenze apparentemente marginali che poi convergono gradualmente (i fiammiferi, l’elicottero) e delle strizzate d’occhio (al killer di Ghost Dog, al treno o all’ossessione per il tabacco di Dead Man). Tra le apparizioni esplicitamente grottesche ci sono gli autoironici Tilda Swilton, John Hurt e Bill Murray. In una costruzione lenta e ripetitiva a restare nella mente sono soprattutto il montaggio di Jay Rabinowitz e la fotografia di una Spagna assolata di Cristopher Doyle. Ma lo spettatore che si lascia semplicemente trasportare dalle sensazioni é tutt’altro che superficiale: Jarmush ci fa viaggiare sui margini del controllo per riportarci al punto iniziale, le sensazioni appunto.
Affetto da una rara malattia (leontiasi) che gli deforma mostruosamente il cranio e il viso, il sedicenne Rocky Dennis è risarcito dall’amore della madre sgallettata e dalla protezione di una banda di simpatici punk. Alle prese con una storia non lontana da Elephant Man , Bogdanovich ha il merito di aver fatto un film commovente senza indulgere né agli effetti né al sentimentalismo. Ottima l’interpretazione di Cher nella parte della madre.
Tira e molla di sentimenti a Napoli tra Cecilia, libraia, e Tommaso, proprietario di un ristorante. Intorno a loro, altri personaggi in crisi. È il più ambizioso ma anche il meno riuscito dei film di M. Troisi che dà il meglio di sé nei lunghi monologhi. Brava e bella F. Neri, tutti bravi i comprimari cui, caso raro, Troisi concede il giusto spazio. Film d’amore, sull’amore, intorno e dentro l’amore, ha avuto i suoi sostenitori: “Piccolo piccolo e anarchico… uniforme e imprendibile, fluidissimo e singhiozzante, febbricitante e dolcissimo” (Gariazzo & Chiacchiari).
Un romanziere partecipa a una seduta spiritica per documentarsi, in vista di un libro che intende scrivere, e si trova tra i piedi lo spettro della prima moglie che, sempre innamorata, fa i dispetti alla donna che ha preso il suo posto e progetta, inoltre, di farsi raggiungere nell’aldilà dal disgraziato consorte.
Charmeur senza calcoli, seduttore suo malgrado, un po’ vigliacchetto e insicuro, studente in vacanza estiva sulla costa bretone non sa chi scegliere tra Léna, Margot e Solène. Risolve l’impiccio con la fuga. 3° film del ciclo legato alle quattro stagioni, conferma le qualità del sempreverde Rohmer, dandy della semplicità, squisito analista della banalità quotidiana, curioso della gioventù, che fa un cinema all’insegna della parola, dell’eleganza, della sobrietà e di un’ambiguità non priva di sottili perversioni.
Si tratta di un video sperimentale girato in uno studio di posa con strane strutture gigantesche e le canzoni della Cruise che ha già cantato in molti film di Lynch. La musica è di Badalamenti. Il lavoro è già stato portato in scena dalla Brooklin Academy of Music Opera.
Un killer ha l’incarico di uccidere un capo gangster. Ha molte difficoltà perché l’altro è protettissimo. L’occasione gli viene offerta da una donna. A casa di questa il killer compie la sua missione. Quando si tratta di riscuotere però, trova altri colleghi pagati per uccidere lui.
Un uomo, traumatizzato dall’eccessivo affetto materno, è l’insospettabile autore di numerosi delitti. A mettere la polizia sulle sue tracce sono alcune rivelazioni della ragazza che egli segretamente ama; l’assassino viene eliminato in extremis, proprio quando sta per fare di lei – che ha rifiutato di sposarlo – l’ennesima vittima
Arthur Kirkland è un onesto avvocato di Baltimora. Giovane e intraprendente, tenta invano di fare pulizia tra giudici corrotti del Maryland. È un film di attori. Al Pacino recita con il piede sull’acceleratore senza mai perdere il controllo del personaggio. Da segnalare l’esordiente C. Lahti, la divertente prova di Warden, giudice con la vocazione del suicidio, e il contributo di L. Strasberg. Scritto da Barry Levinson con Valerie Curtin.
Venezia, 1763. Lorenzo Da Ponte è un ebreo convertito, battezzato a dieci anni perché il padre potesse passare a nuove nozze con una cristiana. Assunto il cognome del vescovo che gli impartì il sacramento, ordinato sacerdote ma cresciuto a immagine e somiglianza di Giacomo Casanova, Lorenzo compone versi contro la Chiesa, dissipa i denari al gioco e i sentimenti nell’adulterio. Denunciato da un tipografo viene giudicato dall’Inquisizione veneziana e condannato a quindici anni di esilio. Casanova, persuaso del talento letterario e amatorio del suo protetto, lo raccomanda a Vienna ad Antonio Salieri. Nella città della musica, Lorenzo incontrerà Mozart, inesauribile compositore, provato dalla malattia e dai debiti. Diviso tra la passione di un insidioso soprano e l’amore di una giovinetta virtuosa, Lorenzo scriverà il libretto del Don Giovanni, sposando le note di Mozart e precipitando all’inferno il suo passato libertino.
La figura di Don Giovanni nel cinema è davvero considerevole. Fedelmente o liberamente interpretato, il suo mito è stato spesso ridimensionato, parodiato o trasformato in inerte materia avventurosa da una straordinaria messe di titoli. Considerevole eccezione è stato (ieri) l’impassibile e glaciale Don Giovanni diretto da Joseph Losey e interpretato da Ruggero Raimondi, apprezzabile è (oggi) la traduzione cinematografica del libertino di Carlos Saura, già autore nel 1983 dell’adattamento per lo schermo dell’opera di Bizet (Carmen Story). Consumatore di giovinezza e di bellezza, il dissoluto licenzioso ringiovanisce ad ogni convivio d’amore e ritrova levatura e gigantismo nelle immagini di Carlos Saura e nella luce di Vittorio Storaro. Il punto di vista del regista spagnolo è quello di Lorenzo Da Ponte, poeta e librettista che si inserì nell’illustre schiera di letterati attratti dalla storia esemplare di Don Giovanni. Sovrapponendo il mito del seduttore con tre figure storiche, Da Ponte, Mozart e Casanova, Saura intreccia e converge il personaggio con la persona, l’azione fantastica con la cronaca di quell’azione. Lorenzo Da Ponte, emulo e amico di Casanova, e più modestamente lo stesso Mozart, conoscevano bene le raffinate strategie dei sensi, e da uomini del loro tempo sentivano e sapevano che i giochi stavano per finire e che l’impavido farfallone amoroso avrebbe suo malgrado ceduto il passo al “convenuto di pietra”, ai Commendatori accasati e padri di famiglia. L’autore è preciso e istruito nel cogliere attraverso i suoi personaggi il crepuscolo del Settecento e le derivanti evoluzioni morali. La classe sociale e l’anarchico modello di vita di Don Giovanni, come pure di Da Ponte e Casanova, erano destinate a soccombere sotto l’onda rivoluzionaria della morale borghese. Se Don Giovanni canterà nell’opera il gran rifiuto di rinnegare le proprie gesta persino alle soglie dell’inferno, Da Ponte, meno eroicamente e meno ostinatamente, si accompagnerà con una consorte fino a New York, dove si spegnerà quasi novantenne. Io, Don Giovanni solleva ancora una volta la questione dell’opera lirica sullo schermo e risponde con un film impegnato parimenti sugli aspetti musicali e su quelli cinematografici. L’impatto e l’espressività del canto trovano un adeguato corrispettivo nella recitazione e nella fisicità degli attori cinematografici. Replicando la doppia natura, comica e tragica, del soggetto di Da Ponte, Saura differenzia lo spazio teatrale da quello cinematografico, disponendo dietro al primo piano il palcoscenico su cui dipanare l’intreccio ed esibire l’empio materialismo del mito erotico settecentesco. La costruzione dello spazio scenico poi permette di rinvenire le specificità del mezzo: ogni “voce” vive in scena e in schermo mantenendo la propria squisita individualità. Contrappunto inedito che prova a conciliare immagine, musica e parola.
Tokyo. Un piccolo appartamento in cui vanno a vivere una giovane madre con il figlio tredicenne. In realtà i figli sono quattro nati da quattro rapporti diversi e vanno tenuti nascosti perchè mai registrati all’anagrafe. Quindi niente scuola, nessuna uscita sul balcone e, per di più, una madre immatura che rovescia sulle spalle del figlio maggiore tutta la responsabilità della conduzione della famiglia fino al giorno in cui si allontana per non fare piu’ ritorno. La vita dei quattro piccoli continua ma la tragedia incombe. Ispirato da un reale fatto di cronaca questo film porta sullo schermo con grande precisione l’orrore dell’indifferenza in una società che non vede più i bambini come una preziosissima risorsa ma solo come un freno alla libertà degli adulti oppure un fastdio, una responsabilità che è meglio non assumersi. Neppure per segnalare alla polizia dei minori in stato di evidente abbandono. Un film lucidamente amaro, girato con una sobrietà intensa che fa meditare.
Poiché il suo pianeta sta morendo per effetto di una glaciazione, un alieno scende sulla Terra per verificare se le condizioni ambientali siano adatte alla sopravvivenza della sua razza. Le sue intenzioni non sono aggressive: in fondo cerca soltanto aiuto per salvare la sua gente; ma dagli uomini riceve solo incomprensione, e dai militari … colpi di bazooka.In contrapposizione alla tendenza del periodo, il soggetto del film presenta la figura dell’alieno come un “diverso”, non ostile, ma anzi bisognoso d’aiuto, anticipando temi che saranno poi sviluppati a partire dagli anni ’70 in film come L’uomo che cadde sulla Terra (1976), E.T. l’extraterrestre (1982), Fratello di un altro pianeta (1984) e Starman (1984).
Paranoia (妄想代理人Mōsō dairinin?) è un anime televisivo composto da 13 episodi di circa 23 minuti ciascuno, creato e diretto da Satoshi Konnel 2004. La trama segue le vicende di due investigatori che indagano sulle aggressioni di un misterioso ragazzo che a Tokyo si accanisce sulle proprie vittime con una mazza da baseball, apparentemente senza motivo, per poi dileguarsi nel nulla.
Tsukiko Sagi, la famosa disegnatrice che ha partorito la mascotte Maromi, viene aggredita con una mazza da baseball da uno squilibrato di cui la ragazza ricorda solo essere un bambino su pattini a rotelle color oro e con indosso un cappellino da baseball. Le ricerche partono immediatamente anche se il sospetto che la ragazza abbia mentito sull’accaduto viene subito avanzato da uno degli investigatori. Giorni dopo altre persone vengono però colpite da questo maniaco, che viene soprannominato Shonen Bat, ed il misterioso ragazzino diventa una sorta di leggenda metropolitana.
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