Tom Sanders è un alto dirigente di una azienda elettronica. Quando si prospetta una sua promozione viene scavalcato da una donna, Meredith Johson, che è stata una sua vecchia fiamma. La donna lo attira nel suo ufficio e tenta di sedurlo. Sanders sembra cedere, ma poi respinge quello che è un vero e proprio assalto alla baionetta. La donna giura vendetta. A sorpresa lo accusa di averla violentata. Sanders è messo in minoranza e si affida a un avvocato. Una registrazione scagiona l’uomo, ma Sanders scopre che nulla era casuale in quel tentativo di seduzione da parte di Meredith… Tratto da un abile romanzo del prolifico Michael Crichton, il film di Levinson non delude le aspettative di chi ha il solo scopo di abbandonarsi al piacere di assistere a un plot stimolamte, eseguito con abilità.
Saga sull’America gangsteristica attraverso la storia di un famoso cabaret di Harlem (New York) tra il ’28 e il ’35 e due storie di amore tribolato, una bianca e una nera. Jazz e violenza. Con C’era una volta in America, è il miglior gangster degli anni ’80: ricco, generoso, energico, miracolosamente omogeneo. 3 o 4 personaggi memorabili e un 30 e lode per i costumi di Milena Canonero. Colonna musicale di Duke Ellington (con R. Gere che non si fa doppiare alla cornetta).
Tra il 2008 e il 2009 in Ungheria gruppi organizzati di ‘giustizieri’ hanno commesso atti di violenza contro romeni. 16 case sono state attaccate con bombe molotov, sono stati sparati 63 proiettili per un totale di 55 vittime tra cui 5 ferite gravemente e 6 uccise. I processi contro i sospettati sono tuttora in corso. Mari, romena, vive con il padre invalido in una baracca nei boschi alla periferia di una città. Lavora come tagliaerba per il municipio e come donna di servizio. La figlia più grande, Anna, cerca di studiare in un ambiente non accogliente mentre il preadolescente Rio vagabonda evitando la scuola. Tutti sono sotto la stretta osservazione di un gruppo xenofobo. È un film in cui la tensione si fa respiro, sguardi, dettagli quello di Bence Fliegauf. Un’opera che concede ben poco allo spettatore ma sa come costruire, con una lentezza densa di significazioni quasi palpabili, un clima di paura nei confronti di un Male che può colpire all’improvviso e senza neppure la necessità di una benché minima provocazione. Il regista ha ben chiara la giustificazione che il gruppo razzista ha interiorizzato: non ce l’abbiamo con i romeni. Ce l’abbiamo con gli zingari che rubano eccetera. Di fatto poi tutti i romeni vengono catalogati come zingari. La giovane Anna, attenta nei confronti dei più piccoli e anche disegnatrice creativa, a scuola diventa la studentessa a cui si fa presente che è avvenuto un furto di attrezzature indicandola in tal modo come sospetta. L’attesa della punizione per un reato non commesso pervade tutto il film offrendo non solo l’occasione per riflettere su come l’odio irrazionale riesca a penetrare aree pronte ad assorbirne le più pretestuose ragioni. Just the Wind fa di più perché ci mostra come nella galassia ex comunista le minime garanzie sociali (pagate con il caro prezzo della dittatura) siano state sostituite da democrazie di nome ma non di fatto in cui la vita dei singoli (soprattutto se appartenenti a minoranze da sempre emarginate) non gode più di alcuna tutela.
Teheran, 1988. Shideh vive in mezzo al caos della guerra Iran-Iraq. Accusata di sovversione e registrata nella lista nera dal collegio medico, si ritrova in uno stato di malessere e confusione. Mentre il marito è in guerra un missile colpisce il loro condominio e da quel momento una forza soprannaturale cercherà di possedere Dorsa, la loro giovane figlia.
Lotta tra un cowboy e un Apache per una bella squaw bianca. Dal romanzo The Stalking Moon di Theodore V. Olsen, un western che, dopo una partenza volutamente lenta, decolla. “I suoi eroi sono ancora una volta stranieri in un mondo ostile, solitari di fronte a una natura selvaggia… un racconto segreto, pudico, temperato da un humour sempre presente e discreto” (M. Ciment).
Dopo un grosso colpo Jerry si lascia arrestare per permettere al socio di dileguarsi con il bottino. Quando esce dal carcere scopre che l’amico l’ha tradito. Western all’italiana denso di fatti basati su una trama che non ha niente di originale. Dietro allo pseudonimo di L.W. Beaver si nasconde Carlo Lizzani come dietro al creatore della colonna musicale Leo Nickols c’è Ennio Morricone.
Qualcuno mi conferma che è il film corrispondente alla trama. Non ho trovato nè titoli di testa nè titoli di coda.
Se vi piacciono le vacanze all’insegna dell’imprevisto e delle forti emozioni, provate a trascorrere un fine settimana a Delos… Delos è un grande complesso turistico che fa leva sulla più avanzata tecnologia per invogliare i visitatori a calarsi in eccitanti avventure progettate in ambienti che ricreano alla perfezione scorci dell’antica Roma, del Medioevo e del Far West. Ogni sezione di Delos è resa realisticamente vera dalla presenza di robot-umanoidi programmati in modo tale da rendere l’ospite protagonista di una situazione-tipo. I robot non reagiranno mai a quanto si farà loro e l’ospite potrà convincersi per la durata di un weekend di essere un eroe di altri tempi… almeno questo garantisce la pubblicità. Due amici, Peter Martin e John Blane, decidono di trascorrere una vacanza nel Far West di Delos e dapprincipio, indossati vestiti e cinturoni da cowboy, si divertono molto a sfidare a duello il robot che impersona il pistolero. Le cose cambiano quando alcune macchine sfuggono al controllo dei tecnici. I circuiti impazziscono e gli automi non muoiono più come dovrebbero fare, anzi, cominciano ad uccidere i turisti: gladiatori, cavalieri e pistoleri meccanici si trasformano in spietati assassini. Blane è uno degli ospiti che perdono la vita. Il suo amico Martin per sopravvivere deve ingaggiare una lotta mortale contro il pistolero che implacabilmente continua a braccarlo. Il film è dominato dalla presenza magnetica di Yul Brynner, perfetto nella parte dell’inarrestabile pistolero-robot. Sguardo glaciale, camminata minacciosa e solenne, conferiscono al personaggio un’aria di fredda determinazione e danno allo spettatore la convinzione di vedere sullo schermo il gemello cattivo di Chris dei Magnifici sette.Il successo del film giustifica il sequel Futureworld – 2000 anni nel futuro.
Ragazza di ricca famiglia viene mandata in convalescenza a fare una crociera nel Sud America. Conosce un uomo sposato e i due si innamorano perdutamente.
Film così, oggi, non sanno farli più, e non soltanto perché attori con quel carisma non ne esistono più in circolazione. L’assurdo e il sublime vanno a braccetto, la 1ª parte è nettamente superiore alla 2ª, ma perché chiedere la luna quando si hanno le stelle? Scritto da Casey Robinson e tratto da un romanzo di Olive Higgins Prouty. B. Davis era capace di tutto, anche di un personaggio romantico. Oscar per la musica a Max Steiner.
Uno dei film meno noti di Sean Connery, ma tra i più intensi della sua carriera. Nell’estate del ’32 tra le montagne della Svizzera si consuma furtivamente la relazione tra Douglas, medico cinquantenne, e Kate, la giovane nipote. Raccontata attraverso flashback, la storia d’amore tra i due trova la massima espressione in una collana che si rompe facendo rotolare rumorosamente le perle sul pavimento. Giuseppe Rotunno regala una fotografia mozzafiato e contribuisce a fare della pellicola un capolavoro.
Tre uomini aspirano alla mano di una ragazza: un milionario, un semplice operaio ed un saggio filosofo. Inizialmente lei sembra attratta dal denaro, ma poi il saggio la dirotta sul giovane e onesto operaio.
Kojak, anche nota come Il tenente Kojak, è una serie televisivastatunitense in 118 episodi trasmessi per la prima volta nel corso di 5 stagioni dal 1973 al 1978. La serie fu preceduta da un film TV, trasmesso l’8 marzo 1973: Tenente Kojak il caso Nelson è suo (The Marcus Nelson Murders), inserito poi come episodio pilota nella prima stagione.
È una serie giallo-poliziesca incentrata sui casi affrontati dal tenente Theo Kojak, investigatore di polizia del tredicesimo distretto di Manhattan.[1]Nel 1999 TV Guide classificò Theo Kojak al 18º posto nella classifica dei 50 più grandi personaggi televisivi di tutti i tempi. Theodore Kojak, detto Theo, è un duro, incorruttibile, calvo ed elegante tenente greco-americano della polizia dell’undicesimo distretto di Manhattan con la passione per i lecca-lecca. Kojak è ostinato e tenace nelle indagini, mostrando sovente un forte spirito cinico, assieme alla tendenza ad andare oltre le regole, se ciò può portare un criminale di fronte alla giustizia. Savalas descrisse il suo personaggio come un uomo dal “carattere fondamentalmente onesto, duro ma con i sentimenti, il tipo di ragazzo che avrebbe preso a calci una prostituta se avesse dovuto, ma entrambi si sarebbero compresi a vicenda perché magari erano cresciuti nello stesso quartiere“[3]. Il suo atteggiamento sprezzante e spregiudicato, soprattutto nei confronti dei criminali da perseguire, era però visto dal pubblico televisivo dell’epoca con poca “simpatia”, al punto che il celebre mensile satiricoMad Magazine gli dedicò un articolo intitolato Kojerk
Nota: mancano gli episodi 5×06 e 5×08, li sto cercando.
Dopo una vicenda sentimentale intrisa di amarezza e di sofferenza con un marinaio di colore, la giovane Jo si lascia platonicamente attrarre da Geoffrey che nutre per lei un sentimento sincero. Quando quest’ultimo apprende che Jo aspetta un figlio dal marinaio, copre la ragazza di tutte le attenzioni che le sue tristi vicissitudini meritano; nella delicata situazione Jo ritrova perfino l’affetto della madre Helen, donna svaporata e sciattona.
Fuochi nella notte nei dintorni di una piantagione dell’Africa centrale indicano un attacco dell’esercito nazionale rivolto a stroncare una rivolta popolare fomentata da un ribelle detto “le boxeur”. Mentre le istituzioni locali invitano tutti i cittadini occidentali ad abbandonare il paese, Maria Vial, proprietaria di una storica piantagione di caffè, rifiuta l’allarmismo del governo ed è determinata a non perdere il raccolto della stagione. Una determinazione che la porta ad incontrare ostilità tanto dalla popolazione locale che dalle forze regolari, dall’ex marito André e dal figlio indolente Manuel. Principale esponente di un cinema dell’intellettualismo postcoloniale, Claire Denis si interessa da sempre a tematizzare gli incontri fra differenti identità culturali in maniera non pacificata, conflittuale. Le sue opere raccontano di un mondo multietnico ma non globalizzato, interculturale ma non serenamente comunicante, ponendo enfasi sulle eredità che gravano sulle nuove generazioni figlie della decolonizzazione. Con quest’ultima opera, la regista francese si dirige verso il “cuore di tenebra” del suo cinema e della sua biografia, facendo ritorno nei suoi luoghi d’infanzia e puntando dritto all’incrocio fra capitalismo e colonialismo, fra materia-merce e materia umana. Lo stesso titolo, White Material si riferisce da una parte ai semi non lavorati del caffè (bianchi, prima della tostatura), materia di smercio con cui la protagonista costruisce la sua piccola impresa; dall’altra, al termine dispregiativo con cui i ribelli camerunensi si riferiscono agli intrusi caucasici e ai loro beni materiali. Il personaggio di Maria Vial è parto naturale di questo intreccio: a un tempo carattere illuminato capace di guardare con sincerità oltre l’etnia e il retaggio culturale, all’altro vittima di un attaccamento ossessivo ai propri possedimenti. La Denis è molto abile a mettere in scena questa contraddizione, concentrando l’attenzione tanto sul volto sofferente di Isabelle Huppert, quanto sui dettagli dei vestiti di lino e dei preziosi di Maria, così come sui dollari con cui questa è disposta a comprarsi il lavoro e il passaggio ai posti di blocco dei ribelli. È il punto di vista da cui racconta la storia a fare problema. Così come la storia di Maria è quella di una donna che implicitamente afferma la sua superiorità sentendo che la riuscita dei propri affari ha importanza maggiore del conflitto civile che la circonda, il conflitto civile messo in scena dalla Denis resta solo meramente pretestuale e delegato a fare da sfondo ideale per una storia che parla di identità (multi)culturali attraverso un unico punto di vista: quello del padrone. Una visione travestita di umanesimo che sotto la volontà di denunciare alcune barriere culturali, finisce col porne di nuove.
Scritto da Ingmar Bergman come Con le migliori intenzioni (1992) di cui è il seguito, racconta un altro decennio (1924-34) nell’infelice vita coniugale di Henryk Bergman e Anna Akerblom, genitori del regista. È la storia di un adulterio, quello che Anna commette con Thomas, studente di teologia più giovane di lei. Pur tra sconnessioni temporali e qualche taglio rispetto all’edizione televisiva, è diviso in 5 conversazioni (meglio: confessioni, nel titolo originale e nell’accezione luterana della locuzione) con epilogo-prologo nel 1907. A differenza del film precedente, la sceneggiatura di Bergman ha qui un impianto più frammentario e intimista dove si scava in profondità nel groviglio di amore-odio-senso del dovere-rivolta di Anna (P. August, qui protagonista assoluta, doppiata da Cristiana Lionello). Alla sua 3ª regia, L. Ullmann ci ha messo del suo: sensibilità, cura dei particolari, un tocco di femminilità oscuro e potente, quasi come in un processo di osmosi, identificazione, transfert tra regista, interprete e personaggio. Nell’edizione italiana manca la 3ª conversazione tra Anna e sua madre.
Remake del film di Chan-wook Park (2003), liberamente tratto dal manga del giapponese Tsushiya Garon disegnato da Minegishi Nobuaki: 1993, odioso pubblicitario cialtrone, incline all’alcol, pessimo padre e marito, è rapito e rinchiuso in una stanza nella quale resta 20 anni. Nutrito e accudito. Unica compagnia, un televisore dal quale apprende che sua moglie è stata assassinata – unico accusato, lui – e la figlia di 3 anni adottata. Quando riesce a evadere (o così crede) si dedica a scoprire chi e perché gli ha fatto ciò e a vendicarsi. Tremendo finale. Teso thriller, intriso di melò con le fosche tinte di una tragedia greca: sceneggiato da Mark Protosevic, è più lineare e meno grottesco della versione coreana, violento e sanguinario, più realistico nel suo non realismo. Distribuito da Universal.
Preferibile la versione originale di Chan-wook Park ma buona anche questa
Un uomo di mezza età, ubriaco, è sequestrato in un monolocale blindato dove passa quindici anni ignorando chi l’ha fatto rapire e perché. Dal televisore, unico contatto con l’esterno, apprende che sua moglie è stata uccisa e che lo cercano come uxoricida. Ancorato alla fame di vendetta, si allena per tenersi in forma. Misteriosamente come era entrato, esce, ossessionato da due quesiti: chi e perché? Non si domanda, però, perché l’abbiano liberato dopo tanto tempo. Ispirato a un manga del giapponese Tsushiya Garon disegnato da Minegishi Nobuaki, è un film iperrealistico e fantasmatico che ha nella violenza la sua energia creatrice, affidata a un meccanismo narrativo dove i momenti forti si alternano alle pause di attesa. A Cannes 2004 vinse il Gran Premio della giuria. All’origine c’è l’equivalenza fra parole e fatti: la parola uccide più della spada. La maestria di Chan-wook, regista di punta del cinema sudcoreano, sta nel fare dell’ambiguità l’evidente sottotraccia del racconto. Possiede qualcosa della sensibilità camp per la quale esiste un buon gusto del cattivo gusto.
Non abbiate dubbi su quale versione guardare di questo film, questa del 2003 è quella giusta.
Un direttore d’orchestra rifiuta di pagare una tangente a un bandito per avere la possibilità di suonare in vari locali. Per costringerlo a cedere, il fuorilegge ammazza uno degli orchestrali e lui, scoraggiato, accetta le imposizioni. Un episodio di violenza contro una cantante lo spinge però a ribellarsi di nuovo. Durante una sparatoria, riesce ad avere la meglio sul bandito.
MacGyver: Trail to Doomsday USA, Genere: Poliziesco durata 120′ film per la tv Regia di Charles Correll Con Richard Dean Anderson, Beatie Edney, Peter Egan
MacGyver (Richard Dean Anderson) si trova a Londra, al party di compleanno di un amico a cui una volta ha salvato la vita. Durante la festa, l’amico viene barbaramente ucciso e sua figlia rapita. MacGyver, che non si dà pace per non essere riuscito questa volta a sventare la minaccia, si mette sulle tracce dei killer, aiutato da un fratello miliardario del morto e dalla bella Natalia, ex agente del Kgb. Dopo complicate indagini scopre una pista buona che lo porta alla scoperta di una fabbrica segreta di armi nucleari nel cuore della Gran Bretagna…
Death Note (デスノートDesu Nōto?) è un manga ideato e scritto da Tsugumi Ōba e illustrato da Takeshi Obata. È stato serializzato in Giappone dal 1º dicembre 2003 al 15 maggio 2006 sul settimanale Weekly Shōnen Jump dalla casa editrice Shūeisha e poi raccolto in dodici volumi tankōbon. L’edizione italiana è stata curata da Planet Manga, etichetta della Panini Comics, che ha pubblicato l’opera dal 19 ottobre 2006 al 18 settembre 2008.
La storia si incentra su Light Yagami, uno studente delle scuole superiori che trova un quaderno dai poteri soprannaturali chiamato Death Note, gettato sulla Terra dallo shinigamiRyuk. L’oggetto dona all’utilizzatore il potere di uccidere chiunque semplicemente scrivendo il suo nome sul quaderno mentre ci si figura mentalmente il volto. Light intende usare il Death Note per eliminare tutti i criminali e creare un mondo libero dal male, ma i suoi piani sono contrastati dall’intervento di Elle[N 1], un investigatore privato chiamato a indagare sul caso delle misteriose morti dei criminali.
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