Il dottor Fadigati è uno stimato professionista di Ferrara che riesce a nascondere la sua omosessualità fino a quando l’improvvisa passione per Eraldo lo spinge a vivere apertamente il suo rapporto. Tratto da un romanzo (1958) di Giorgio Bassani, il film di Montaldo non si salva nemmeno a livello di illustrazione decorativa perché è approssimativo nella rievocazione storica e di costume, qua e là volgare, spesso schematico. Cauti elogi agli attori.
Irma ha venticinque anni, vive a Genova ma è napoletana. Vive di lavori occasionali insieme alla sua amica Gina e anche sul piano affettivo le sue storie non durano molto a causa di uomini di scarso valore. Finché non si innamora di un pompiere. Al primo lungometraggio la Negri sa dosare commedia e dramma con un occhio rivolto al cinema ‘alla Nazzari’.
A Roma Maria è un’ansiosa divorziata con negozio di surgelati, la bambina Lisa, suoceri ostili che vorrebbero portargliela via, un amante litigioso e uno strozzino che le dà il tormento. L’autista Antonio, mite sognatore, se ne innamora e la aiuta, ma Maria si limita a volergli bene. Hanno molta strada da fare insieme. 6° film del marchigiano Piccioni, scritto con Umberto Contarello e Linda Ferri, è intessuto di mezzi toni, sfumature, zeppe, sconnessioni, abitato da due spaesati protagonisti segnati dal disagio esistenziale, come estranei al mondo (alla società, alla notturna e livida Roma) in cui vivono: lui, generoso masochista, che si proietta in un astronauta di SF, alieno tra gli alieni; lei che non si vuol bene, rattrappita nei sentimenti. Parzialmente risolto, qui crepuscolare, là impietoso, tradito dall’assillo nel puntare sull’interiorità che non si accorda con la volontà di far tornare i conti. Lo Cascio intenso, la Ceccarelli conferma di essere la rivelazione italiana del primo Duemila. Entrambi premiati a Venezia 2001. Musica: Ludovico Einaudi; fotografia: Arnaldo Catinari.
È uno spettacolo a tre teste, prodotto da 3 società pubbliche (Istituto Luce, Italnoleggio, RAI) e dal Teatro Popolare di Roma: a) una serie TV in 5 episodi di circa 50 minuti l’uno, poi ridotta a 2 tronconi per la durata complessiva di 220 minuti; b) lo spettacolo teatrale Don Chisciotte – Frammenti di un discorso teatrale (Festival dei Due Mondi, Spoleto 1983); c) un film per le sale di 100 minuti. Sceneggiatura dal romanzo di Cervantes: Rafael Azcona, Tullio Kezich, M. Scaparro. Scene: Giantito Burchiellaro, Roberto Francia. Costumi: Lele Luzzati. Musiche: Eugenio Bennato. La chiave dell’impresa è l’utopia del teatro: Don Chisciotte esce da casa, si arma, sale a cavallo, entra in un luogo chiuso, in uno stanzone circolare che è un vecchio teatro abbandonato e in degrado. Tutte le sue avventure avvengono in quel circolo, “prigioniero di un viaggio mentale da cui non può uscire” (E. Comuzio). Come diceva Michel Foucault, la verità in teatro è illusione, anzi follia in senso proprio. E don Chisciotte ne è consapevole. Nel suo esordio nella regia audiovisiva Scaparro sceglie la semplicità: inquadrature fisse, movimenti della cinepresa funzionali all’azione, primi piani dei personaggi che parlano. Se Micol è un protagonista di intensa energia, goffo ma mai ridicolo o cialtrone, Barra interpreta Sancho Panza con risoluta napoletanità senza mai strafare. Notevole il contributo del gruppo catalano Els Comediantes e dei pupi siciliani dei fratelli Pasqualino. Consigliabile l’edizione televisiva se non fosse imboscata in qualche magazzino. Come il film.
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Alessandria d’Egitto. Seconda metà del IV secolo dopo Cristo. La città in cui convivono cristiani, pagani ed ebrei è anche un vivo centro di ricerca scientifica. Vi spicca, per acume e spirito di indagine, la giovane Ipazia, figlia del filosofo e geometra Teone. Ipazia tiene anche una scuola in cui l’allievo Oreste cerca di attirare la sua attenzione. C’è però anche un giovane schiavo, Davus, attratto dalla sua bellezza e dalla sua cultura. Col trascorrere degli anni la tensione tra gli aderenti alle diverse religioni diviene sempre più palese e finisce col divampare vedendo il prevalere dei cristiani i quali godono ormai della compiacenza di Roma (anche se non di quella di Oreste divenuto prefetto). Guidati dal vescovo Cirillo e avvalendosi del braccio armato costituito dai fanatici monaci parabalani, i cristiani riescono ad annullare la presenza delle altre forme di religione e intendono regolare i conti con il pensiero che oggi definiremmo ‘laico’ di Ipazia. Ci sono fasi della storia del cattolicesimo che sono rimaste nell’ombra e sicuramente quella della presa di potere da parte dei cristiani di Alessandria, guidati da un vescovo autoritario e violento salito anche all’onore degli altari, appartiene al versante di cui non è il caso di andare fieri e neppure di cercare alibi in una diversa sensibilità rispetto al passato remoto. Il cinema, quando gliene viene offerta l’opportunità, fa bene a fare luce anche su questi aspetti. Se si prende delle licenze narrative può anche essere giustificato da esigenze di trasposizione. Quella che però non può essere in alcun modo apprezzata è la scelta linguistica adottata in questa occasione da un pur apprezzato regista quale è Alejandro Amenabar. Dinanzi a una tematica così complessa il regista spagnolo sceglie la via del “peplum post litteram” in cui tutto è palesemente finto e si finisce con l’attendere il Maciste di turno che faccia crollare le colonne di gommapiuma del lontano passato di Cinecittà. L’eroina è proprio bella (e muore nuda), i cattivi sono cattivi che più non si può (e sono tutti dalla parte dei cristiani) e non c’è costume a cui manchi il cartellino della tintoria. Se ci si aggiunge qualche lezioncina sull’astronomia del tempo e qualche scontro armato dilatato per fare metraggio si raggiunge la durata giusta per un passaggio televisivo in due parti. Ma ci sono miniserie tv come Empire che hanno meno pretese e una resa perlomeno uguale.
La sbrigliata quattordicenne Megghy convince zia Stefania ad accompagnarla in vacanza sull’isola greca di Ios (o Nio, Cicladi) dove ha deciso di perdere a tutti i costi la verginità. Sull’isola la squinzia punta sul maturo Andrea, ignorando che è il recente ex di Stefania. 5 anni dopo I piccoli maestri , Luchetti torna al grande schermo con una commedia degli equivoci dove lo scavo psicologico dei personaggi e una certa malinconia di fondo dovrebbero sopperire all’impianto minimalista della storia. L’operazione gli riesce soltanto nel personaggio della zia, affidato a S. Montorsi, sua compagna nella vita e cosceneggiatrice con Ivan Cotroneo e il regista stesso. Sul resto è meglio tacere.
Nevrotico e inibito critico cinematografico di San Francisco, divorziato, vede apparire al proprio fianco il fantasma (J. Lacy) del Bogart di Casablanca come una specie di angelo custode e, vincendo la propria timidezza, cerca di imitarlo. Scritto da W. Allen che l’ha tratto da una sua commedia di successo (1969) in 3 atti, replicata sul palcoscenico per 453 volte, è un film brillante, armonioso, un po’ verboso, con personaggi psicologicamente ben definiti, che contribuì alla nascente popolarità di Allen più delle 2 regie precedenti ( Prendi i soldi e scappa e Il dittatore dello stato libero di Bananas ). Il titolo riprende una celebre battuta di Casablanca (1942) in cui Ingrid Bergman, rivolta al pianista nero, dice: “Play it, Sam” (Suonala, Sam). Il personaggio di Allen si chiama Allan Felix nell’originale, ma fu ribattezzato Sam in Italia perché i distributori pensarono che non si capisse l’allusione.
Verso la fine dell’Ottocento, dopo aver completato gli studi universitari in Inghilterra, il giovane avvocato Ringo Rowandt torna negli Stati Uniti dove l’anziano padre esercita l’attività di sceriffo in una cittadina del Far West. Dinanzi ai tanti torti e soprusi che incontra nella nuova realtà decide di reagire combattendo il male su due fronti e con due diverse identità: quello della legge, più lento e dagli esiti non sempre prevedibili, come avvocato, e quello della giustizia, nelle vesti dell’avventuriero Maschera Nera.
Alla ricerca di Sutter Cane (Prochnow), scomparso autore di romanzi di spavento (“che vendono più di Stephen King”), il detective Trent (Neill) lo trova nella cittadina di Hobb’s End, assente dalle carte geografiche. Non sa ancora di vivere nell’universo fantastico di Cane. Costruito con un lungo flashback, il più radicale, pessimista e inventivo film di Carpenter è fondato sulla compenetrazione tra realtà e fantasia e diventa un apologo sulla potenza della scrittura.Apocalittico, ma non privo di ambiguità né di ironia, ricco di invenzioni registiche, scenografiche, sonore (colonna musicale curata, come al solito, dal regista), sapiente nel suggerire l’orrore senza mostrarlo, è una metafora allarmante sull’abominio della società dello spettacolo e una riflessione critica sul genere cui appartiene.
Una buona idea realizzata in maniera inefficace: metà del film è diretta da Pasolini, notoriamente di sinistra, l’altra metà da Guareschi, notoriamente di destra. I due cercano di spiegare la ragione delle varie tensioni sociali
Una leggenda sostiene che esistono alcuni posti con particolarità geologiche che permettono di non morire. Uno studente con velleità di romanziere crede di identificare uno di questi luoghi in una località vicino a Ravenna. Qui trova un prete spretato che è sopravvissuto sì, ma sotto forma di vampiro.
La banda del Formicaio formata dal capo Clyde, e dal poco attento Dum Dum, il versatile Pockets, il triste Snoozy, il catalettico Softy, l’allegrone Yak Yak e il velocissimo Zippy, a bordo della loro incredibile macchina d’epoca anti-proiettile, la stessa usata in Wacky Races qui nominata Chugga-Boom, tentano di proteggere la bella protagonista dai tranelli architettati dal perfido Artiglio Incappucciato (Sylvester Sneekly) che in realtà è il tutore di Penelope e che la vorrebbe eliminare per impossessarsi della sua ricca eredità.
Un altro film su Truman Capote uscito a ruota di quello di Bennett Miller (2005) ma girato l’anno prima. Philip Seymour Hoffman vinse un Oscar col suo Capote; Jones è altrettanto bravo, ma in modo diverso, più sfumato. McGrath – anche sceneggiatore di una biografia di George Plimpton – ne ha fatto un film più corale e la Warner gli ha messo a disposizione un bel gruppetto di interpreti famosi, disposti anche ad accettare parti piccole. Basta vedere quant’è sgargiante l’assolo cantato dalla Paltrow in apertura. Comincia a New York come una commedia frivola e diventa un dramma dolente negli anni di lavoro passati da Capote a scrivere A sangue freddo (1965), non fiction novel sul quadruplice omicidio commesso nel 1959. Corale e più esplicito nell’esporre l’omosessualità dello scrittore e il suo rapporto con Perry Smith (Craig), autore materiale degli omicidi. Corale e policromo: brillante nella descrizione dell’alta società di New York; pastellato per la piccola borghesia di una cittadina del Kansas; cupo, quasi bianconero nella prigione (fotografia: Bruno Delbonnel).
Non si tratta di un film sul jazz, se così fosse sarebbe un fallimento. Sul piano del sesso sarebbe inferiore a Lola Darlin’, sempre diretto da questo piccolo genio. Volendo parlare di un jazzista senza percorrere le strade classiche, il regista cade però in altri tranelli come i personaggi cattivi impersonati da due strozzini ebrei. Bleek Gilliam divide il suo amore tra due donne, Indigo e Clarke. Presuntuoso ed egoista, le perde entrambe e subisce un incidente al labbro che ridimensiona le sue possibilità di suonare la tromba. Dopo essersi pentito avrà un figlio da Indigo che chiamerà Miles in onore del musicista Miles Davis
Pecos Bill è un personaggio immaginario protagonista di numerose storie di genere western ambientate durante l’espansione territoriale verso occidente; si ritiene che le storie vennero inventate da Edward O’Reilly nei primi anni del XX secolo nonostante questi affermasse di averle tratte dalla tradizione orale americana e sono quindi considerate un esempio del cosiddetto fakelore (da “fake”, falso, + folklore), ovvero storie che vengono presentate in modo da essere avvolte da un’aura pseudo-folcloristica che le fa apparire come tradizionali. “Pecos Bill” fu anche il soprannome del generale William Shafter durante la guerra di secessione americana,[1] quindi precedente all’opera di O’Reilly; Shafter era considerato un eroe in Texas e gli venne dedicato qualche componimento poetico ispirato alla sua figura.[2] Il personaggio ha avuto alcune trasposizioni cinematografiche e a fumetti che, soprattutto in Italia, hanno goduto di un duraturo successo.
Secondo la leggenda, Pecos Bill nacque in Texas nel 1830 (o nel 1845 in altre versioni, l’anno di istituzione dello stato del Texas). La sua famiglia decise di trasferirsi perché la città era “troppo affollata”. Pecos Bill da bambino, mentre era in viaggio su un carro coperto, cadde senza che nessuno se ne accorgesse nelle vicinanze del fiume Pecos e venne accolto e cresciuto da un branco di coyote. Anni dopo fu ritrovato da suo fratello, che riuscì a convincerlo che non era un coyote.
Una volta cresciuto divenne un cowboy. Era in grado di usare un serpente a sonagli, Shake, come un lazo e un altro serpente come una piccola frusta; il suo cavallo, Widow-Maker (anche chiamato Lightning), era così chiamato perché nessun altro uomo poteva provare a cavalcarlo senza morire. Si narra che la dinamite fosse il suo cibo preferito ma anche che a volte cavalcava un puma invece di un cavallo. Fra le sue imprese si narra che riuscì una volta a prendere al lazo un tornado e che lottò contro il Bear Lake Monster per diversi giorni fino a quando non lo ebbe finalmente sconfitto. Aveva una fidanzata chiamata Slue-Foot Sue, la quale cavalcò un gigantesco pesce gatto lungo il Rio Grande e che lui incontrò andando a pesca.
Hannah, figlia maggiore di genitori che lavorano nel mondo dello spettacolo e sposa devota, madre amorevole e attrice di successo. Oltre ad essere la spina dorsale emotiva dell’intera famiglia, Hannah rappresenta l’unico vero sostegno per Lee e Holly, sue sorelle senza aspirazioni, quasi risentite di aver maturato per lei un’autentica dipendenza
Fioravante e Murray, nonostante la differenza di età, sono amici per la pelle. Sono in precarie condizioni e Murray propone all’amico di fargli da manager per “il mestiere più vecchio del mondo”, con gli pseudonimi, rispettivamente, di Bongo e Virgil. Le clienti sono molto soddisfatte di lui, in particolare la dottoressa Parker con la sua amica Selima e la vedova Avigal che apre una breccia nel cuore di Fioravante. Scritta, diretta e interpretata da Turturro (alla sua quinta regia), da sempre affascinato dal concetto di prostituzione, non si limita a essere una commedia intelligente e spiritosa. È anche un film sulla solitudine e sulle relazioni (di amicizia e d’amore), un’analisi profonda sull’animo umano, una feroce critica alla comunità ebraica ortodossa, con una galleria di personaggi eterogenei – accomunati dal desiderio di entrare in contatto con gli altri – uno più riuscito dell’altro. E le relazioni mettono in movimento cambiamenti.
All’inizio dell’Ottocento, un’istitutrice assunta per seguire la bimba d’un nobile prova simpatia per il padre della piccina, ma è sconvolta dal grande mistero che aleggia sulla casa. Scoprirà alla fine che la prima moglie dell’uomo, diventata pazza, è nascosta nel castello. Un provvidenziale incendio renderà il nobile vedovo e gli consentirà di sposare la ragazza.
Una bellissima ragazza si sente attratta da un misterioso personaggio che la rifiuta. Si tratta dell’Olandese volante, destinato a vagare nei mari per avere ucciso la moglie innocente fino a quando una donna morirà per lui. La ragazza raggiunge l’uomo il giorno del matrimonio e salpa con lui. Entrambi troveranno la morte, e lui la pace.
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