Un film di Robert Aldrich. Con Bruce Davison, Burt Lancaster, Jorge Luke, Richard Jaeckel, Joaquín Martínez. Titolo originale Ulzana’s Raid. Western, durata 103′ min. – USA 1972. – Universal Pictures MYMONETRO Nessuna pietà per Ulzana valutazione media: 3,32 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un piccolo gruppo di Apaches, guidati dal feroce e indomito Ulzana, fugge da una riserva dell’Arizona e semina cadaveri. Scortato dall’anziano e saggio scout McIntosh e da una guida indiana, un drappello di cavalleggeri, comandati da un giovane tenente, li insegue per giorni. In un periodo di vacche magre per il western, è un toro fiero quello di Aldrich che si ricollega a L’ultimo Apache (1954) in toni più disperati e cruenti, non senza rimandi allusivi al Vietnam nella sceneggiatura di Alan Sharp. Ritmo lento, tra sprazzi di violenza, il senso dei larghi orizzonti tra montagne aride, deserti, sassi e polvere. “Se l’inferno e l’Arizona fossero suoi, (Ulzana) vivrebbe all’inferno e si affitterebbe l’Arizona”. Aldrich si tiene a distanza dalla materia narrativa, equiparando le crudeli “ombre rosse” (i Vietcong?) alla natura selvaggia ed enigmatica e condividendo il punto di vista di McIntosh: “Odiare gli indiani sarebbe come odiare il deserto perché non c’è acqua.” Grande Lancaster.
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Mi sto rifacendo un ciclo wester, tra già visti e nuove scoperte. Questo non lo conoscevo e ringrazio chi me l’ha consigliato. Un indagine profonda e complessa nelle ragioni di tutti. Nei motivi e nell’assurdità della ferocia. Con il pretesto di un confronto tra il giovane tenete profondamente cristiano, un vecchio Lancaster che non comprende se non con la paura e l’esperienza, e il doppio volto dell’indiano nella guida Ke-Ni-Tay e nel capo Ulzana, Aldrich costruisce un gioco di voci che aiutano a capire.
In un mondo estermo, dove i pionieri sono soli in fattorie immerse tra le rocce a distanza di 10 miglia l’uno dall’altro, il capo Ulzana, fuggito dalla riserva indiana di San Carlos, semina il terrore per tornare ad avere “profumi freschi nel naso”, profumi di sangue, pallottole, agguati. Profumi di una vita selvaggia com’era la sua, prima di essere rinchiuso in un recinto.
Un raffinato confronto di strategie di guerra: raggiro, sfiancamento, tracce, simboli, appostamenti… Un gioco all’ultimo sangue dove non è chiaro chi vinca.
Nei primi minuti mi è sembrato di vedere rimandi espliciti a Mash di Altman, girato 2 anni prima.
Alcune scene eplosive, la prima che apre la lotta è tutta interna al fronte bianco, con una donna che chiede aiuto e il protettore che “distrugge il villaggio per salvarlo”, leitmotiv tipico della guerra del Vietnam, ma forse in questo contesto non poteva essere presa decisione più saggia.
La recensione di MYmovies di questo film è positiva: concordo. Tuttavia MYmovies , a mio parere, esprime il suo giudizio utilizzando parametri critici per me discutibili. In questo caso ci si è serviti di presupposti di tipo politico, sociologico e storico, perché probabilmente gli aspetti di questo film si è ritenuto avessero un carattere più “contingente” che perenne. A mio parere, invece, il regista ha voluto esprimere con questo suo film, tutto il suo pessimismo sulla “natura” dell’animo umano, dove la violenza ha un impronta antropologica e filosofica, cioè permanente e universale, senza distinzioni tra buoni (i colonizzatori bianchi) e cattivi (i nativi indiani) o viceversa. Siamo, quindi, più sul versante western crepuscolare (Sam Peckinpah) che su quello classico (John Ford). Ma che su tutte le cose si utilizzino strumenti critici diversi, dovrebbe essere del tutto risaputo e scontato, perché è questa diversità che ci fa crescere e migliorare, non certo la semplice protervia di chi giudica tutto in base ai suoi pregiudizi fondati e motivati sul nulla (e non si tratta ovviamente né del critico di MYmovies né tantomeno di kiokok né di altri in particolare).