Un film di Aki Kaurismäki. Con André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, Blondin Miguel, Elina Salo. Titolo originale Le Havre. Commedia, durata 93 min. – Finlandia, Francia, Germania 2011. – Bim uscita venerdì 25 novembre 2011. MYMONETRO Miracolo a Le Havre valutazione media: 4,01 su 64 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il lustrascarpe Marcel Marx vive a Le Havre tra la casa che divide con la moglie Arletty e la cagnolina Laika, il bar del quartiere e la stazione dei treni, dove esercita di preferenza il proprio lavoro. Il caso lo mette contemporaneamente di fronte a due novità di segno opposto: la scoperta che Arletty è malata gravemente e l’incontro con Idrissa, un ragazzino immigrato dall’Africa, approdato in Francia in un container e sfuggito alla polizia. Con l’aiuto dei vicini di casa – la fornaia, il fruttivendolo, la barista – e la pazienza di un detective sospettoso ma non inflessibile, Marcel si prodiga per aiutare Idrissa a passare la Manica e raggiungere la madre in Inghilterra.
Un cast di attori franco-finlandesi, con le facce e le fogge da polar melvilliano, interagiscono in quel di Le Havre in un quartiere dove ancora “buongiorno vuol davvero dire buongiorno”, per usare – assolutamente non a caso – una frase di Miracolo a Milano, di De Sica e Zavattini. Eppure, la battuta più bella ed emblematica del film è proprio: “restano i miracoli”, dice il dottore, “non nel mio quartiere”, chiosa Arletty. È tutto qui il miracoloso (questo sì) nodo di poesia e disincanto, ottimismo e amarezza di cui è fatto Le Havre , uno dei migliori Kaurismaki in assoluto. Il finale si preoccuperà poi di illuminare il concetto, con uno splendido e improbabile ciliegio in fiore: un altro mondo è possibile o ci vorrebbe davvero un miracolo perché una storia come quella di Idrissa accadesse nella realtà? Entrambe le cose, sembra dire il regista: il cancro che affligge il nostro modo di vivere e di agire è a un livello più che mai avanzato, ma “restano i miracoli”.
D’altronde, il fondatore del Midnight Sun film festival, quando al suo meglio, non ha mai fatto altrimenti che promuovere ossimori – i Leningrad cowboys -, trovare ricchezza nella povertà, (far) reagire con straordinaria nonchalance di fronte all’incongruo (la scena dell’ananas, in questo film, è qualcosa che non si dimentica), mescolare magistralmente anacronismo e attualità. È un sognatore? Eppure il sole di mezzanotte è un fenomeno reale, astronomico, naturale.
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Sarà ma io tutto sto capolavoro non ce lo vedo…Bellissima la regia e la fotografia, meno la sceneggiatura e la storia. Di miracoli non ne ho visti…solo della gran tristezza quotidiana che tale è rimasta.
Quando ho letto il commento di Iper, mi sono detto che, tutto sommato, ha ragione. Questo film può sembrare una semplice favola, che richiama i buoni sentimenti di films di altri tempi, vale a dire per esempio “Miracolo a Milano” di De Sica/Zavattini. Povero nel racconto, semplice negli intenti, vagamente ispirato ad un “socialismo umanitario”, aspramente contestato da quel Karl Marx (a cui il nome del protagonista vorrebbe rendere omaggio), che, in nome della “lotta di classe”, non ha certo inteso ci si possa affidare al semplice “buonismo” delle persone. In più il ritmo troppo lento, un’estetica elementare, fatta di luci, inquadrature e carrellate sempre all’insegna della semplicità e dello specifico tecnico del passato .
Un dubbio però mi rodeva, cioè il fatto che Aki Kaurismäki avesse già girato un grandissimo film come “L’uomo senza passato” ed altre notevoli realizzazioni. In tal senso, mi sono preso la briga di rivedere questo “Miracolo a Le Havre” (meno fuorviante sarebbe stato mantenere il titolo originale di “Le Havre”) e di valutarlo con maggiore attenzione, il risultato è stato: hai sbagliato tutto, questo è un grande film. Raramente mi capita di cambiare così drasticamente un parere, ma questa volta penso proprio che debba essere così.
La “semplicità” di forma e di contenuto di questo film, secondo me, non è un difetto ma un pregio, non dipende dalle carenze di regia ma da una scelta ben precisa: quella di interessarsi soprattutto dei nodi fondamentali che assillano il nostro tempo, da un punto di vista etico, politico (nel suo senso più alto di “polis”), sociale e umano, di una sorprendente lucidità e profondità. Con questo film Kaurismäki sembra dirci che a lui interessano soprattutto le problematiche di questo nostro mondo attuale, così profondamente cambiato da quello dei tempi di Karl Marx. Le “classi” sociali subordinate di un tempo, che cercavano di emanciparsi dal giogo a cui erano sottoposte, sono scomparse per lasciar posto ad una stratificazione sociale più indistinta, fatta essenzialmente di “marginalità”. Ecco allora che Kaurismäki racconta magistralmente di un quartiere di Le Havre, abitato da un microcosmo di persone “escluse” dalla “normale” società, vale a dire di nuovi “bohémien”, di vecchi immigrati (privati persino dalla propria identità) e di nuovi immigrati in cerca di riscatto. In tale microcosmo si crea una solidarietà tipica delle “comunità”, una gara a volte commovente, a volte sorridente, per tentare di aiutare un giovanissimo immigrato di colore. Una solidarietà come difesa di fronte ai mali di sempre: l’infamità della delazione o l’ottusa durezza della repressione poliziesca che sia, anche se Kaurismäki non è mai manicheo, tant’è che persino un commissario di polizia si rivela inopinatamente sensibile alle ragioni degli emarginati, così da “tradire” il suo ruolo. Una solidarietà intesa soprattutto come speranza, ma anche come concreta possibilità di riscatto dall’ingiustizia e dall’oppressione (il “miracolo” finale della guarigione della moglie del protagonista). Una grande “parabola”, insomma, da parte di un grande regista che fotografa impietosamente l’assurdo e il paradosso del nostro tempo (la lettura di Kafka nell’ospedale dove è ricoverata la moglie del protagonista). Una grande “lezione”, inoltre, che Kaurismäki è riuscito ha darci, non disdegnando gli insegnamenti più “rivoluzionari” del cristianesimo (il “sermone della montagna”). Lezione che mi ha ricordato quelle del regista dei “Centochiodi”e del “Il villaggio di cartone”, vale a dire il vecchio e grande Ermanno Olmi, che da “cattolico” (però molto ma molto problematico) dimostra, a mio parere, una straordinaria sintonia con il modo di sentire del grande “laico” Kaurismäki.