Un film di Bong Joon-ho. Con Woo-hee Cheon, Hyeong-kuk Lim, Kyeong-jin Min, Myung-shin Park, Mi-seon Jeon, Hye-ja Kim. Titolo originale Madeo. Drammatico, durata 128 min. – Corea del sud 2009. MYMONETRO Mother valutazione media: 4,17 su 5 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Do-joon (Weon Bin) è un ragazzo con problemi mentali, bizzarro ma apparentemente inoffensivo, che viene accusato del brutale omicidio di una ragazza. La madre (Kim Hye-ja) si rifiuta di accettare questa verità e, dopo aver compreso che polizia e avvocati non vogliono fare niente per sovvertire l’andamento delle cose, si impegna da sola nell’impresa di scoprire il vero colpevole e scagionare così il figlio.
Della stagione aurea del cinema coreano, a cavallo tra gli anni Novanta e gli anni Zero, sembrano essere rimaste le ceneri o poco più. Ragioni produttive, organizzative, ma anche banalmente creative per cui la macchina sembra essersi inceppata. Restano gli autori emersi in quel frangente. Alcuni, come Kim Ki-duk o Park Chan-wook, si sono smarriti (il primo inseguendo estremizzazioni della sua poetica, il secondo vittima di uno sterile autocompiacimento manierista), altri, come Bong Joon-ho, crescono di film in film. Dopo aver riaperto – dall’interno – la ferita ancora sanguinante del regime fascista degli anni ’80 in Memories of Murder ed esorcizzato il rimosso post-bellico con il mostro di Host, Bong alza ulteriormente il tiro e mette in scena una straziante tragedia di gente comune, incentrata sull’interpretazione di un’incredibile Kim Hye-ja. La Madre – il personaggio non ha un nome – un’anti-Medea disposta a tutto pur di salvare il buon nome del figlio, si appropria del film per farci vivere dal suo punto di vista l’amarezza del destino, l’inevitabilità della disgrazia, la disuguaglianza di persone e cose; figura apotropaica che toglie la vita, passando le giornate a tagliare i rami secchi, ma sa anche donarla, attraverso le arti segrete dell’agopuntura. Come e più del solito in Bong il Bene non abita più qui e risulta pressoché impossibile parteggiare o immedesimarsi con uno qualsiasi dei personaggi, caratterizzati da diversi gradi di meschinità e dalla difesa di uno spesso sordido particulare. Do-joon non è migliore di loro (e Bong non fa nulla per farcelo credere), è solo speciale, diverso da loro, quel tanto che basta a renderlo fuoriposto, (con)segnato sin dalla nascita a un destino di simbiosi madre-figlio, nella buona e nella cattiva sorte. Il tentativo di uscire dai binari prefissati, il confronto-collisione con una feritoia nera – che è simbolo grezzamente ovvio ma di forte impatto – su cui la cinepresa insiste con evidenza scatena una reazione a catena di eventi difficile da controllare, anche per la Madre onnipresente e totalizzante a cui nulla sembra sfuggire. Il percorso di consapevolezza dell’anziana protagonista è il percorso di uno spettatore disorientato dalla maestria di Bong nel manovrare gli strumenti della narrazione: il tema edipico è appena sfiorato, il whodunit segue il suo corso (costellato di MacGuffin), mentre si dipana la vera indagine, quella nell’uso atroce del sesso e degli istinti primari che tuttora perdura nel cuore profondo (e selvaggio) della società coreana.
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