Un film di Apichatpong Weerasethakul. Con Banlop Lomnoi, Sakda Kaewbuadee Titolo originale Sud Pralad. Drammatico, durata 118 min. – Francia, Thailandia 2004.
Due amici, di cui uno militare. Un’amicizia che si trasforma in amore gay e che vede poi uno dei due andare a cercare se stesso negli occhi di una tigre nel buio della foresta. Raccontato cosi’ “Sud Pralad” sembra un film criptico ma non se ne deve dire di piu’ per consentire allo spettatore di godere dell’atmosfera che lo penetra come l’aria umida della Thailandia. Film dai tempi dilatati ma al contempo densi perche’ costituiti dalla crescita di un tempo interiore che e’ quello della scoperta del sentimento e del mistero dell’essere piu’ profondo.
Due storie a sfondo ospedaliero: nella prima Tei, giovane dottoressa in un piccolo ospedale di provincia, si ritrova a respingere le timide avances di Toa, perché presa ancora dall’amore per il fioraio Noom. Nella seconda il dottor Nohng, medico praticante appena assunto in un ospedale del centro, inizia il suo primo giorno di lavoro. Il neoassunto vaga per l’ospedale e incontra un vecchio amico nel reparto di fisioterapia, finché la sera non giunge a un appuntamento con la fidanzata. Questo il plot del nuovo film del tailandese Apichatpong Weerasethakul, cineasta apprezzato dalla critica per il precedente Tropical Malady, presentato due anni fa al Festival di Cannes. Dopo la storia d’amore omosessuale dell’ultimo film, il regista sceglie questa volta di indagare la memoria e i personali ricordi d’infanzia con uno stile estremamente privato e autobiografico. Entrambi i genitori di Weerasethakul infatti erano medici, e il regista è cresciuto a stretto contatto con l’ambiente ospedaliero di una cittadina tailandese, osservando con curiosità l’umanità variegata che ogni giorno andava alla ricerca di cure mediche. Lui stesso dichiara: “Sono affascinato dagli spazi delle piccole città e dai panorami che offrono. Ora che la mia città natale sta cambiando così velocemente, diventando sempre più simile a Bangkok, i miei ricordi di questi spazi perduti sembrano ancora più lontani”. È stata dunque l’incalzante globalizzazione a risvegliare nel cineasta un desiderio di semplicità e di nostalgia per una perduta innocenza, una nostalgia del passato che si concretizza nei ricordi – come insegna Wong Kar-Wai – “sempre pieni di lacrime”. Syndromes and a Century è dunque un vecchio ricordo filtrato attraverso il moderno obiettivo di una camera lenta e sommessa, che si muove in punta di piedi (ma per lo più rimane fissa) tra i meandri della memoria. Un film dai toni lievi e rarefatti, i cui episodi appaiono legati tra loro dal filo conduttore dell’ambientazione ospedaliera, “architettura della memoria” per l’autore del film, ma non per lo spettatore. Il risultato finale appare dunque frutto di un’elaborazione troppo personale e frammentaria, una storia di ricordi che non riesce a entrare nel cuore di chi la osserva. Un film intimista che scivola sullo spettatore senza lasciare scossoni o tracce profonde, lasciandogli in eredità, allo scorrere dei fotogrammi, niente di più che immagini poetiche e sensazioni delicate ma labili e fuggevoli.
In un piccolo paesino tailandese un gruppo di soldati viene colpito da una strana malattia del sonno: vengono ricoverati in una scuola elementare abbandonata, adibita ad ospedale. Jenjira Widnes si offre volontaria per prendersi cura dei militari, sviluppando un particolare interesse nei confronti di Itta, un giovane che non riceve mai visite dai parenti. Ma anche la sua vita sta per subire un cambiamento: incontra due fantasmi che le raccontano dell’esistenza di un cimitero di re sepolto sotto la scuola. La giovane comincerà ad avere allucinazioni e sogni molto particolari.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
4° film di un cineasta dal nome impronunciabile – preceduto da un corto: Lettera allo zio Boonmee – che gli amici chiamano Joe. Palma d’oro a Cannes 2010. Condannato da una malattia renale, Boonmee va a morire in un villaggio della Thailandia. Gli appaiono i fantasmi della ex moglie morta e di un figlio, trasformato in un essere scimmiesco dagli occhi di fuoco. Lo attrae su un colle una grande grotta, conosciuta in una vita precedente. C’è una principessa sfigurata, posseduta in uno stagno da un pesce-gatto. Ma chi tra gli spettatori può pensare che il dolente bisonte della misteriosa sequenza iniziale sia una sua reincarnazione? Per entrare nel film occorre una lettura lenta e distesa, capace di riflettere, senza conoscerla, sulla morte e la metempsicosi nella sua cultura buddista in altalena tra fiaba e cronaca, storia e memoria, allucinazione e magia, horror e fantascienza ribaltata, mondi paralleli, realtà e cinema, tenendo conto che, in termini occidentali, è un film a basso costo. Come inserirsi nel tema della trasfigurazione delle anime tra uomini, animali, piante, fantasmi? Bisogna lasciarsi andare. Noi non ci siamo riusciti.
Min, immigrato birmano clandestino, non può curare la sua dermatite in strutture pubbliche nonostante l’intercessione di Orn, la donna tailandese che gli sta procurando i documenti.Con Roong, la sua fidanzata, Min passa la giornata sul greto del fiume che scorre nella giungla bagnandosi e facendo l’amore.Contemporaneamente Orn fa visita a suo marito e gli porta via la moto per raggiungere la giungla con Tommy, impiegato nella fabbrica di cui suo marito è dirigente con cui ha una relazione. Una volta raggiunta la foresta Tommy scompare.
Un hotel situato sulle rive del fiume Mekong che separa la Thailandia dal Laos. Qui il regista Apichatpong aveva cercato di realizzare un film la cui lavorazione si era però interrotta. Ora ci ritorna per raccontare di una madre vampiro, di sua figlia e di due giovani amanti. Nella tradizione del nordest thailandese sono presenti i Pob, dei fantasmi che infettano gli esseri umani trasformandoli in esseri che si nutrono di carne cruda e di sangue. Il regista vincitore di un festival di Cannes affronta questo tema per continuare la sua sperimentazione stilistica che implica una costante interpolazione tra reale e immaginario. Qui a fare da ancoraggio alla realtà sono le inondazioni che avevano colpito la zona prima delle riprese e che hanno visto il governo intervenire con ritardo e, soprattutto, il fiume al quale viene dedicata, non casualmente, la lunghissima inquadratura finale. La rive di fronte è quella del Laos che è divenuto, dopo la guerra civile che lo ha tormentato, un Paese chiuso. Il ponte che prima collegava due popoli e che si vede sullo sfondo ora, per assurdo, li separa e alimenta le reciproche diffidenze. Non resta allora che guardare a distanza quel territorio così vicino, ma al contempo così lontano, per poi rifugiarsi in una storia semplice e misteriosa accompagnata dalla melodia ciclica di un chitarrista. Tutto questo conservando però un rigore stilistico che fa di questo regista un ricercatore non occasionale di nuovi percorsi visivi che non dimentica, al contempo, di sollevare interrogativi sul futuro della propria nazione.
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