Dal romanzo Roger’s Rangers di Kenneth Roberts _ di cui fu filmata soltanto la 1ª parte _ su sceneggiatura di Lawrence Stallings e Talbot Jannings. Da Portsmouth (Virginia), alla fine del ‘700, il maggiore Robert Rogers organizza un corpo di volontari, i Rangers, per una spedizione verso il Nord. Ha due scopi: trovare e distruggere un villaggio di Irochesi, alleati dei Francesi; cercare un passaggio, attraverso la baia di Baffin, tra l’attuale Canada e la Groenlandia. Girato nell’Idaho e nell’Oregon. Fotografia: Sidney Wagner, William V. Skall e 1° film a colori per K. Vidor e S. Tracy. Il paesaggio _ in uno squillante Technicolor _ ha una funzione importante in questo film d’avventure dove si racconta con rara forza la mistica del militarismo e della violenta conquista coloniale: i pellerossa sono presentati come selvaggi da domare o distruggere alla pari degli elementi naturali da superare nella lunga marcia. Il Rogers di Tracy è visto come un leader col carisma, “l’uomo forte”, ma è tutt’altro che esaltato. Prevale il tono epico, specialmente in 2 sequenze: il trasporto delle imbarcazioni attraverso la montagna (ripresa in altri modi da R.S. Sarafian nel 1971 e da W. Herzog nel 1982) e il passaggio del fiume attraverso una catena umana
Per questa biografia cinematografica di Ciaikowskij, Russell ha giocato la carta stilistica del romanticismo esasperato. Ne risulta un’opera pregevole, ma discontinua, in cui a sequenze di rara suggestione se ne accostano altre di difficile sopportazione. Di indiscutibile valore sono le scenografie e l’interpretazione.
Lo sceriffo lotta contro Dick capo di alcuni prepotenti proprietari. Un vicesceriffo, ubriaco perennemente a causa di alcuni dissidi amorosi, e un menomato lo aiutano nella sua quotidiana battaglia. Il fratello di Dick viene arrestato per omicidio. Per ripicca Dick rapisce il vice e chiede lo scambio. Ciò avviene, ma lo sceriffo astutamente sgomina la banda. Il vice, liberatosi dai banditi e dall’alcol, diventa eroe e uomo nuovo. Il film è un capolavoro del suo genere, un western classico centrato sull’eroe buono e coraggioso. La presenza di John Wayne, simbolo di questo cinema, rende questa bellissima opera di Howard Hawks ancora più significativa.
Un giorno Mitsuha, ragazza che vive a Itomori, sogna di essere un ragazzo che vive a Tokyo. Taki, ragazzo di città, a sua volta sogna di essere una ragazza in un paesino tradizionale in montagna. Presto scopriranno che l’esperienza di vivere nel corpo dell’altro è reale. E la ricerca dell’altro da sé, di cui è impossibile ricordare il nome, diverrà un’ossessione.
È raro incontrare un film il cui titolo termini con un punto fermo. Un segno che ha il preciso scopo di rafforzare ciò che viene prima e chiuderne il concetto, prima di passare ad altro. Your Name., ovvero “Il tuo nome”. O, ancora, la ricerca disperata di ciò che più ci aiuta a riconoscere l’altro, e che si traduce anche in un viaggio nella comprensione della propria identità.
Una storia distribuita su differenti piani spazio-temporali e ricca di complesse interconnessioni, che sorprendentemente si è tradotta in un risultato commerciale senza precedenti in Giappone e in Cina. In genere un successo come quello di Your Name. è il frutto di una combinazione di fattori: da un lato il fatto di sapersi prendere qualche rischio, dall’altro quello di rendere il tutto fruibile da parte del maggior numero possibile di persone. Il segreto di questa formula vincente è chiaro fin dai primi minuti del film. Shinkai Makoto gioca su un topos come lo scambio di anime e corpi, nonché di sessi: il cosiddetto body swap. Un espediente antico, quasi consunto, del cinema, la cui origine nella terra del Sol Levante risale addirittura a un testo millenario come il Torikaebaya Monogatari, anche se è soprattutto I Are You, You Am Me di Obayashi Nobuhiko a influenzare il mondo degli anime.
Uno dei più dei film d’animazione che abbia mai visto. Grafica incredibile, storia originale. Non lasciatevelo scappare.
Jerry Mulligan, finita la guerra, è rimasto a Parigi per dipingere. Vive in un localino dove il letto e il tavolino rientrano nel soffitto e nella parete e va a esporre i quadri, che nessuno compra, a Montparnasse. Viene abbordato da una ricca, attempata americana che gli compra un quadro. Ma poi conosce la giovane e graziosa commessa della quale si innamora, senza sapere che la ragazza sta per sposare il suo amico Paul. Un altro personaggio è il musicista-genio (Levant), che suona tutti gli strumenti dell’orchestra. Alla fine tutto va a posto. L’amore trionfa. Sulla base di questa trama quasi banale, “alla musical”, Minnelli regista e Kelly ballerino-cantante-attore-coreografo, costruiscono non solo un capolavoro del cinema, ma un’opera composita che figura benissimo nell’arte del Novecento. Naturalmente è determinante la musica di George Gershwin che compose forse la sua più importante sinfonia, fatta apposta per far brillare le prerogative del cinema. Tutte le canzoni (cantate oltre che da Kelly anche dallo “chansonnier” Paul Guétary, idolo parigino) sono classici indimenticabili. La Metro, nella realizzazione di questi film, era molto rigorosa e generosa, assumeva i più bravi consulenti da ogni parte del mondo. I balletti di Kelly sono studiati in scenografie che si richiamano ai grandi quadri impressionisti (Renoir e Monet soprattutto) e a Toulouse-Lautrec. Il numero centrale viene considerato un capolavoro anche dai grandi coreografi del balletto classico, come Béjard. Naturalmente la tendenza di Minnelli, in quasi tutti i suoi film, era una certa concessione al kitch, che nel musical quasi non andrebbe considerato “caduta”, ma valore aggiunto. Il film è uno dei più premiati nella storia degli Oscar, ben sei. Va detto che il musical è l’unica forma d’arte tutta e solo americana. Molto spesso Hollywood ha attribuito Oscar a film musicali (Gigi, My Fair Lady, Tutti insieme appassionatamente, Oliver!, West Side Story). L’anno dopo lo stesso gruppo produttivo (solo il regista Donen sostituì Minnelli) realizzò Cantando sotto la pioggia che… rimase senza Oscar pur essendo per certi versi più intelligente e con maggiore vedibilità a posteriori. Questa “tardiva” stagione del musical prodotta da Arthur Freed (Sette spose per sette fratelli, Spettacolo di varietà, Baciami Kate! e altri) rappresenta una punta qualitativa altissima del cinema, che poteva contare ancora sulle belle ingenuità indispensabili, sostenute da una tecnica ormai perfezionata.
Film determinante e riformatore: girava la pagina della guerra. Il problema dei reduci era colosssale. I giovani tornavano dal Pacifico e dall’Europa e portavano cambiamenti. Avevano visto cose diverse e rientravano in un paese diverso. Il reinserimento era difficile, per i soldati e per chi era rimasto a casa. Il produttore Samuel Goldwyn, attentissimo ai grandi fatti, e il regista William Wyler, la firma più sicura di Hollywood, affrontarono un tema davvero ricco: i milioni di storie individuali, vere e proprie sceneggiature bell’e pronte, e il grande desiderio di cambiamento che si porta una guerra. Lavorando febbrilmente per non farsi sorpassare dai fatti reali, e prendendo spunto da un libro di Mackinley Kantor non eccelso, la produzione costruì un film che rappresentò quel problema come nessun altro titolo sarebbe mai riuscito a fare. È la storia di un caporale (March), un soldato (Russell) e un ufficiale (Andrews) che tornano nella loro cittadina di provincia. March è accolto dalla moglie (uno dei più begli abbracci del cinema) e dai due figli. Ma tutto sommato il trauma che vive è superabile, è stato soprattutto un problema di lontananza. Il resto è rimasto quasi com’era. Dana Andrews aveva sposato una ragazza appena conosciuta, irrequieta e capricciosa. Al ritorno il matrimonio va subito a rotoli. Ma non era vero amore se lui si innamora della figlia di March. Il terzo reduce era un autentico mutilato di guerra, Harold Russell, che aveva due protesi invece delle mani. Wyler lo aveva visto in un documentario, Diario di un sergente, e aveva intuito le sue qualità di attore. Russell si rivelò talmente bravo da meritare l’Oscar, che all’inizio degli anni Novanta è stato costretto a mettere all’asta per necessità. Il suo personaggio riesce, con grandi sofferenze, a reinserirsi, grazie anche alla buona volontà di tutti, soprattutto della sua fidanzata. Il film commosse il mondo e ottenne ben sette Oscar (fra gli altri al film, al regista, a March e al compositore Friedhofer). Il romanzo di Kantor non prevedeva il lieto fine e Wyler era orientato ad aderire allo storia originale, ma, come spesso accadeva, da Washington arrivò l’invito per il lieto fine: non era davvero il caso di demoralizzare ulteriormente tutti quei giovani già carichi di problemi. Inaspettatamente l’ottimista e spensierata Hollywood si trovava immersa in problemi veri e dolorosi. Il cinema stava per diventare qualcosa di più di una spensierata evasione.
Siamo nel 1922, il cinema allora, oltre ad un’ancor immatura consacrazione, possedeva quel merito di cui gode ciò che per primo riesce ad esplorare, e talvolta superare, gli argini e i limiti della sperimentazione. Il compito più difficile e apprezzato di alcuni registi del periodo, è stato indubbiamente quello di aver rapprersentato visioni e idee prima d’allora presenti solo in letteratura. In un asssurdo antropomorfismo cinematografico, potremmo affermare che in quegli anni la settima arte, attraversava pressappoco il periodo dell’infanzia, fase che, come per l’uomo, segna e caratterizza notevolmente la propria personalità e l’intera vita futura. Allo stesso modo, questo film segnerà e caratterizzerà molte produzioni successive, e non di meno, saprà imprimersi nella mente d’ogni spettatore. Ispirato al romanzo “Dracula” di Bram Stoker, il regista attraversò non pochi problemi legali. Variò infatti nomi, titolo e luoghi, tuttavia fu egualmente costretto a distruggere ogni copia. Per fortuna, clandestinamente Murnau ne conservò una copia, permettendo alla pellicola di sopravvivere fino ai nostri giorni. La storia racconta di Hutter, giovane impiegato immobiliare, inviato presso il conte Orlok, affinchè permetta l’acquisto di una casa da parte di questi. Lungo il viaggio, Hutter, apprende dalla popolazione locale l’esistenza del famoso vampiro Nosferatu.
Raggiunto il suo cliente, già dai primi giorni l’impiegato realizza una terrificante verità: dietro la figura del conte si cela in realtà quella del famigerato vampiro. Fuggito dal castello, Hutter ritorna dala moglie Ellen, turbata durante la sua assenza da continui presagi notturni. La maledizione di Nosferatu tutttavia si abbatte sullo stesso Hutter e sulla popolazione . Il conte, spostatosi anch’esso dal castello, prende possesso della sua nuova dimora, e silenziosamente ogni notte scruta e spia la moglie dell’impiegato, reso ormai debole e malato. Sarà Ellen ,sacrificando se stessa, a salvare il paese dalla pestilenza e dalla presenza malefica del conte Orlok. Di carattere profondamente psicanalitico, la pellicola si discosta da tutte le altre opere di natura espressionista. Simbolica la scelta del regista di rappresentare spazi aperti e luoghi che, seppur vasti, appaiono comunque immersi in un’atmosfera cupa e visionaria. Peculiare scelta di Murnau, è l’utilizzo di effetti speciali, ombrosi e spettrali sensazionalismi che riescono ad aumentare la dimensione occulta della pellicola. Celebri alcune scene, come l’immagine spettrale della foresta “in negativo” attraversata dal giovane Hutter, o il movimento della carrozza che procede a balzi. Il film, complesso ed elaborato, è ricco di simboli e metafore, diverse inoltre possono essere le diverse interpretazioni e chiavi di lettura. Indubbiamente, la pellicola rappresenta una profonda immersione nel mondo dell’occultismo, trascendendo e spaziando su figure, immagini e temi che rappresentano l’uomo e la sua esistenza. Sequenze e fotografie anacronistiche, forse a qualcuno potranno risultare attempate e ridicolmente minimaliste, ma meritano osservazione e acuta analisi.Sinteticamente una sola parola: Storia.
Torna l’Olocausto, e per mano di un “autore”. Pareva che Spielberg avesse detto l’ultima parola, invece ecco una storia sul ghetto di Varsavia. Siamo nel ’38.Comincia a stringersi la tenaglia nazista che produrrà le prime limitazioni per gli Ebrei: prima leggere -la stella di Davide cucita sul braccio- poi pesanti, poi intollerabili, poi mortali. Fino alla decimazione. Wladyslaw, giovane, talentoso pianista, sta suonando Chopin per una registrazione radiofonica proprio mentre arriva la notizia dell’invasione nazista della Polonia. Il giovane assiste all’orribile spirale: tutta la famiglia deportata e poi le condizioni del ghetto: bambini che muoiono di fame, gente uccisa per nulla, e una piccola parte di ebrei che tradiscono per sopravvivere. Alla fine Wladyslaw è di nuovo al piano, proprio come all’inizio. Ma naturalmente l’esperienza lo ha devastato. Niente, neppure Chopin sarà più come prima. Il film ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes 2002. Molti hanno disapprovato.
C’era stato un tempo in cui il western era uno dei generi più popolari di Hollywood. Che si trattasse di Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco o Burt Lancaster e Kirk Douglas in Sfida all’OK Corral o Clint Eastwood nella trilogia di Sergio Leone, il vecchio West era un modo sicuro per stare in testa al box office fino agli anni ’70 quando scomparve repentinamente quasi del tutto. Ma Kevin Costner nel 1990 riaprì al meglio la stagione del western e nel giro di tre anni ben due film del genere (per l’appunto Balla coi lupi e “Gli spietati”) riuscirono ad aggiudicarsi l’ambita statuetta di miglior film agli Oscar. E per la prima volta Hollywood “premiò gli Indiani” (e lo fece nella persona di Costner, un diretto discendente della tribù Cherokee) anche se non era certo il primo western della parte dei nativi americani. La pellicola si guadagna un indiscusso posto d’onore nella storia del cinema, non sfigurando di fronte ad un inevitabile confronto con i maestri di sempre. Ed è certo il solo film di questi ultimi vent’anni ad affrontare il mito del West, oggetto di tanto revisionismo annunciato, con una passione e un realismo che vanno in direzione della leggenda anziché della demistificazione. Diretto e coprodotto oltre che interpretato dallo stesso Kevin Costner è un debutto impressionante. Ne sono state più volte sottolineate le debolezze che sfiorano il manicheismo e il culto dello spettacolo, non considerando invece come riesca a coniugare i canoni propri del genere a vantaggio di una narrazione epica che conferisce un raro stato di grazia e di sentito a questo racconto elegiaco interessato più che alla fedeltà storica a una verità morale e antropologica. Ma gli intenti di Costner non rifuggono spesso dall’utopia. Balla coi lupi ha la forza e i difetti della sua semplicità e della sua programmatica generosità, conservando una qualità indiscutibilmente emozionante: quella di contribuire a trasmettere l’invito a conoscere l’altro prima di decidere di combatterlo o sterminarlo.
Il cavaliere Antonius Block sta facendo ritorno al proprio castello con il suo scudiero dopo aver partecipato alla Crociata in Terra Santa. L’incontro con un personaggio dal mantello nero determinerà il resto del viaggio. Si tratta della Morte che accetta una sfida a scacchi rinviando quindi il suo compito. La partita ha inizio ma poi il viaggio riprende. Sul percorso Block incontrerà una coppia di attori con il loro bambino, una strega e altri personaggi. La peste intanto sta mietendo vittime ovunque. “E quando l’agnello aperse il settimo sigillo, si fe’ nel cielo un profondo silenzio di mezz’ora. E vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio, e furono date loro sette trombe poi un altro angelo si fermò davanti all’altare con un turibolo e gli fu data gran quantità d’incenso. E allora il primo angelo die’ fiato alla tromba, e ne venne grandine e fuoco misto a sangue e così furono gettati sopra la terra, e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi fu arsa, e fu arsa l’erba verdeggiante. E quind8i il secondo angelo die’ fiato alla tromba e una specie di grande montagna di fuoco ardente fu gettata in fondo al mare, e la terza parte del mare diventò sangue… E anche il terzo angelo die’ fiato alla sua tromba. E dall’alto del cielo cadde una stella grande, ardente come fiaccola. La stella si chiamava Assenzio…” Con queste parole vengono tradotti i versetti 1-11 del capitolo 8 dell’Apocalisse di San Giovanni nella versione italiana del film. È da qui che deriva il titolo che Bergman dà a uno dei film più noti in assoluto della sua filmografia. Perché moltissimi, prima o poi, hanno finito con il vedere la scena in cui il cavaliere Block gioca a scacchi con la morte ma anche molti non hanno mai visto il film per intero. Non hanno potuto quindi valutarne la complessità che non è riducibile a una sola, seppur emblematica, scena. Perché il regista svedese, figlio di un pastore protestante, si interroga a livello altissimo sul silenzio di Dio e su ciò che sarà dell’uomo dopo la sua dipartita da questo mondo ma lo fa attraverso una varietà di registri diversi. Mette a confronto le due letture dell’esistenza (cavaliere e scudiero) offrendo all’uno e all’altro argomentazioni ma amplia lo sguardo anche su altre tematiche. L’artista che così bene ha saputo descrivere le tensioni della coppia contemporanea ce ne presenta una per cui vale la pena anche perdere la partita con la Morte pur di garantirle una via di fuga. Il regista teatrale riflette sul potere che la rappresentazione (anche dell’ultimo passaggio della vita) ha avuto in campo artistico. L’uomo ‘politico’ mostra la devastazione della peste ma pensa ad altre più recenti ed immani tragedie. In definitiva Il settimo sigillo si rivela, ad ogni rilettura, un testo decisamente poliedrico.
Il film è una fedele riproposizione del Vangelo secondo Matteo dal momento dell’Annunciazione alla Resurrezione di Gesù. Le tappe della vita di Gesù Cristo sono ripercorse senza variazioni nella storia, né cambiamenti anche testuali rispetto alla versione di san Matteo. Il Vangelo di Pasolini non intendeva mettere in discussione dogmatismi o miti, quanto far emergere l’idea della morte, uno dei temi fondamentali della sua poetica. Come negli altri film il regista si affida a un linguaggio sonoro ricercato per didascalizzare alcune delle vicende più significative del film. Ecco dunque la Passione secondo Matteo di Bach e soprattutto La musica funebre massonica di Mozart – che accompagna tutta la passione di Gesù – a suggellare la propria immagine della morte: un evento necessario, per niente eroico e soprattutto ineluttabile.
Il Vangelo, come quello di Matteo, disegna una figura di Cristo più umana che divina, un uomo con moltissimi tratti di dolcezza e mitezza, che però reagisce con rabbia all’ipocrisia e alla falsità. Si tratta di un Cristo motivato dalla volontà di redenzione per coloro che subiscono le conseguenze della istituzionalizzazione della religione operata dai farisei che ne hanno fatto uno strumento di dominio politico e sociale. È un Cristo rivoluzionario che è venuto a portare la spada piuttosto che la pace. Il film fu apprezzato dai cattolici: l’ Osservatore romano scrisse che si trattava di un film “fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo”. La critica di sinistra rispose freddamente: l’Unità si espresse in questi termini: “…il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”.
All’inizio del Novecento avventuriero e prostituta gestiscono con profitto una casa di tolleranza per minatori. Una compagnia mineraria gli fa un’offerta, lui uccide i sicari inviati per eliminarlo, ma muore. Western revisionista, tratto da un romanzo di Edmund Naughton, in bilico tra storia e mito, tradizione e innovazione sullo sfondo di un inverno innevato, magnificamente fotografato da V. Zsigmond. Belle canzoni di Leonard Cohen. R. Altman, racconta un West più concreto e miserabile di quanto era mai apparso, privo dell’alone romantico o umanistico dei classici.
Il film era tratto dal romanzo Il falcone maltese di Dashiell Hammett, grande giallista che aveva indicato una nuova via al genere. Speede è chiamato a indagare su di una statuetta a forma di falcone, che si porta dietro una maledizione secolare. Tutti la vorrebbero: un avventuriero maldestro (Lorre), un grassone pieno di soldi (Greenstreet), una donna che racconta malissimo le bugie (Astor). Il detective indaga alla sua maniera. È cinico, pochissimo eroico, non tratta le donne con il dovuto rispetto. Solo alla resa dei conti si dimostra onesto e persino un po’ romantico. Un personaggio del tutto simile a un altro grande detective: il Philiph Marlowe inventato da Raymond Chandler, scrittore per molti versi omologo di Hammett. Personaggi tanto simili, i due detective, da essere entrambi resi immortali dallo stesso Bogart. Straordinario era il gruppo di caratteristi della Warner, che si sarebbero ritrovati insieme in altri memorabili film. E intensa era la dark Lady Mary Astor, l’assassina col volto angelico, creatrice di un precedente che sarebbe tornato e ritornato. Una delle grandi sequenze del cinema “nero” è Bogart che alla fine del film esamina il falcone, per il quale tanti sono morti, banale e niente affatto prezioso, costruito “col materiale di cui son fatti i sogni…”.
La fiamma del peccato, con la sua cupa ambientazione urbana, è sicuramente uno dei film più rappresentativi del cinema noir. Sceneggiato da Raymond Chandler e tratto da un racconto di James Cain, il primo noir americano di Wilder si caratterizza per la predilezione per gli interni, per i netti contrasti tra ombra e luce, per la ricostruzione in studio degli esterni e per l’intensa caratterizzazione dei personaggi, a cominciare dalla perfida ‘dark lady’ Barbara Stanwyck con sensuale catenella alla caviglia, divenuta in breve oggetto di culto. L’assicuratore Walter Neff (Fred MacMurray) conosce Phyllis Dietrichson (Barbara Stanwyck), moglie di un cliente, la cui sensualità lo affascinerà a tal punto da farlo diventare prima il suo amante e poi complice nell’assassinio di suo marito. Dopo aver stipulato un’assicurazione sulla sua vita, i due mettono a punto un piano per ricevere il doppio dell’indennizzo (da qui il titolo originale, Double Indemnity) in caso di morte avvenuta in circostanze rare. Per ottenere la somma decidono prima di assassinare l’uomo in macchina, e di gettarlo in seguito sui binari, facendo così credere che la sua morte sia dovuta ad una caduta dal treno. Ma il piano troverà un ostacolo insormontabile: Walter verrà infatti smascherato dal suo grande amico e collega Barton Keyes (Edward G. Robinson)… Ambientato a Los Angeles, strutturato a flashback come il successivo Viale del tramonto, sempre di Wilder, quasi tutto il film si svolge di notte, con dialoghi scarni ed asciutti, che contribuiscono a incalzare il ritmo serrato della vicenda fino alla tragica conclusione.
Toma Alistar, un orfano dotato di un grande talento musicale, dimostra subito di essere un eccellente suonatore di violino. Si innamora di una giovane zingara e, malgrado gli enormi successi in campo musicale che lo obbligano a spostarsi continuamente dal suo paese natio, il suo pensiero fisso resta il suo primo amore. La cerca ovunque, la ritrova ormai sposata ad un ricco tzigano, la riperde e muore senza riuscire più a rincontrarla. Lo farà per lui un altro Toma che troverà la donna ormai anziana.
In volo verso Shangai per sfuggire ad una rivoluzione, un aereo inverte la rotta e mentre sorvola il Tibet precipita tra le nevi dell’Himalaya. A bordo, insieme a Robert Conway (Ronald Colman), affermato scrittore e diplomatico inglese, e a suo fratello George, ci sono un truffatore ricercato dalla polizia, un timido paleontologo e una ragazza disillusa, minata dalla tubercolosi. Il gruppo viene soccorso dal monaco tibetano Chang e condotto attraverso una lunga marcia per il più impervio dei sentieri, nella misteriosa valle di Shangri-la, resa fertile e rigogliosa da un clima straordinariamente mite. In questo incredibile paradiso terrestre, la gente vive a lungo, serena nel lavoro e nelle gioie della famiglia, senza conoscere rimpianto, odio o gelosia e senza bisogno di leggi. Conway intuisce di esservi stato portato deliberatamente ma ne ignora i motivi, finché il Grande Lama – lo stesso uomo che più di 200 anni prima scoprì la valle e ne educò gli indigeni -, ormai morente, non gli rivela di averlo prescelto come suo successore. Orizzonte perduto è spesso considerato un film enfatico, lento (non dimentichiamo, tuttavia, le concitate scene iniziali della fuga all’aeroporto, l’arrivo dell’aereo in un villaggio di guerriglieri, e il frenetico montaggio che riassume lo sconcerto del mondo per la scomparsa del diplomatico) e talora lezioso, estraneo alla vena poetica di Frank Capra. Gran parte delle riserve avanzate sul film poggiano sul paragone con le più spontanee e drammaticamente articolate commedie “rooseveltiane” incentrate sul dualismo tra umili e potenti (E’ arrivata la felicità, Mr. Smith va a Washington, Arriva John Doe, La vita è meravigliosa) alle quali è soprattutto legata la fama del grande regista. Privo di un vero protagonista nel quale lo spettatore medio possa riconoscersi ed identificarsi, il racconto si risolverebbe in un pregevole spettacolo per gli occhi ma non regalerebbe emozioni capaci di far volare la fantasia. Nata alla vigilia della seconda guerra mondiale, l’opera trova il vero significato nella sincera ispirazione – qualità che la fa durare e apprezzare nel tempo – che riversa nella descrizione della società utopistica, dove l’innocenza e la pace sono riconquistate, un monito contro ogni rigurgito nazionalistico ed ogni tentazione all’irrazionale. Sotto il profilo dei contenuti, Orizzonte perduto è necessariamente un affresco corale che deve sacrificare i personaggi e meccanismi dell’avventura (tematicamente il film è una rilettura del filone sulle civiltà superiori scomparse o nascoste al mondo caotico ed egoista) per parlare al cuore della gente.Candidato a 7 premi Oscar, il film ne ottenne due: il primo per la direzione artistica di Stephen Goosson e il secondo per il montaggio di Gene Havlick e Gene Milford. L’attore H.B. Warner (Chang) fu segnalato come migliore interprete non protagonista, ma il ritratto più memorabile è quello di Sam Jaffe nella breve e suggestiva apparizione del Grande Lama (“Padre Perrault” nell’edizione italiana). Stando agli aneddoti che si tramandano sul film, Frank Capra scoprì il romanzo di Hilton durante una sosta alla Union Station di Los Angeles e riuscì ad acquistarne i diritti per la riduzione cinematografica anticipando il regista King Vidor. Il set utilizzato per la sequenza dell’aereo immerso nella neve fu ricavato da un magazzino per merci surgelate, mantenuto a bassa temperatura così da ottenere una più realistica recitazione da parte degli attori. Nell’anteprima proiettata in una sala di Santa Barbara, il film iniziava con Ronald Colman che, recuperata la memoria, introduceva il racconto dello straordinario viaggio a Shangri-la.
Dal dramma (1598-99) di W. Shakespeare: nel 1603 al Globe Theater di Londra si mette in scena Henry V , dramma storico in cui si rievocano le gesta del re che nel 1415, durante la guerra dei Cent’anni, sconfisse l’esercito francese, numericamente superiore, nella battaglia di Azincourt. Splendido esordio nella regia di Olivier in quello che, secondo molti, è il suo miglior film scespiriano e una grande tappa nell’uso del colore nel cinema (fotografia di Robert Krasker) di grande suggestione nel passaggio dalla finzione teatrale alla spazialità solenne degli esterni in Francia, con sapienti agganci alla tradizione pittorica, da Paolo Uccello alle miniature dei Livres d’Heures. Si può leggere a 3 livelli: rievocazione di uno spettacolo al Globe; rappresentazione del modo con cui i contemporanei di Shakespeare immaginavano la campagna di Enrico V in Francia; opera di allusiva propaganda ideologica sulla 2ª guerra mondiale. Trionfo di colore, musica, grande spettacolo, poesia eroica, costumi, scenografie. 1 Oscar speciale per Olivier e 4 nomination tra cui quella per le musiche a William Walton che collaborò anche per Amleto e Riccardo III .
Fuori dal tempo, su un’isola deserta, un naufrago cerca la salvezza. Poi dall’oceano arriva una imponente e misteriosa tartaruga. Con le sorprendenti e struggenti musiche di Laurent Perez del Mar e senza dialoghi, una riflessione sull’uomo, sul suo essere incompleto a vivere solo, sul suo legame fortissimo con la natura, sulla vita e sulla morte. Prima co-produzione internazionale dello Studio Ghibli, è una favola metaforica nel descrivere le tappe della natura umana, potente nel suo minimalismo, ipnotizzante nel suo disegno, animato a mano con acquerello e carboncino.
Un film di Théo Angelopulos. Con Vanghelis Kazan, Eva Kotamanidu, Aliki Gheorguli Titolo originale O thiasos. Drammatico, durata 235′ min. – Grecia 1975. MYMONETRO La recita valutazione media: 4,42 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Una compagnia di attori (all’interno della quale si sviluppa una serie di rapporti ispirati al mito degli Atridi) porta, di paese in paese, il dramma ottocentesco Golfo della pastorella di Spiridonos Peresiadis. 3° film di Anghelopulos, è una grande saga epica _ nei contenuti ma soprattutto nel linguaggio, secondo l’accezione brechtiana _ che traccia una sintesi della storia greca dal 1939 al 1952.
Nell’Oregon dei fratelli tagliaboschi giovani e prestanti hanno difficoltà a trovar moglie. Per risolvere la situazione compiono una specie di moderno ratto delle Sabine. Canzoni di Johnny Mercer e Gene de Paul. Oscar per la direzione musicale di A. Deutsch e S. Chaplin. Uno dei vertici della musical comedy con targa M-G-M e raro caso di musical che non deriva dal palcoscenico e che, anzi, diede origine a una versione teatrale, portata in giro per mezzo mondo. Ammirevole fusione di canto e danza, eleganza, ritmo, scatto. Un appropriato uso del Cinemascope per le ariose coreografie in esterni di Michael Kidd.
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