Al matrimonio di Laura, quattro persone hanno l’occasione di conoscersi. Da quel momento le loro vite si intrecciano in modo vario e inestricabile. Il personaggio fondamentale è Gerald, fratello di Laura, che vede la sorella morire tragicamente e cerca di vivere una forma d’amore anticonvenzionale. Una personale ed efficace rivisitazione del celebre libro di D.H. Lawrence.
Cronaca angosciosa e lucida delle ultime trentasei ore di un uomo che deve morire. Deve perché l’ha deciso lui, Alain Leroy, convinto che il suicidio sia l’ultimo, e l’unico, atto che gli resti da compiere. Rigorosa parafrasi di un romanzo (1931) di P. Drieu La Rochelle, postdatato di trent’anni con qualche sfasatura, è uno dei migliori e più personali film di Malle e, in assoluto, il migliore di Ronet in un formidabile monologo
Segue A personal journey with Martin Scorsese through American movies, questo film-racconto sul cinema italiano. Ma se quello era un lavoro che ritraeva in maniera piuttosto documentaristica il cinema americano preferito dal regista di Taxi driver, Il mio viaggio in Italia è il racconto della sua vita, della sua infanzia. Attraverso il cinema italiano classico, infatti, Scorsese ha imparato a conoscere le sue origini italiane quando era ragazzino a New York. Il film dura più di quattro ore, ma si tratta di un tempo che scivola via come acqua leggera, ed è composto da tutta una serie di celebri spezzoni di grandi film italiani (di Rossellini, di De Sica, di Visconti) splendidamente (ed emotivamente) uniti dal cuore di Scorsese, dal suo amore per il cinema e per la vita. Le immagini sembrano tratte dagli occhi di uno spettatore qualunque, che rivive le sensazioni generate dalla visione di un film. Con innocenza e voglia di comunicare: ed infatti la sua voce fuori campo è come quella di un bambino pieno d’entusiasmo, di capacità di stupirsi, di voglia di conoscere e conoscersi. Nulla di accademico, dunque: anzi, Il mio viaggio in Italia sembra una specie di mappa per accostarsi al grande cuore del cinema. Per imparare a vederlo in profondità, non nozionisticamente.
In un’agiata casa borghese di Bobbio (PC) una madre cieca vive di ricordi con 4 figli, uno dei quali, epilettico ed esaltato, la elimina e uccide anche un fratello deficiente. Colpito da una crisi mentre ascolta La Traviata di Verdi, è lasciato morire dalla sorella Giulia. Dopo Ossessione di Visconti non c’era mai stato nel cinema italiano un esordio così clamoroso e autorevole. Non c’è più stato nemmeno nei 20 anni seguenti. Bellocchio sfida il grottesco senza cadervi. Duro, crudele, angoscioso.
Nel Medioevo lo spiantato cavaliere Brancaleone da Norcia si mette alla testa di un gruppo di scalcinati senza famiglia e parte alla conquista del feudo di Aurocastro. Il film dilata i confini della commedia all’italiana con un’operazione culturale originale che comprende Kurosawa e Calvino, una rilettura della storia in chiave nazional-popolare, l’invenzione (di Age & Scarpelli) di una parlata mista di latino medievale e italiano prevolgare, il gusto anarchico di una scampagnata becera e i temi tipicamente monicelliani del gruppo dei piccoli perdenti e del senso della morte. 3° incasso nella stagione 1966-67, 3 Nastri d’argento (Gherardi per i costumi, Di Palma per la fotografia, Rustichelli per la musica) e un titolo passato in proverbio.
Agnes è ormai prossima a morire. In casa, ad assisterla, ci sono le due sorelle Karin e Maria oltre alla domestica Anna. Ognuna di loro ha delle memorie che riaffiorano progressivamente e riportano in superficie dei ricordi non piacevoli. Agnes pensa alla madre morta con la quale aveva un rapporto non facile. Maria non ha ancora del tutto spenta la passione adulterina per il medico di famiglia mentre Karin ripensa alla freddezza del rapporto con il marito. Anna ogni mattino prega per la figlia morta bambina. La scomparsa di Agnes inciderà sulla vita di tutte. Realizzato nonostante notevoli difficoltà produttive (il regista dovette impegnare quasi tutti i suoi averi e chiedere agli interpreti principali di coprodurre il film) Sussurri e grida è, senza ombra di dubbio, uno dei capolavori bergmaniani.
Un film di Robert Bresson. Con François Leterrier, Charles Lelaclanche, Maurice Beerblock, Roland Monod, Jacques Ertaud, Jean Paul Delhumeau, Roger Treherne, Jean Philippe Delamarre, César Gattegno, Jacques Oerlemans, Klaus Detlef Grevenhorst, Leonhard Schmidt Titolo originale Un condamné à mort s’est échappé. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 95′ min. – Francia 1956. MYMONETRO Un condannato a morte è fuggito valutazione media: 4,33 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Dal racconto di André Devigny: nel 1943 un componente della Resistenza, rinchiuso nel forte di Montluc di Lione, riesce a evadere con un giovane prigioniero comune. “Un’opera insolita che non assomiglia a nessun’altra” (A. Bazin). “Il film è un mistero. Il vento soffia dove vuole” (R. Bresson). Se il vento soffia dove vuole, pascalianamente hanno valore pensiero e volontà, coincidenti con una coscienza morale, con un’azione che è l’espressione di un rigore e di una libertà interiori, non piegati alle varie oppressioni del carcere terreno. Per il protagonista la fuga da un carcere nazista si fa lotta, intima e pratica, contro le proprie debolezze, scontro fisico e rarefatto con la durezza delle cose. Film calvinista con attori non professionisti e la Messa in do di Mozart nella colonna musicale. Premio della giuria a Cannes. Altro titolo originale: Le vent souffle où il veut
Stevens (Hopkins) è stato per trent’anni il maggiordomo di Lord Darlington (Fox), gentiluomo formale e ingenuo e molto influente, che prima della guerra stava dalla parte dei nazisti. Quando Darlington muore la tenuta viene acquistata da certo Lewis (Reeve), americano pragmatico, …ma con un suo stile. Stevens si mette così in viaggio per riassumere l’antica governante Sara Kenton (Thompson), che se n’era andata vent’anni prima, per (infelicemente) sposarsi. La ritrova, ma le cose rimangono come sono. Nel frattempo Stevens è stato maggiordomo impeccabile, mancando persino di assistere il padre morente per non compromettere il perfetto servizio di una cena, e ignorando tutto il resto della vita, sentimenti compresi, incapace di giudicare gli errori enormi del suo padrone che, come tale, era sempre dalla parte del giusto. Il maggiordomo sembra vacillare solo quando la governante gli dichiara il suo amore, anche se subito torna formale e non riesce a liberarsi dei lacci. Tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro, il film è indubbiamente seducente. Ambiente, interpretazione, storia, dialogo, tutto perfetto. Del resto il nostro tempo sembra fatto apposta per farsi incantare dall’eleganza, dall’onore, dal senso del dovere, dalla limpidezza dei sentimenti, dalla forma quando aderisce alla sostanza. Efficaci anche le istantanee storiche che mostrano una società inglese snob, distaccata e ingenua e “politicamente dilettante”, capace di credere a un ministro tedesco che definisce Hitler un “uomo di pace”.
L’impiegatuccio di una grande compagnia d’assicurazioni fa carriera prestando il suo appartamento da scapolo ai dirigenti per le loro avventure galanti. Ma un giorno s’innamora dell’amante del capintesta. Ritrova la sua fierezza, guadagnandosi l’amore della ragazza (ma perdendo l’impiego).La cosa migliore di Wilder, negli ultimi vent’anni, una commedia dolce-amara sulla vita di città, sui compromessi dell’americano medio, sulle arrampicate aziendali al di fuori della meritocrazia. Forse un po’ lungo (oltre due ore) e certamente schematico in certi conflitti, è però meravigliosamente condotto da un cineasta capace come pochi di alternare cinismo a moralismo. Splendido il duetto Lemmon-McLaine (che ricompariranno insieme, ma in minore stato di grazia).
Un film di Kenji Mizoguchi. Con Machiko Kyô, Masayuki Mori, Tanaka Kinuyo, Sakae Ozawa, Mito Mitsuko Titolo originale Ugetsu monogatari. Drammatico, b/n durata 93′ min. – Giappone 1953. MYMONETRO I racconti della luna pallida d’agosto valutazione media: 4,38 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nella regione di Omi, presso il lago Biwa, verso la fine del sec. XVI nel Giappone devastato dalla guerra civile, Genjuro, vasaio di campagna, e il fratello Tobei, che sogna di diventare samurai, abbandonano le mogli in cerca di fortuna.Le loro ambizioni di guadagno e di gloria provocano lutti e rovine nelle loro famiglie. Liberamente tratto da due racconti fantastici di Akinaru Ueda _ L’albergo di Asaji e La lubricità del serpente nella raccolta Ugetsu Monogatari (1776) _ sceneggiati da Matsutarô Kawaguchi e Yoshikata Yodo. Fotografia di Kazuo Miyagawa. Tra gli 86 film di Mizoguchi _ 47 muti, quasi tutti perduti _ è unico sia per il peso che vi ha la dimensione fantastica nella storia di Genjuro sia per la rapida concisione con cui espone i destini mescolati o paralleli di quattro personaggi. Anche in quest’altra dolente elegia sulla condizione femminile il suo è un cinema di immaginazione simpatetica, non di identificazione. 1 dei 4 Leoni d’argento a Venezia 1953, quando non fu assegnato il Leone d’oro.
In un castello, uomini e donne si danno a giochi erotici. Fra questi c’è un aviatore che si è innamorato della moglie di un aristocratico. Lui vorrebbe avere con la donna un rapporto serio e sincero, ma la “règle du jeu”, la regola del gioco, tollera la relazione sessuale, non l’amore vero. Quando l’aviatore viene ucciso per sbaglio da un guardiacaccia, tutto rientra nella normalità. Amaro apologo, che preannunciava la rovina dell’Europa.
Ventisei anni dopo la prodigiosa nascita di un bimbo in una mangiatoia di Betlemme, la Giudea è una delle province ribelli dell’impero romano. A prendere il comando militare della guarnigione di Gerusalemme è il tribuno Messala, caro amico d’infanzia di uno dei più nobili principi giudei, Judah Ben-Hur. Ma l’entusiasmo iniziale per l’amicizia ritrovata si converte ben presto in conflitto quando Ben-Hur rifiuta di tradire il suo popolo in nome di Roma. Un incidente avvenuto durante la cerimonia d’ingresso alla città del governatore è l’occasione di Messala per dimostrare la propria fermezza agli occhi del popolo in rivolta e a quelli del potere imperiale: pur conoscendone l’innocenza, il tribuno fa arrestare l’amico assieme alla madre e alla sorella. Mentre viene trascinato via per essere condotto alle galee dove servirà come schiavo, Ben-Hur promette vendetta.
Disavventure di un emigrato italiano in Svizzera: l’uomo, benché lavori, perde il permesso di soggiorno; un compatriota lo assume ma poco dopo, entrata in crisi l’azienda e persa la moglie, si suicida. Il protagonista, dopo essersi abbassato a un lavoro umiliante, decide di farsi passare per svizzero ma si fa scoprire e cacciare. Sul treno che lo riporta in Italia ha un ripensamento e torna indietro, deciso a non arrendersi.
La regina di Svezia, Cristina, ha molti pretendenti che vorrebbero sposarla per ragioni di Stato. Ma l’incontro con un diplomatico spagnolo, avvenuto casualmente, è fatale per entrambi. Cristina abdica per poter vivere la sua storia d’amore, ma uno dei suoi cortigiani sfida a duello lo spagnolo e lo uccide. Sola, senza trono e senza amore, Cristina comincia i suoi vagabondaggi per l’Europa.
Un film di Robert Bresson. Con Anne Wiazemsky, Walter Green, François Lafarge, Jean-Claude GuilbertDrammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 90′ min. – Francia, Svezia 1966. MYMONETRO Au hasard Balthazar valutazione media: 4,32 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Vita, patimenti e morte dell’asino Balthazar, vittima della malvagità umana nella campagna francese, in parallelo con l’esistenza, altrettanto infelice, di Maria, sua prima padroncina. Una delle vette del cinema e della visione pessimistica del mondo e dell’umanità di Bresson, che ha come punti di riferimento letterario Bernanos e Dostoevskij: è un mondo senza la Grazia osservato dall’occhio obiettivo di un asino; una riflessione cristiana (giansenista?) sull’esistenza del male; un viaggio sconvolgente attraverso i vizi umani narrato con un linguaggio spoglio e una concretezza che lascia parlare la realtà (le sue immagini) senza emettere giudizi. Lo scrittore Klossowski interpreta il mercante di grano. Esordio di A. Wiazemsky.
Verso il 1880, un bottegaio parigino porta la famiglia a fare una scampagnata in un’osteria sulla Marna. Due giovanotti corteggiano la moglie e la figlia del bravo borghese, ma mentre la donna più anziana vuole solo divertirsi la più giovane prova un vero amore per l’uomo. Un anno dopo costui rivedrà la ragazza, diventata moglie infelice dello squallido socio del padre. Capolavoro del grande regista francese. Il film ebbe vita travagliata: girato nel ’36, rimase incompiuto e venne montato solo nel ’46. Ispiratori della breve pellicola sono Maupassant e gli impressionisti. Collaboratori alla regia furono Becker, Visconti, Catier, Bresson.
E’ la vera storia di un 73enne deciso a far visita al fratello. I due non hanno mai avuto un grande rapporto. Alvin decide di affrontare il viaggio, intenzione che crea le giuste angosce alla figlia Rose. Ma il vecchio è irremovibile. Il viaggio non è facile, il mezzo che ha scelto è un trattore piuttosto malconcio e la strada è lunga da Laurens nell’Iowa a Mt.Zion nel Wisconsin. Molti gli incontri, compresa una coppia stralunata di fratelli meccanici (in perfetto stile Lynch). Il regista ha inteso dimostrare di saper costruire e dirigere una storia più realistica e lontana dai film visionari che lo hanno da sempre caratterizzato. La scommessa è riuscita in pieno, grazie anche alla bravura di Richard Farnsworth (attore caratterista della vecchia guardia, ha recitato in Il fiume rosso, Il selvaggio, Spartacus e I cowboys). Commovente, ironico e avvolgente è un film che resta.
Dal racconto Rita Hayworth and the Shawshank Redemption di Stephen King (nel volume Stagioni diverse). 1946: direttore di banca, condannato per l’uccisione della moglie e del suo amante, è inviato al carcere di Shawshank. L’amicizia con un ergastolano nero e la competenza fiscale lo aiutano a sopravvivere. È il più intelligente e sottovalutato dramma carcerario in linea con la migliore tradizione hollywoodiana (claustrofobico, violento, garantista, liberale) con 2 novità: il tema della durata (il tempo che passa) e i connotati sociali del protagonista, vittima di un errore giudiziario. Le mozartiane Nozze di Figaro in una sequenza d’antologia di un film dove il rispetto delle convenzioni assume le cadenze serene e rasserenanti del cinema classico, impregnato di un generoso umanesimo. Esordio registico dello sceneggiatore F. Darabont.
Il cinema non aveva mai trattato lo spinoso problema dei matrimoni misti. Le difficoltà erano evidenti. Kramer ci provò, con molta cautela, affidandosi a due “testimoni” al di sopra di tutto: Katharine Hepburn e Spencer Tracy. Sono due genitori molto particolari. Matt e Christina Drayton rivedono la figlia di ritorno dalle Hawaii che, senza tanti preamboli, annuncia che sta per sposare un uomo di colore. Il padre della ragazza è proprietario di un giornale, la madre possiede una galleria d’arte, l’ambiente è una stupenda casa che guarda la baia di San Francisco. Il promesso sposo è un medico molto importante, con mille titoli accademici ed è… Sidney Poitier. Per un operaio di colore in una vicenda ambientata in Alabama doveva passare ancora qualche anno. I genitori naturalmente sono sconvolti, ma sono civili, umani e di vedute molto aperte. Meno facili sono i genitori di Poitier, diffidenti e quasi razzisti. Il problema fa emergere anche sensazioni lontane. Alla fine naturalmente tutto finisce bene; tutti si comportano alla perfezione. La storia dolcemente manierata, ma inedita nei film, rappresenta qualcosa di molto importante, anche se il filtro è quello della tradizione hollywoodiana del lieto fine.
Nel “profondo Sud” degli Stati Uniti un avvocato di elevati principi difende un nero accusato di aver violentato una ragazza bianca. Il nero viene condannato da una giuria di razzisti, ma il padre della ragazza cerca ugualmente di vendicarsi dell’avvocato aggredendo i suoi figli.
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