Samurai Gourmet (野武士のグルメ, Nobushi no gurume) è una serie televisiva giapponese diffusa a partire dal 17 marzo 2017 su Netflix. L’attore principale è Naoto Takenaka. La distribuzione in Italia non presenta una localizzazione audio ma solo nei sottotitoli ai vari episodi.
Takeshi Kasumi, 60 anni, ha dedicato la sua intera vita al suo lavoro in modo devoto e diligente. Una volta in pensione non sa come trascorrere il suo tempo libero. Una birra bevuta a metà pomeriggio gli farà capire che davanti a lui c’è la possibilità di esplorare un mondo culinario che lui non immaginava. Sarà accompagnato nelle varie scoperte culinarie da un samurai dell’epoca feudale giapponese creato dalla sua immaginazione che gli farà da modello per superare le sue titubanze.
Nel 1944 in Belgio una compagnia di fanteria americana si trova a mal partito contro gli attacchi tedeschi per colpa di un capitano incompetente e vigliacco. Un tenente lo fa fuori prima che si arrenda. Tratto dal dramma teatrale Fragile Fox (1954) di Norman A. Brooks, adattato da J. Poe, non è tanto un film contro la guerra quanto contro coloro che la fanno male. Ancora una volta Aldrich mette in immagini i suoi temi preferiti: l’autorità perversa e insana, l’eroe schiacciato dal sistema, la debole democrazia che crede nel compromesso. Realizzato con pochi mezzi (e senza la collaborazione dell’esercito), esce dagli schemi del cinema hollywoodiano di guerra per energia, taglio rapido, gusto dell’eccesso.
Titta Di Girolamo ha cinquant’anni, vive da otto anni in un albergo di una cittadina del Canton Ticino lontano dalla famiglia, apparentemente facoltoso ma senza alcuna esibizione di ricchezza. È un uomo che nasconde un segreto che emergerà a poco a poco anche grazie al progressivo innamoramento per la ragazza del bar dell’hotel. Il secondo film di Sorrentino merita tutte le attenuanti che vanno concesse all’opera seconda ma non convince. Se in L’uomo in più scorreva la vita, anche se quella circoscritta dell’ambiente calcistico, qui ci troviamo di fronte a un film così ‘recitato’ da suonare falso. Con i pensieri e le battute costruiti a tavolino che, a volte, nenanche un grande attore come Servillo riesce a sostenere. La raffinatezza stilistica sul piano visivo viene così a contatto con personaggi come (ad esempio) i due ex proprietari dell’albergo ridotti a vivere in una stanza dello stesso. Sembrano leggere, non ‘dire’ le battute. A questo si aggiunga una descrizione stereotipa dei mafiosi come non la si vedeva da tempo al cinema. All’estero (festival di Cannes) piace. Forse perchè aderisce allo slogan “spaghetti, pizza, mafia”?
La storia ruota intorno al personaggio di Dexter Morgan, all’apparenza un tranquillo e metodico tecnico della polizia scientifica diMiami, in realtà un feroce e spietato serial killer, che però agisce seguendo un proprio rigoroso codice: uccidere soltanto criminali che sono sfuggiti alla giustizia.[2] La serie è basata (solo per quanto riguarda la prima stagione) sul romanzo La mano sinistra di Dio di Jeff Lindsay. Esistono anche altri libri sul personaggio, sempre dello stesso autore, che seguono però una diversa continuity rispetto alla serie. Rimasto orfano all’età di tre anni, Dexter viene adottato da Harry Morgan, sergente della polizia di Miami. Dopo aver scoperto che Dexter ha iniziato a uccidere degli animali, Harry capisce che il figlio è un sociopatico e un potenziale serial killer; cercando di evitargli un futuro in carcere o sulla sedia elettrica, gli insegna a incanalare i suoi impulsi violenti verso chi “se lo merita”, ovvero tutti quei criminali che in un modo o nell’altro sono riusciti a sfuggire alla giustizia. Secondo il codice di Harry, che Dexter segue alla lettera, le sue vittime devono essere esclusivamente assassini, stupratori, pedofili, e tutti coloro che potrebbero rivelarsi pericolosi per la società. Inoltre Harry insegna al figlio a costruirsi una facciata per apparire normale e innocuo agli occhi degli altri, e a sfuggire egli stesso alle indagini della polizia. Una volta cresciuto, l’attrazione per il sangue – che si evince dai “trofei” che preleva alle sue vittime – porta Dexter a diventare un tecnico forense nell’analisi delle tracce ematiche, lavorando così insieme alla sorellastra Debra, diventata agente di polizia come suo padre, presso la polizia di Miami. Come parte del suo progetto di mascheramento, Dexter frequenta Rita, una donna separata con due figli piccoli, Astor e Cody. Sebbene sia un sociopatico, inizialmente incapace di provare genuini sentimenti, in realtà ha, a suo modo, un rapporto di sincera amicizia con amici e colleghi, in particolare con Debra a cui è molto legato.
L’assassinio di una medium è il primo di una catena di delitti sui quali indagano un musicista e una giornalista: il loro autore finirà decapitato da un ascensore. Thriller di transizione tra la 1ª fase parahitchcockiana di Argento e quella visionaria e occultista di Suspiria e Inferno . Aumentano l’importanza della cornice scenografica e l’iperbole degli oggetti che rafforzano la sua delirante dimensione gotica. Il tema musicale di Giorgio Gaslini, eseguito dai Goblin, divenne un cult .
In America Arcibaldo – interpretato da Carroll O’Connor – è un mito. Egli incarna tutti i difetti dell’uomo medio americano: è ignorante, pieno di pregiudizi razziali e sessuali, odia tutti coloro che disturbano la sua quiete domestica. E i primi a spezzare il silenzio che dovrebbe regnare sovrano sono la devota moglie casalinga Edith (Jean Stapleton), la figlia commessa Gloria (Sally Struthers) e suo marito Mike Stivic (Rob Reiner), un disoccupato polacco perennemente affamato che subisce una condanna terribile: vivere sotto lo stesso tetto del cinquantenne Arcibaldo, caposquadra ai docks della Pendergast Tool and Die Company. Quando torna a casa dal lavoro, Archie pretende che la moglie gli corra incontro e gli chieda “com’è andata oggi”; subito dopo siede nella sua poltrona (sulla quale non vuole si appoggi alcuno) e dice a Edith di portargli una birra. Tra i suoi passatempi preferiti c’è il tiro a segno nei confronti del genero Mike, che ha soprannominato senza affetto “testone”: ciò che Archie non gli perdona non è solo l’appetito; non gli perdona di essere di origini non americane (Arcibaldo è il personaggio più razzista della televisione: odia tutti i “diversi”, handicappati compresi); non gli perdona di essere liberal (quando Archie difende con calore Nixon e Reagan, la sola cosa che non gli va giù di Kissinger sta nel fatto che è tedesco); non gli perdona di essere uno studente (perché ritiene che la cultura sia non solo superflua ma addirittura dannosa, in ogni caso sostituibile da quel “buon senso comune” che non deve rispondere a tanti “perché?”; non gli perdona le effusioni con Gloria (lui che, quando Edith tenta di abbracciarlo, esclama irritato “non di fronte ai ragazzi”); ma forse più di tutto non gli perdona di essere penetrato, attraverso il matrimonio con la figlia, in casa sua, nel suo regno. Girata tutta in una stanza (il soggiorno), con qualche incursione furtiva in cucina o in camera da letto, una delle situation-comedy più popolari degli States trova il suo climax quando Archie entra in relazione con gli altri, che detesta nella loro totalità. In un’animata discussione con il genero, il nostro gli spiega che oltre la soglia di casa c’è “un mondo in cui cane mangia cane e il più cane vince”. I vicini sono i Jefferson, una famiglia di colore composta dal nevrotico George (Sherman Hemsley), dalla dolce Louise (Isabel Sanford), la migliore amica di Edith, e Lionel (Michael Evans), l’amico di Mike e Gloria
Mancano diversi episodi soprattutto nella seconda stagione ma è tutto quello che ho trovato.
“Turni di notte” di anziano neosposo che, non pago della moglie, non trascura le due cognatine. Quando decide di occuparsi anche della graziosa domestica gli viene un colpo. Interpretazione memorabile di Tognazzi, misurato protagonista di un film crudele, demistificatorio e non consolatorio (per lo spettatore) che si stacca dagli schemi della commedia all’italiana media. Fotografia: Lamberto Caimi. Musiche: Fred Bongusto. Dal romanzo La spartizione (1964) di Piero Chiara, scritto da Lattuada con A. Baracco, T. Kezich, P. Chiara. Girato a Luino (VA).
La storia di un gruppo di sopravvissuti a un’epidemia di zombie che si è abbattuta su tutto il pianeta. Guidati dallo sceriffo Rick Grimes (interpretato dall’attore inglese Andrew Lincoln), i superstiti vagano alla ricerca di un posto sicuro dove rifugiarsi. Ma l’assedio quotidiano a cui sono sottoposti e il costante pericolo di morte non tardano a far emergere i peggiori istinti dell’essere umano. Nella battaglia per difendere la vita dei suoi famigliari e dei suoi compagni, Rick sarà costretto a rendersi conto che la paura e la disperazione dei sopravvissuti possono essere molto più insidiose dei morti viventi.
A Sagliena, paesino dell’Italia centrale, il nuovo maresciallo dei CC mette gli occhi su Maria – orfana e povera, detta la Bersagliera, innamorata di un carabiniere veneto – e fa la corte alla levatrice Anna. Campione d’incassi della stagione 1953-54, Orso d’argento a Berlino 1954, rilanciò De Sica caratterista, sanzionò la Lollobrigida, che ebbe il Nastro d’argento; fu il 1° successo di Comencini. È, insieme, il trionfo dell’Arcadia e della commedia dell’arte con le sue maschere, la versione spuria e furba di Due soldi di speranza (1951) di Castellani con cui ha in comune lo sceneggiatore Ettore M. Margadonna.
1986. Il detective Seo è inviato da Seul in una piccola città tra le campagne coreane per indagare sugli omicidi di un serial killer, ma si scontra con l’ottusità e la superficialità dei poliziotti locali. Tratto dal romanzo di Kim Kwang-rim, si basa su una storia vera avvenuta alla fine degli anni ’80 in Corea del Sud. È un periodo difficile, gli interrogatori risentono ancora del periodo della dittatura, quando estorcere le confessioni era all’ordine del giorno. L’urgenza di trovare un colpevole a tutti i costi annebbia il giudizio dei poliziotti. Ma c’è aria di cambiamento e alcune scene lo indicano chiaramente, come quella in cui i bambini non ubbidiscono all’ordine del coprifuoco urlato dai soldati per le strade: piccoli indizi della democrazia a venire. Un buon thriller, giocato sui campi lunghi di grande respiro. Vincitore, tra gli altri, anche di 3 premi al Torino Film Festival.
Dal romanzo A Kestrel for a Knave di Barry Hines. In una città industriale del Nord un ragazzino vive con la madre e un fratellastro in un quartiere periferico. Catturato un falchetto, lo addestra dedicandogli intelligenza e amore, tutto ciò che non riesce a dare alla famiglia e alla scuola. “Ha un respiro narrativo molto più disteso delle opere precedenti; coglie nel vivo senza bisogno di una programmatica provocazione stilistica, con un’intensità malinconica e una purezza visiva di gran lunga superiori a quelle del successivo Family Life” (E. Martini). 1° premio a Karlovy Vary.
Mildred Pierce è mamma, moglie e casalinga nell’America della Grande Depressione. Tradita e abbandonata dal marito, tra una torta e l’altra cerca lavoro a Los Angeles per garantire futuro e privilegi alle sue bambine, Ray e Veda. Assunta come cameriera in una tavola calda, Mildred rivela presto il suo talento di cuoca e pasticcera, che mette in pratica aprendo un ristorante. Rialzata la testa ma segnata da un lutto profondo, Mildred prende letteralmente in mano il suo futuro e quello di Veda, musicalmente dotata e in evidente conflitto con lei. Tra una mamma indefessa e una figlia insidiosa si insinua Monty Beragorn, giocatore di polo ricco e viziato che pratica il dolce far niente. Ambientato negli anni Trenta e nell’America in crisi del repubblicano Herbert Hoover, Mildred Pierce è un (melo)dramma in cinque atti prodotto dalla HBO e magnificamente diretto da Todd Haynes. Mildred Pierce, come Lontano dal paradiso nove anni prima, mostra un’ossessiva fedeltà formale nei confronti di un genere che viene nondimeno attualizzato e modificato.
Haynes di fatto trasforma l’infiammabilità inesplosa e trattenuta dei mélo americani in un film (a puntate) che divampa sotto i nostri occhi. Un violento e viscerale congegno narrativo che non si limita a riesumare spoglie di un genere che fu per giocare col cuore e la memoria colta dei cinefili ma che affronta, sotto la compostezza della messa in scena, il sogno americano declinato al femminile. Al centro del dramma e alla periferia di Los Angeles abita una donna che sceglie di affermare la propria fermezza e il conseguente bagaglio di sofferenza. Adattamento fedele e puntuale dell’omonimo romanzo di James M. Cain, Mildred Pierce riprende un discorso cinematografico che non sembra soltanto citato e rivisitato nelle musiche, nelle scene, nei costumi e nella grafica dei titoli di testa ma pure splendidamente proseguito e aggiornato. Scegliendo il mélo come territorio della sua autopsia dell’America di quegli (e questi) anni, la mini-serie diventa una messa in discussione del presente compiuta attraverso uno sguardo predatato. Il vero dramma è che quella società è quasi uguale a questa, soltanto un po’ meno consapevole della propria stritolante violenza. Meno ‘nero’ e più ‘osservante’ della trasposizione del ’45 di Michael Curtiz (Il romanzo di Mildred) interpretata da Joan Crawford, la versione di Todd Haynes è un’esperienza emotiva purificatrice che mette in schermo il bene e il male, la luce e il buio, schierando davanti allo ‘specchio della vita’ una madre intraprendente che lotta e ‘impone’ la sua gentilezza e una figlia inappagata la cui cruda concupiscenza per la celebrità ignora tutti tranne se stessa. Black melodrama familiare, Mildred Pierce trova in Kate Winslet un’interprete mirabile nel restituire una donna che, emancipata dalla subalternità del ruolo, fa carriera nell’America ‘riformata’ e recuperata di Franklin Delano Roosevelt. Caparbia e ostinata, la sua Mildred è ‘al volante’ della vita e di quell’auto in cui trova riparo dalla pioggia e dalle afflizioni e da cui ‘riparte’ per ricominciare. Condotta via da un amante o ‘trasportata’ da un taxi è invece la Veda civettuola e crudele di Evan Rachel Wood decisa ad affrancarsi dalla provincia e dalla sua condizione a colpi di voce e di note. Insieme le due attrici daranno vita a un dramma di assordante tristezza, che non ha più i connotati fiabeschi del sogno ma quelli asfissianti di una sopportazione che diventa abitudine. Ma l’insurrezione è dietro la porta.
Tokyo, oggi. Hirayama è un sessantenne giapponese che pulisce i bagni pubblici della città con attenzione meticolosa ai dettagli e dedizione certosina al suo lavoro. Ogni giorno segue la stessa routine: un’attenta pulizia personale prima e dopo quella dei bagni altrui, un’innaffiata alle piante che ha salvato dalla disattenzione cittadina, un panino al parco all’ora di pranzo. Lungo il suo percorso talvolta si ferma a osservare le piante che lo sovrastano scattando foto alle chiome, o fa uno spuntino presso qualche tavola calda. E ogni tanto fa qualche incontro: con Takashi, il ragazzo che rileva il turno pomeridiano di pulizia dei bagni, con una ragazza al parco, con un senzatetto scollato dalla realtà, con la proprietaria di un ristorante che gli riserva piccoli trattamenti di favore. E quando sale a bordo del suo furgone ascolta Lou Reed (con e senza i Velvet Underground) e Patti Smith, The Animals e Van Morrison, Otis Redding a Nina Simone, così come quando è a casa legge William Faulkner e Patricia Highsmith, ma anche la “sottovalutata” Aya Koda.
L’uomo svolge il suo lavoro con gesti precisi ed essenziali, accogliendo l’occasionale contatto umano (anche nella forma anonima di una partita a tris proposta su un foglietto) con generosità e rispetto. Tutto in lui è rimasto analogico, come le musicassette che ascolta o la macchina fotografica i cui rullini vanno fatti sviluppare, e le fotografie vengono collezionate in scatole numerate che archiviano la nostalgia del tempo che passa.
Wim Wenders, in veste di regista e sceneggiatore (con Takuma Takasaki), mette a frutto la sua grande familiarità con il documentario per creare un film di finzione che segue le giornate del suo protagonista come una camera nascosta, e poi però racconta i sogni di Hirayama come un’elaborazione artistica del giorno appena vissuto.
La concezione architettonica di Wenders incastona la figura umana in spazi ben squadrati e confinanti (a cominciare dal formato 4:3 che ad un certo punto diventa quello ancora più ristretto dell’inquadratura da cellulare), e in una Tokyo in cui il sole sorge (non a caso siamo nel Paese del Sol Levante”) accompagnato dalla canzone perfetta (The House of the Rising Sun). La fotografia nitida e precisa di Franz Lustig accompagna il ritratto della serena e composta solitudine di un uomo che sa di appartenere ad un’altra epoca e che ha fatto pace con i suoi errori del passato.
Viserys della casata Targaryen è divenuto il Re dei Sette Regni quando suo nonno Jaehaerys ha imposto ai suoi sottoposti di scegliere tra lui e la sorella maggiore Rhaenys. Sogna di avere un figlio maschio ma la sua regina muore nel parto e suo fratello Daemon insulta la breve vita del neonato. Per questo oltraggio, Viserys decreta che il suo erede sarà sua figlia Rhaenyra. Anche quando successivamente si sposa con Alicent Hightower e ha finalmente figli maschi non cambia la propria decisione, che però sarà prevedibilmente poco apprezzata dagli altro nobili dei Sette Regni, che vorrebbero un uomo sul Trono. Crescono così i semi della futura guerra civile…
Un uomo di mezza età, ubriaco, è sequestrato in un monolocale blindato dove passa quindici anni ignorando chi l’ha fatto rapire e perché. Dal televisore, unico contatto con l’esterno, apprende che sua moglie è stata uccisa e che lo cercano come uxoricida. Ancorato alla fame di vendetta, si allena per tenersi in forma. Misteriosamente come era entrato, esce, ossessionato da due quesiti: chi e perché? Non si domanda, però, perché l’abbiano liberato dopo tanto tempo. Ispirato a un manga del giapponese Tsushiya Garon disegnato da Minegishi Nobuaki, è un film iperrealistico e fantasmatico che ha nella violenza la sua energia creatrice, affidata a un meccanismo narrativo dove i momenti forti si alternano alle pause di attesa. A Cannes 2004 vinse il Gran Premio della giuria. All’origine c’è l’equivalenza fra parole e fatti: la parola uccide più della spada. La maestria di Chan-wook, regista di punta del cinema sudcoreano, sta nel fare dell’ambiguità l’evidente sottotraccia del racconto. Possiede qualcosa della sensibilità camp per la quale esiste un buon gusto del cattivo gusto.
Non abbiate dubbi su quale versione guardare di questo film, questa del 2003 è quella giusta.
Le avventure di Lupin III (ルパン三世Rupan Sansei?) è la prima serie televisivaanime basata sul manga Lupin III di Monkey Punch, nella quale il protagonista indossa una giacca verde. Andò in onda per la prima volta in Giappone dal 24 ottobre 1971 al 26 marzo 1972 suYomiuri TV,[1] mentre in Italia fu trasmessa nel 1979 su diverse reti locali e replicata successivamente su Italia 1 e altre reti Mediaset. Dal1987 fu trasmessa con il titolo Lupin, l’incorreggibile Lupin, mentre nel 2004 è stato ripristinato il titolo italiano storico.
Arsenio Lupin III, nipote del ladro gentiluomo Arsène Lupin, è un ladro ricercato a livello internazionale. Il suo braccio destro è Daisuke Jigen, un tiratore esperto che può sparare a un obiettivo in 0,3 secondi. A loro si unisce la bella Fujiko Mine, interesse amoroso di Lupin che spesso manipola le situazioni a suo vantaggio. Dopo diversi scontri con il samurai Goemon Ishikawa XIII, quest’ultimo entra a far parte del gruppo. Lupin e i suoi soci sono costantemente inseguiti dall’ispettore Koichi Zenigata dell’Interpol, il cui obiettivo è arrestarli una volta per tutte.
Una coppia di anziani (Ryu, Higashiyama) partono dalla cittadina costiera di Onomichi per Tokyo a far una rara visita ai due figli sposati, un medico (Yamamura) e una parrucchiera (Sugimura), che li trattano come estranei e non hanno tempo di stare con loro. Soltanto una nuora vedova (Hara) si dimostra contenta della loro compagnia. I temi cari a Ozu _ l’instabilità della famiglia giapponese dopo la guerra, l’incomunicabilità tra generazioni, l’influenza negativa della vita urbana sui rapporti umani _ sono raccontati con un doloroso pudore, una estrema lucidità, un linguaggio di depurata semplicità che ne fanno uno dei suoi capolavori insieme con Tarda primavera e Il gusto del sakè. Importante è il personaggio della nuora che impersona la morale specifica del film, “mostrando che chi ha meno ricevuto è anche chi darà di più” (J. Lourcelles). Da vedere con i figli, specialmente se sono cresciuti.
Abbandonata dalla sua astronave in un bosco della California, una piccola creatura galattica è aiutata da un ragazzino che la nasconde nella propria casa. Saranno ritrovati e catturati da un esercito di poliziotti e scienziati. Un’orgia di carineria, una macchina perfetta il cui combustibile è fatto di zucchero e di una miscela calcolatissima di umorismo e melodramma, pathos e invenzioni comiche, buoni sentimenti e critica ai valori costituiti, grande spettacolo tecnologico e coinvolgimento emotivo, rimandi culturali ed effetti speciali oltre a un sottotesto di mito religioso. Scritto da Melissa Mathison. Costato un milione e mezzo di dollari e frutto dell’ingegno di Carlo Rambaldi, il piccolo pupazzo elettronico è la carta vincente di questa favola per bambini di tutte le età, munita anche di un messaggio: bisogna avere gli occhi (il cuore, la fantasia) di un bambino per capire e accettare i “diversi”. Uno dei più grandi successi del cinema mondiale. 3 premi Oscar (musica, sonoro, effetti speciali). Ridistribuito nel 2002 in una nuova edizione rimasterizzata nel suono con l’aggiunta della buffa sequenza della vasca da bagno e di molte inquadrature in apertura e la cancellazione delle pistole in mano ai poliziotti inseguitori. Ritoccato anche il doppiaggio italiano con la voce roca di E.T. affidata a Germana Dominici (quella originale è di Debra Winger).
In un umile appartamento vive una piccola comunità di persone, che sembra unita da legami di parentela. Così non è, nonostante la presenza di una “nonna” e di una coppia, formata dall’operaio edile Osamu e da Nobuyo, dipendente di una lavanderia. Quando Osamu trova per strada una bambina che sembra abbandonata dai genitori, decide di accoglierla in casa.
La famiglia, per definizione, non si sceglie. O forse la vera famiglia è proprio quella che si ha la rara facoltà di scegliere. Libero arbitrio parentale: un tema niente affatto nuovo nel cinema di Kore-eda Hirokazu, dallo scambio di figli di Father and Son alla sorellanza estesa di Little Sister.
Ma Un affare di famiglia percorre solo in apparenza binari antichi, nascondendo una differente declinazione della materia, che guarda al sociale come l’autore non faceva dai tempi di Nessuno lo sa. In un’opera brutalmente separata in due atti, che lavora molto sul dialogo con lo spettatore. Il primo segmento sembra esaudire appieno le aspettative di quest’ultimo, introducendolo a un gruppo di ladruncoli che, per interesse prima e per affetto poi, si ritrova a festeggiare un colpo, simulando di avere dei rapporti effettivi di parentela. Tutto sembra procedere nella direzione più attesa, sino alla svolta narrativa che riapre il vaso di Pandora e rimette tutto in discussione. “Buoni”, “cattivi”, giusto e sbagliato, diventano concetti ribaltati sullo spettatore e sui suoi dubbi, con una padronanza della narrazione – già intravista nel “rashomoniano” The Third Murder – che guarda al relativismo di Kurosawa Akira, ancor più che al consueto termine di paragone di Ozu.
Kore-eda è ormai talmente padrone della propria poetica, elaborata attraverso una lunga e pregevole filmografia, da poterne disporre a piacimento, rivoltandola come un guanto per offrire nuovi punti di vista, nuove ricerche di verità.
Il conflitto tra legge morale e legge sociale trasforma i toni quasi da commedia della rappresentazione della famiglia fittizia in un dramma colorato di nero, che colpisce come una sferzata, dopo aver aperto il cuore al sentimento. Lo scontro tra legge e natura raggiunge il suo apice nell’epilogo di Un affare di famiglia, dimostrando l’invincibilità della prima – che ostruisce la costruzione di un modello alternativo – ma ribadendo con forza le ragioni della seconda.
Un film di Chen Kaige. Con Leslie Cheung, Zhang Fengyi, Gong Li Titolo originale Bawang bieji. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 170 min. – Cina, Hong Kong, Taiwan 1993. MYMONETRO Addio mia concubina valutazione media: 3,38 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il titolo è preso da un’opera cinese dei primi del Novecento, scritta da Mei Lanfang. Il regista cinese Chen Kaige vive a New York, trapiantato da vero intellettuale. E il film, un affresco politico nascosto sotto la patina del melodramma, media la cultura cinese con lo stile registico occidentale. Non è certo una pecca, specialmente se il risultato, come in questo caso, è lusinghiero. Due bambini diventano amici mentre apprendono la durissima arte dell’attore. Infatti in Cina per calcare il palcoscenico si deve sottostare a regole durissime. Una volta scelti come attori per una famosa opera con protagonisti un re e la sua concubina le loro vite cambiano. L’attore che interpreta il personaggio femminile si immedesima a tal punto da diventare geloso e pericoloso quando l’amico si innamora di una prostituta. Tra intrecci politici e sentimentali si giunge alla tragedia. Bravi tutti gli interpreti principali, soprattutto Leslie Cheung e Gong Li, e una lode al direttore della fotografia, Gu Changwei.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.