Durante la campagna di Russia, quattro militari di diversa estrazione sociale e provenienza geografica esprimono le loro considerazioni sull’assurdità della guerra. I sovietici, teoricamente “i nemici”, aiutano i soldati italiani dimostratisi “invasori” soltanto sulle mappe militari.
Un film di Hall Bartlett. Titolo originale Jonathan Livingston Seagull. Fantastico, durata 120 min. – USA 1973. MYMONETRO Il gabbiano Jonathan Livingston valutazione media: 3,84 su 5 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Jonathan è un gabbiano diverso dagli altri: non si accontenta infatti delle normali attività che gli competono e aspira alla perfetta conoscenza delle cose. Incontrata la riprovazione dei compagni, che lo cacciano, Jonathan gira il mondo e, divenuto saggio, affida prima di morire ad un altro gabbiano il compito di perseguire i suoi intenti. Il film è tratto dall’omonimo racconto di Richard Bach.
Trasposizione cinematografica di quattro racconti di Luigi Pirandello tratti da Novelle per un anno: L’altro figlio, Mal di luna, La giara e Epilogo, nel quale compare Pirandello stesso (interpretato da Omero Antonutti). I fratelli Taviani si confermano grandi autori del cinema italiano, firmando questa eccellente e rispettosa rilettura delle tematiche e delle atmosfere più care al grande drammaturgo siciliano. Splendidamente recitato, costruito con attenzione nei dettagli e girato nel suo insieme con mano maestra, Kaos si colloca tra i migliori prodotti del nostro cinema degli anni Ottanta. Nella versione televisiva del film è previsto un quinto capitolo: Requiem.
Mildred Hayes non si dà pace. Madre di Angela, una ragazzina violentata e uccisa nella provincia profonda del Missouri, Mildred ha deciso di sollecitare la polizia locale a indagare sul delitto e a consegnarle il colpevole. Dando fondo ai risparmi, commissiona tre manifesti con tre messaggi precisi diretti a Bill Willoughby, sceriffo di Ebbing. Affissi in bella mostra alle porte del paese, provocheranno reazioni disparate e disperate, ‘riaprendo’ il caso e rivelando il meglio e il peggio della comunità. La speculazione sale e progredisce, affondata nel Missouri, situato al centro degli States e rivelatore della crisi che scuote il Paese. Nello stato che non ha mai completato il percorso dallo schiavismo e genocidio delle origini al garantismo costituzionale e all’ideale pluralista multiculturale, l’autore svolge la storia di una madre che vuole giustizia. La pretende da poliziotti distratti, affaccendati a escludere gli omosessuali dalla protezione del “Civil Rights Act”, approvato nel 1965, o a “torturare persone di colore”, la sceneggiatura di McDonagh sottolinea lo slittamento semantico per bocca dell’agente di Sam Rockwell. Richiamati al loro dovere dai manifesti del titolo e dall’inconsolabile dolore di una madre, i cops adottano misure repressive, criminalizzando chi vuole soltanto giustizia. Ma è a questo punto della vicenda che il drammaturgo irlandese, cresciuto a Londra ma all’ombra di Samuel Beckett, scarta e rilancia realizzando il desiderio di Marty (7 psicopatici), lo sceneggiatore alcolizzato di Colin Farrell che provava a fuggire l’apologia della brutalità, la mitologia del crimine caustico, la verbosità prolissa e i motherfucker interposti. Lo scarto è incarnato dallo sceriffo di Woody Harrelson, magnificamente contre-emploi. Attore nato per uccidere, che misura sovente la propria performance in situazioni estreme, Harrelson è il cuore morbido di questa ‘commedia profonda’ che cerca e trova l’anima dell’America sotto l’intolleranza acuta e la mentalità settaria. È il suo gesto, ‘inoltrato’ con tre lettere, a impegnare gli altri personaggi.
Una villa isolata nella campagna francese. Una famiglia si riunisce per le vacanze, ma non si tratterà di un’occasione lieta. Il capofamiglia, come si scoprirà in breve tempo, è stato assassinato. L’omicidio puo’essere stato compiuto solo da una delle 8 donne presenti nella casa (compresa la sorella giunta in modo inaspettato). Se le donne rispondono al nome di Catherine Deneuve, Fanny Ardant, Isabelle Huppert, Emmanuelle Beart, Virginie Ledoyen ecc… si può facilmente immaginare quanto il gioco di rivalità (tra i personaggi ma anche tra le personalià attoriali) sia ad alto voltaggio. Anche di comicità perché il testo utilizzato ha un’origine teatrale che dosa con grande abilità commedia, satira e giallo. Ozon, dopo l’intimista e funebre Sotto la sabbia, spiazza tutti divertendosi a tenere a bada 8 caratterini non facili. Ci riesce con apparente nonchalance. Ma non tutto deve essere stato facile come appare. Per i posteri va ricordato il bacio lesbico tra la Deneuve e la Ardant (Buñuel e Truffaut sorridono sornioni dall’aldilà).
Lucenzio ama Bianca, ma il matrimonio non si può celebrare finché non si trova un marito alla terribile sorella di lei, Caterina. Allettato dalla dote, Petruccio la impalma, ma dovrà ricorrere alle maniere forti per trasformarla in una buona moglie. 2° film di Zeffirelli e uno dei suoi due o tre potabili. Grazie a un sapiente adattamento della commedia scespiriana, celebre per il suo forsennato dinamismo, firmato da Suso Cecchi D’Amico e Paul Dehn, e a collaboratori di prim’ordine, il film funziona. La coppia Burton-Taylor mette nella finzione una parte della loro vita privata.
Pierre è un giovane sereno e pieno di entusiasmo, Sara esce invece da una delusione amorosa e da un tentativo di suicidio. Tra i due nasce l’amore ma la ragazza, timorosa di perdere ancora una volta la felicità, per avere Pierre tutto per sé non trova di meglio che accecarlo.
Alessandro è un giovane disoccupato, in perenne conflitto con il padre, che trascorre il suo tempo in modo inconcludente con amici balordi e come lui nullafacenti. Costretto ad accettare un lavoro, fa da accompagnatore a Giorgio, poeta 85enne sofferente di Alzheimer: quello che inizialmente sembra essere un compito ingrato dal quale sottrarsi si trasforma in un rinnovato percorso di vita. Delicato ragionamento sulla complessità degli affetti e il senso dell’esistenza. Sono mondi apparentemente inconciliabili quelli che dialogano nella bella sceneggiatura scritta dallo stesso regista, ma sempre attraversati da quell’impalpabile cifra poetica che sottende in modo efficace tutta la narrazione. Alcune derive manichee e una lettura eccessivamente buonista inficiano, solo in parte, le intenzioni dichiarate.
Dopo l’8 settembre del ’43 il partito fascista di Ferrara stringe le fila, ma è lacerato tra due diverse tendenze: quella del moderato federale Bolognesi e quella del fanatico Aretusi, che fa assassinare il primo e, attribuendo il delitto agli antifascisti, scatena una violenta rappresaglia, facendo fucilare undici ostaggi. Ma il tempo cancella molte cose: il figlio di una delle vittime, Franco, fuggito in Svizzera, torna a Ferrara dopo 18 anni e incontrando Aretusi gli stringe cordialmente la mano.
Ferrara, inizi del 1500, Corte Estense, una delle più illustri del Rinascimento. Pochi mesi dopo la morte del duca Ercole I, si scatenano le gelosie e i rancori sopiti tra i quattro figli: Alfonso erede del ducato e sposo di Lucrezia Borgia, Ippolito, Giulio nato al di fuori del matrimonio, e Ferrante. La vita di corte procede tra festini, lussi e cortigiane. Durante una festa Ippolito si vede rifiutato dalla bella Angiola a favore di Giulio. Ippolito ordina di sfigurare il fratello che insieme a Ferrante covano vendetta e decidono di congiurare contro Ippolito ed Alfonso. Benemerito tentativo di uscire dai binari convenzionali del cinema italiano.
Due vecchi ex partigiani piemontesi ritrovano in un ospizio, costretto su una sedia a rotelle, il capitano delle brigate nere repubblichine che torturò e massacrò i loro compagni. Che faranno? Anconetano di nascita (1966) e torinese di adozione, l’esordiente Gaglianone – anche sceneggiatore con Giaime Alonge – sfiora soltanto il tema della vendetta e si concentra su quello del tempo e della memoria, del passato che per Alberto (Biei) s’è trasformato in ossessione, mentre l’amico Natalino (Franzo) ne ha preso le distanze con malinconica serenità. Nel mescolare supporti (video, 16 mm e Super8) e vari linguaggi (fiction, flashback, documentario, intervista) il regista non ha sempre la mano felice; vezzi e scorie da dilettante non mancano. Apprezzabili la sincerità e la rozza semplicità di fondo.
Grga e Zarije sono amici da almeno trent’anni. Matko, il figlio di Zarije, progetta di rubare un carico di carburante per contrabbandarlo. S’affida allora a Grga e ,con la scusa che suo padre, Zarije è morto, gli prende dei soldi, con i quali può portare a termine l’operazione. Nell’affare si mette in mezzo anche il criminale cocainomane Dadan; al momento del furto al convoglio, però, Dadan addormenta Matko e prende per sé il carico. Che al suo risveglio apprende da Dadan che il colpo è fallito; non potendo però restituire i soldi prestati al bandito è costretto ad accettare come condizione di dover far sposare il suo amatissimo figlio Zare con sua sorella Afrodita, detta Bubamara (ovvero coccinella) per la sua bassezza.
Dai libri Lay This Laurel di Lincoln Kirstein, One Gallant Rush di Peter Burchard e dalle lettere di Robert Gould Shaw. È la storia – una di quelle che i libri di storia e Hollywood non avevano mai raccontato – del giovane colonnello Robert Gould Shaw e del 54° reggimento di fanteria, costituito esclusivamente – ufficiali a parte – da soldati di colore, in gran parte ex schiavi fuggiti dal Sud, che nel 1863 fu mandato a un inutile assalto al Fort Wagner sull’isola Morris (South Carolina). Vi persero la vita più di mille giubbe blu nere. Pochi altri film hanno messo in immagini con altrettanta efficacia la locuzione metaforica “carne da cannone”, ma al di là degli accenti epici, dei conflitti psicologici e dei rimandi all’attualità sociale, questo 2° film di Zwick, sceneggiato da Kevin Jarre, ha un’intensa dimensione religiosa. 3 Oscar: miglior attore non protagonista (Washington), fotografia (Freddie Francis) e suono.
Ayub Khan-Din sceneggia una sua commedia di successo sul multietnismo nelle periferie britanniche e O’Donnell dirige un film eccezionale, ironico, trascinante: un vero fenomeno. Om Puri è il padre anglicizzato ma non fino al punto da non pretendere dai suoi figli un matrimonio tradizionale. Basset è la moglie british che si scontra con lui. I figli sono più inglesi di un nativo. Il melting pot produce un vero capolavoro cinematografico.
Roma, 2012. Francesca è un’esodata, ovvero una dei 390mila lavoratori che la riforma Fornero ha lasciato a casa in attesa di un’età pensionabile innalzata all’ultimo minuto, creando un limbo in cui persone che avevano lavorato per tutta la vita si sono viste prive di un reddito e di un meritato riposo. La situazione di Francesca è particolarmente delicata perché vive sola con una nipote 16enne che non capisce le difficoltà economiche in cui è precipitata la nonna e gliene addossa interamente la colpa. Quando Francesca si ritrova a chiedere l’elemosina sotto i portici di Piazza Repubblica, con il suo abbigliamento da signora bene e il suo sorriso da persona onesta, le reazioni della gente verso di lei sono le più disparate, e la donna fa esperienza tanto della vergogna della propria condizione quanto della natura ambivalente degli altri davanti a chi ha bisogno.
harley Varrick, un ex acrobata d’aereo, decide di cambiare vita e dedicarsi alle rapine in banca. Ma a Tres Cruces, nel New Mexico, rapina una banca, che in realtà è un deposito in cui una banda di gangster tiene il denaro da riciclare. Ciò scatena una furibonda caccia all’uomo.
Santiago del Cile, al debutto degli anni Cinquanta. Alejandro Jodorowsky ha vent’anni e il desiderio di diventare poeta contro il parere del padre che lo sogna medico, ricco e borghese. Intrappolato nell’ennesima riunione di famiglia, recide (letteralmente) l’albero genealogico e ripara in una comune di artisti avanguardisti per coltivare finalmente il desiderio ardente. Ispirato dai più grandi maestri della moderna letteratura Latino Americana (Enrique Lihn, Stella Díaz, Nicanor Parra) e immerso nella sperimentazione poetica, Alejandro farà la sua rivoluzione culturale. Con Poesia senza fine, Alejandro Jodorowsky invita lo spettatore al viaggio. Un viaggio introspettivo che pesca ancora una volta nella sua biografia e nel suo universo fantasmatico, dischiudendo la stagione rocambolesca dell’adolescenza e muovendo verso l’età adulta delle prime espressioni artistiche, dei primi turbamenti sentimentali.
Opera immensa, audace e generosa, Poesia senza fine comincia dove si interrompe La danza della realtà, cronaca dell’infanzia cilena dell’autore. Se la madre canta sempre il suo ruolo come in un film di Jacques Demy e il padre, tiranno domestico, vende ancora lingerie umiliando i poveri, a ‘crescere’ è Alejandrito, eroe adolescente, esaltato e scapigliato che chiude coi genitori e abbraccia la carriera di poeta.
Jodorowsky prosegue il racconto giocoso e caricaturale della sua esistenza, inventando e reinventando un altro cinema, personale, libero, senza limiti. Un cinema taumaturgico abitato da creature fantastiche che sembrano fuggite dall’immaginario felliniano. Poeti, clown, nani, ballerine e giocolieri scendono in pista per salvare quello che possono con un atto poetico prodigioso. Su tutti dominano Stella Díaz (Pamela Flores), poetessa dai seni opulenti e i capelli rossi, che inizia Alejandrito al sesso e alla bellezza aggrappata a un’erezione senza fine, Enrique Lihn (Leandro Taub) compagno di notti liriche ed alcoliche che interpreta la poesia in azione e prosegue ‘tutto dritto’ fino al mattino, Pequeñita (Julia Avedano), nana che vuole crescere con l’amore. L’incontro del protagonista con gli amici poeti ridefinisce la sua vita e ridimensiona il terrore e l’orrore del quotidiano. Perché per Jodorowsky l’immaginario è nostro amico e aiuta a riconciliarsi col dolore. Il nostro, il suo. E a questo titolo Brontis e Adan Jodorowsky, figli di Alejandro, impersonano nel film i padri e figli in divenire, l’emanazione simbolica (e incarnata) che contiene la soluzione del trauma. Vero e proprio atto psicomagico, l’autore stana il conflitto e lo scioglie intervenendo fisicamente nel film, prendendo per mano il tormento dei personaggi e gettando una luce sentimentale sull’ombra tumultuosa della sua creazione. Tra fantasmi e realtà, per Jodorowsky nessuna verità può essere enunciata fuori da questa alleanza, l’autore abbraccia il giovane uomo che fu col padre, convertendo in poesia i gesti di violenza e le parole odiose che segnarono il loro congedo. Perché lo scopo della poesia è fare del mondo un posto migliore, anche molto tempo dopo, anche quando è troppo tardi. La poesia è tutto quello che crea, e per estensione quello che ci crea.
Londra, fine ‘800. Robert Angier (Jackman) e Alfred Borden (Bale) sono due prestigiatori/illusionisti di successo, specialmente il primo. Da amici com’erano, sono diventati più che rivali: si odiano. Nella loro acerrima competizione sono coinvolti il comune maestro di un tempo (Caine), una giovane apprendista (Johansson) e l’inventore (Bowie) di un marchingegno di teletrasporto. Come si dice nel film, ogni trucco è diviso in tre tempi: la presentazione, il colpo di scena e il prestigio, qualcosa che non si era mai visto prima. Sembra un film da (sullo) spettacolo, un esercizio elegante e sorprendente sull’illusione contrapposta alla realtà. Tratto da un romanzo di Christopher Priest. Grazie alla calibrata sceneggiatura – scritta con il fratello Jonathan – l’inglese C. Nolan va al di là e in profondo su temi gravi: ambizione, inganno, vendetta, ossessione, gelosia, insomma il legno storto dell’umanità. Alla resa dell’ambiente e dell’atmosfera dà molto la fotografia di Wally Pfister. Attori magnetici.
Ballin Mundson, proprietario di un losco casinò di Buenos Aires, sposa un’ex ballerina, già amata da Johnny, il suo fedele collaboratore. Il triangolo che si regge su un complesso rapporto di amore-odio non si spezza nemmeno con la morte (apparente) di uno dei tre. Film di culto per i fan di Rita, corpo d’amore ribelle al suo ruolo di oggetto, che canta meravigliosamente “Put the Blame on Mame” e danza splendidamente “Amado mio”. L’assurdità dell’intrigo diventa un difetto secondario in questa miscela di noir e melodramma passionale in cui i dialoghi di Marion Parsonnet sono di un Kitsch che sfiora il sublime. La latente carica omosessuale di questa pietra miliare nella storia del divismo fu scoperta soltanto dalla critica europea.
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