Grazie a un collega defunto che gli mostra le copie del giornale del giorno dopo, un brillante giornalista diventa ricco e famoso. Poi viene a sapere che l’indomani lui stesso morirà. Da uno stravagante soggetto di Dudley Nichols un gradevole e intelligente film girato da Clair durante la sua permanenza a Hollywood. Noto in Italia anche come Ora X, colpo sensazionale.
Avventure, amori e tribolazioni di otto soldati del Regio Esercito Italiano che nel giugno 1941 sono mandati a presidiare un’isoletta greca dell’Egeo dove rimangono sino all’inverno del 1943. Uno degli otto non tornerà. Senza ambizioni storiche, è una favola, un racconto di formazione, un apologo sull’amicizia virile, sul desiderio di fuga (è dedicato “a tutti quelli che stanno scappando”), sulle difficoltà di crescere. Chiude un’ideale trilogia sul viaggio e su una generazione, quella del regista, formata da Marrakech Express e Turné . Un bel gioco di squadra attoriale e un’accattivante mistura di buffo e patetico con molti stereotipi e qualche leziosaggine ruffiana. Girato nell’isola di Kastellorizo (Megisti in greco). Oscar per il film straniero.
Tre mogli, sei analisti, molte amanti e innumerevoli scopate randagie, Harry Block è uno scrittore sessantenne ebreo che cerca di mettere ordine nel caos della propria vita, raccontandola nei suoi libri. Nel suo 28° film Allen si è scritto addosso il personaggio più sgradevole della sua carriera, come se fosse modellato su quel che il perbenismo yankee pensa di lui. Oltre ai difetti che ha, Block si dichiara in bancarotta spirituale e in fase di blocco creativo. Uomo deplorevole è, come intellettuale laico, una persona seria: dichiara il suo agnosticismo in materia religiosa e denuncia ogni forma (anche quella ebraica) di integralismo, fondamentalismo, vittimismo, tradizionalismo fanatico. Personaggio rischioso in un film a rischio: decostruito, senza una vera trama, frantumato in ritorni all’indietro, invenzioni surreali, variazioni sul tema del doppio, deviazioni farsesche o oscene, parentesi drammatiche, omaggi ai suoi idoli (Kafka, Proust, Bergman, Fellini) e almeno due prestiti. È anche molto divertente, non soltanto per il fuoco di fila delle battute, ma per le invenzioni di regia tra cui quella geniale di Williams “fuori fuoco”. Onore anche a Carlo Di Palma che forse ha messo lo zampino nella discesa agli inferi, ispirata a Maciste all’inferno (1926), film muto italiano. E onore alla Davis, la migliore dei 19 attori del cast: il dialogo con la sorella è da antologia.
Ahmad arriva a Parigi da Teheran. Marie, la moglie che ha lasciato quattro anni prima, ha bisogno della sua presenza per formalizzare la procedura del divorzio. Marie ha due figlie nate da altre relazioni e ha un difficile rapporto con la più grande, Lucie. Ahmad viene invitato a non risiedere in hotel ma a casa e ha così modo di scoprire che Marie ha una relazione con Samir la cui moglie si trova in coma. Asghar Farhadi si è fatto conoscere sugli schermi occidentali grazie all’Orso d’argento vinto al Festival di Berlino con About Elly e ha confermato le sue qualità con il successivo Una separazione (vincitore, tra gli altri premi, di un Oscar di cui la stampa ufficiale iraniana non ha dato notizia all’epoca). Ora con The Past offre un’ulteriore conferma delle proprie doti di scrittura oltre che di regia. Lo spazio architettonico e sociologico è mutato. La casa di vacanza e la dimensione urbana della capitale iraniana vengono ora sostituiti da una Parigi periferica così come periferiche sono apparentemente le une per le altre le vite dei protagonisti. Ahmad, Marie, Samir e Lucie si vorrebbero sentire ‘fuori’ dalla complessità e dalle problematiche degli altri ma ciò è impossibile. Se Ahmad ha pensato che il ritorno in patria lo separasse definitivamente da Marie si trova costretto a scoprire che non è così. Se Marie ha creduto che bastasse una firma per chiudere definitivamente con lui è costretta ad accorgersi di avere sbagliato. Se lei e Samir si illudono di poter staccare i legami che li collegano a quella donna che sta su un letto di ospedale ci penseranno gli eventi a dissuaderli. Se Lucie ritiene che ridurre la propria presenza in casa al solo dormire possa cancellare la sua ostilità per il ruolo assunto da Samir nella vita della madre dovrà accettare una realtà ben diversa. Perché Farhadi ci ricorda che per guardare avanti nelle nostre esistenze è indispensabile prendere atto del passato (remoto o prossimo che sia) evitando di rappresentarlo a noi stessi grazie a rimozioni che rendano più accettabile il peso. Il vetro che separa (e forse protegge) Ahmad e Marie all’aeroporto è presto destinato ad andare in pezzi. Saranno lo sguardo ribelle del piccolo Fouad (figlio di Samir) e quello solo apparentemente rassegnato della coetanea Léa a provocare le prime crepe. Perché i bambini, come al cinema ci ha insegnato Vittorio De Sica, ci guardano e ci giudicano. Anche quando sembrano pensare alla catena saltata di una bicicletta o a un elicottero telecomandato finito su un albero in giardino.
Il cadavere di Varlam Aravidze – borgomastro di una grossa città georgiana che ha appena avuto funerali solenni – è disseppellito tre volte. L’autrice del macabro misfatto è una donna la cui famiglia è stata vittima delle sue angherie. Al processo si ricostruisce la storia del despota Varlam: ha baffetti alla Hitler, i gesti e il balcone di Mussolini, gli occhialetti di Beria, l’ardore di Somoza, la cordialità minacciosa di Stalin. Per rievocare gli anni di piombo dello stalinismo T. Abuladze pratica la mescolanza dei generi con un omaggio a Chaplin e rimandi a Buñuel. È un grottesco poema satirico che osa paragonare la dittatura staliniana a quella hitleriana con un accostamento che a molta parte della sinistra occidentale ripugnava allora e oggi ripugna ancora (un po’ meno). Ideato alla fine dell’epoca di Breznev, realizzato nel 1984 sotto Andropov e Cernenko, uscì soltanto alla fine del 1986 sotto Gorbaciov: 12 milioni di spettatori nell’URSS, premio speciale della giuria di Cannes, notorietà internazionale per il georgiano Abuladze di cui fu purtroppo l’ultimo film. In quegli anni “Varlam” divenne in Russia sinonimo di tiranno. Memorabile, nel registro drammatico, la sequenza del deposito dei tronchi arrivati dalla Siberia sui quali si cercano i nomi dei deportati nei campi di lavoro. Come epigrafe gli si addice un’amara frase di S.M. Ejzenštejn: “Nella vita la giustizia trionfa sempre, ma spesso la vita è troppo corta”.
Giovane violoncellista rimasto senza lavoro torna con la moglie nella città natia, nella casa della sua infanzia. Accetta un posto di cerimoniere funebre: lavare, vestire, truccare e sistemare i defunti nella bara. Inizi difficili, esperienze traumatiche, il disagio di non rivelare alla moglie il mestiere che fa per permetterle di continuare gli studi. Ma grazie al vecchio istruttore impara l’antica dignità del suo compito, una migliore conoscenza di sé stesso, l’occasione di rappacificarsi con il passato, il conforto ai parenti dei morti, la capacità di convivere con il dolore. Film dolente e intenso nella sua analisi, particolarmente significativo per gli spettatori che in Occidente vivono in una cultura incline all’inutile rimozione della morte, spesso incapaci di darle il rispetto e l’onore che merita. Ha il suo culmine emotivo nella morte del padre, che aveva abbandonato il protagonista bambino. La commozione è sempre controllata, sublimata negli intermezzi musicali al violoncello. Fotografia: Takeshi Hanada. Musiche: Joe Hisaishi. Oscar 2008 per il miglior film straniero.
Dal romanzo (1963) di Jim Thompson The Grifters, vocabolo di gergo che sta per “imbroglioni”. Sono grifters Lily (Huston) che scommette, per conto di un racket di Baltimora, su cavalli in corse truccate; suo figlio Roy (Cusack) che fa piccole truffe sul principio del “mordi e fuggi”; la sua risoluta e immorale amica Myra (Bening), dedita a colpi grossi per i quali ha bisogno di complici. Atroce favola sulla potenza del Denaro e del Male, irridente parabola sarcastica sul rovescio del “sogno americano” di successo e ricchezza: scrittura asciutta, sottigliezza ironica e 3 ottimi interpreti tra i quali spicca per dolorosa e affannata intensità A. Huston. Parca e suggestiva colonna musicale di Elmer Bernstein.
Andrew, un autore di gialli, decide di far pagare cara al rivale la relazione con sua moglie: è disposto a farsi derubare purché l’uomo si tiri in disparte. Senonché, al momento del furto, Andrew spara al rivale, ma questi non muore, e qualche giorno dopo si presenta allo scrittore per vendicarsi.
Oltre a combattere contro la malavita, il commissario Bertone deve combattere una organizzazione clandestina di “cittadini onesti” che ammazza numerosi criminali o presunti tali.
Dal romanzo (1952) di Howard Fast: nel 73 a.C. il gladiatore trace Spartaco promuove una rivolta di schiavi contro il governo di Roma, sconfigge una legione e si dirige verso il sud. È sconfitto dall’armata di Crasso che fa crocifiggere seimila schiavi sulla via Appia. Come film di S. Kubrick è un ibrido: troppe paternità (lo sceneggiatore Dalton Trumbo e soprattutto il produttore-attore K. Douglas che in un primo tempo aveva ingaggiato il regista Anthony Mann) e una certa eterogeneità stilistica. È poco kubrickiano il richiamo a una nozione di progresso di cui la vicenda del “primo rivoluzionario della storia” è simbolica portatrice. Gli appartiene per le scene di battaglia e di violenza (cui collaborò il grafico Saul Bass), la mescolanza di ragione e passione nei personaggi principali, la splendida direzione degli attori tra cui spiccano L. Olivier e C. Laughton. È, comunque, il migliore – e il più adulto – dei colossi storici di Hollywood. Ridistribuito nel 1991 in un’edizione restaurata con l’aggiunta di una quindicina di minuti. 4 Oscar: fotografia (Technirama 70) di Russell Matty, Ustinov attore non protagonista, scene e costumi.
A un’americana che vive a Parigi, assassinano il marito. È tampinata da 3 loschi tipi e da un agente della CIA che vogliono sapere dove il marito abbia nascosto una ingente somma e un affascinante compatriota le viene in aiuto. In altalena tra la commedia romantica nera e la farsa macabra, uno scintillante thriller alla maniera di Hitchcock, ma senza risvolti metafisici, garbato, sorridente, piacevole, elegantissimo. Scritto da Peter Stone: la prima e la migliore delle sue sceneggiature. Musiche garbate di Henry Mancini.
A Manhattan (ricostruita in studio a Pinewood, GB) alla fine del ‘900, la quieta vita di una giovane e agiata coppia – un medico e una gallerista con una bambina – entra in crisi quando cominciano a incrociarsi desideri, fantasie sessuali, adulteri sognati o mancati. L’epilogo è pragmatico, non consolatorio. Pur nella sua sostanziale fedeltà, il 13° e ultimo film di Kubrick, sceneggiato con Frederic Raphael, reinventa il romanzo breve Traumnovelle ( Doppio sogno , 1926) di A. Schnitzler. Opera imperfetta, un po’ ripetitiva e incompiuta (nel montaggio) che a livello stilistico rifiuta ogni pathos, è leggibile in chiave ironica, psicanalitica, politica, persino filosofica come suggerisce il titolo: per vedere meglio – per accedere a un'”altra” visione – bisogna tenere gli occhi ben chiusi. Fondato sul numero 2 (la coppia, lo specchio, il doppio, ecc.), è un film che trasuda denaro nella sua impietosa descrizione dei rapporti di classe, di censo, di potere, soprattutto sui poveri e sulle donne e sui loro corpi. È forse il film più politico di Kubrick, sostenuto da quel moralismo laico, materialista, settecentesco che l’ha sempre guidato nell’esplorare territori di una frontiera “che separa, ma per ciò stesso, connette” (U. Curi). Qui la frontiera è tra realtà e sogno nel senso che la vita è strutturalmente anche sogno, non contenuto ma forma della Traumnovelle .
Il piccolo Hugo Cabret vive nascosto nella stazione di Paris Montparnasse. Rimasto orfano, si occupa di far funzionare i tanti orologi della stazione e coltiva il sogno di aggiustare l’uomo meccanico che conserva nel suo nascondiglio e che rappresenta tutto ciò che gli è rimasto del padre. Per farlo, sottrae gli attrezzi di cui ha bisogno dal chiosco del giocattolaio, un uomo triste e burbero, ma viene colto in flagrante dal vecchio e derubato del prezioso taccuino di suo padre con i disegni dell’automa. Riavere quel taccuino è per Hugo una questione vitale.
Howard è un commentatore televisivo con un larghissimo seguito. Il suo indice di gradimento però scende e i capi decidono di licenziarlo. Howard allora dichiara davanti alle telecamere che si ucciderà. Da quel momento ha un successo strepitoso (specie da quando, credendosi direttamente in contatto con Dio, diventa una sorta di profeta trascinatore).Quando il suo indice riprende a scendere, Howard viene ucciso nello studio da un terrorista nero (tutto è organizzato, naturalmente). Nelle pieghe dell’intreccio si muovono i tradizionali personaggi di una grande organizzazione: l’amministratore arrivista, la “creativa” fanatica (fa l’amore bisbigliando indici di gradimento) e il direttore di buon senso. Il tutto in un’atmosfera supernevrotica. Il film ha preso lo spunto da un fatto vero: una donna si era suicidata davanti alla telecamera prima che i tecnici potessero fermarla. Peter Finch e Faye Dunaway hanno ottenuto l’Oscar nel 1977.
Un uomo approda alla stazione di Helsinki. La sera stessa viene derubato e ferocemente picchiato. Scappato dall’ospedale dove lo davano ormai per morto scopre di aver perso la memoria. Sperduto in una realtà che non conosce e privo di qualunque punto di riferimento (non ricorda nemmeno il proprio nome), l’uomo sembrerebbe destinato al peggio. Ma l’incontro con una famiglia di marginali e in seguito con Irma, sfiorita rappresentante dell’Esercito della Salvezza, gli permetterà – con tutte le lentezze e le esitazioni del caso – di rifarsi una vita e trovare addirittura l’amore. L’uomo senza passato consacra definitivamente Kaurismaki tra i grandi. Seconda parte dell’ideale trilogia dedicata alla Finlandia, riprende tutti gli stilemi cari al regista finlandese, dall’osservazione del degrado sociale al lunare umorismo. Ma li approfondisce alla luce di una commozione partecipata alla vita dei propri protagonisti. Per un messaggio – la dignità come diritto inalienabile, la seconda occasione che si offre a chiunque abbia il coraggio di afferrarla – perfettamente condivisibile. Finalmente un film didattico nel senso migliore del termine. Meritatissimi Gran Premio della Giuria e Palma per la miglior attrice al festival di Cannes.
Il titolo allude alla pianta dell’amarilli (Amaryllis Belladonna) che in Giappone fa sbocciare i suoi fiori rossi (o bianchi) intorno all’equinozio di autunno (23 settembre). 1° film a colori di Ozu che li usa con parsimonia, opponendo le tenui tinte degli interni domestici a chiazze di rosso (attenzione al bollitore!). Ex ufficiale di Marina, Mikani è un padre così autoritario che obbliga la figlia maggiore Fumiko a scappare di casa per andare a vivere con il fidanzato pianista. Si dimostra altrettanto intransigente con Taniguchi che gli chiede il consenso di sposare l’altra figlia Setsuko che, invece, ha l’appoggio della madre e di un’amica, anche lei con gli stessi problemi. Solo gli amici riescono a convincerlo a una riconciliazione. Scritta da Ozu con Kogo Noda e Ton Satomi, autore del romanzo omonimo. L’avvio drammatico della storia si stempera in cadenze più leggere, non prive di ironia anche perché la figura del padre è contraddittoria, incrocio tra tradizionalismo giapponese e influenza liberale occidentale. Ozu conduce il gioco con l’abituale, squisita maestria. Sottotitoli italiani.
Da morto, il 42enne Lester racconta la storia del suo ultimo anno di vita. Infelicemente sposato con Carolyn, prende una cotta per Angela, compagna di scuola di sua figlia Jane, che gli cambia la vita. Fa in tempo a guarire dall’infatuazione quando un ex ufficiale dei Marines, suo nuovo vicino di casa e padre di Ricky, innamorato di Jane, gli rivela la propria latente omosessualità. Da una sapiente sceneggiatura del commediografo Alan Ball e dalla frontale messinscena dell’esordiente S. Mendes, regista teatrale britannico, è uscito un film di grande successo fintamente trasgressivo. Ironico, persino divertente, ma di fondo amaro, espone, esorcizzandoli, il disagio e il vuoto della società contemporanea, infinita contiguità di solitudini. Soltanto i due figli si salvano in questo deserto del disamore. È fin troppo perfetto e furbetto nel far tornare i conti: nei dialoghi, nel disegno di personaggi problematici (la moglie, il suo amante yuppie, il gay represso in divisa, la ninfetta vantona e vergine), nella meccanica narrativa. Tragicommedia double-face : realistica nell’analisi sociologica, ricca di elementi simbolici, sull’orlo del Kitsch (i petali di rosa) a livello di scrittura. Il titolo è il nome di una rosa, ma può alludere alle divagazioni di Ricky sulla bellezza nascosta del mondo. Malfatto doppiaggio italiano. 5 Oscar: film, regia, sceneggiatura originale, K. Spacey, fotografia (Conrad Hall).
Nel 1914 bel tenente incallito dongiovanni scommette con i colleghi che riuscirà a sedurre una signora divorziata. Finisce per innamorarsene. È l’unico film d’amore di Clair: comincia come un vaudeville, finisce in dramma. C’è una squisita finezza che nasconde una vena di dolore autentico. La Morgan è il più bel personaggio femminile della carriera di Clair. Più vicina a Musset che a Feydeau, e Philipe è in gran forma.
Edit 7/2/24: sostituito tvrip con ottimo dvdrip in italiano
Nella campagna assolata della Catalogna, la famiglia Solé vive e coltiva da decenni un vasto frutteto che gli era stato offerto dopo la guerra civile dai proprietari, i Pinyol. Un gesto d’onore a ricompensa di un aiuto cruciale, ma mai siglato con documenti ufficiali. I Solé si ritrovano perciò impotenti quando furgoni carichi di pannelli solari arrivano sui terreni, pronti a riconvertire il frutteto ed eliminare l’unica attività che la famiglia abbia conosciuto.
i sub ita nella versione in lingua originale sono stati tradotti da google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
23 giugno 2018. Dodici ragazzi di una squadra di calcio restano intrappolati assieme al loro allenatore nella grotta thailandese di Tham Luang, che è stata allagata dall’arrivo dalle piogge monsoniche durante la loro visita. Per cercare di salvarli, vengono mobilitati i Navy Seals locali, oltre diecimila volontari provenienti da tutto il mondo e un team di esperti sommozzatori di cui fanno parte Richard Stanton e John Volanthen.
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