Estate del 1943. Il 25 luglio Mussolini viene arrestato e l’8 settembre l’Italia firma quell’armistizio separato con gli angloamericani che condurrà al caos. L’esercito non sa più chi è il nemico e chi l’alleato. Il dramma si trasforma in tragedia per i soldati abbandonati a se stessi nei teatri di guerra ma anche e soprattutto per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, che si trovano ad affrontare un nuovo nemico: i partigiani di Tito che avanzano in quelle terre, spinti da una furia anti-italiana. In questo drammatico contesto storico, avrà risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, laureanda all’Università di Padova, barbaramente violentata e uccisa dai partigiani titini avendo la sola colpa di essere Italiana e figlia di un dirigente locale del partito fascista.
Un esordiente nel cinema, Liev Schreiber, mette in schermo un esordiente della letteratura, Jonathan Safran Foer, un ebreo americano che racconta a sua volta di uno studente americano deciso a trovare in Ucraina la donna che salvò suo nonno dalla furia nazista. Jonathan Safran Foer è anche il nome del suo personaggio che compiendo un viaggio nella memoria ricostruisce la vita del villaggio di Trachimbord, uno dei numerosissimi shtetl bruciati e dimenticati durante la Seconda Guerra Mondiale. Un luogo che ha smesso per sempre di essere geografico sopravvivendo soltanto nell’anima di coloro che ne hanno pazientemente raccolto e conservato, fino a collezionarle, le tracce. Il viaggio di Jonathan si avvia da una fotografia del nonno ritratto accanto ad Augustine, ad accompagnare la sua ricerca sarà un altro nipote, Alexander Perchov, voce narrante del film, e un altro nonno che scopriremo “sopravvissuto” ed ebreo. Il nonno di Alex, per gli amici, è un brusco uomo di Odessa che ha cancellato la sua “ebraicità” fino a trasformarla in rabbioso antisemitismo. La sua cecità, marcata da scuri occhiali da sole e accompagnata da una cagnetta guida “psicopatica”, è finta, simulata quanto la vita che disperatamente ha cercato di (soprav)-vivere lontano da Trachimbord. Molto prima della fine del viaggio, Joanathan e Alex scopriranno di vivere la stessa vita accreditata proprio dagli oggetti appartenuti ai loro cari. Un’opera prima illuminante e illuminata come “ogni cosa” nel titolo che lavora sui registri del tragico e del comico, rivelando del primo l’universalità e del secondo il tempo e i modi della cultura, nel caso specifico quella yiddish. Eppure il pubblico in sala, almeno quello cosiddetto specializzato, non ne ha colto l’umorismo. Forse perché, come sosteneva Umberto Eco, per il comico bisogna essere più colti.
Nevrosi dell’ebreo Nazerman, unico superstite di una famiglia polacca sterminata nei lager nazisti, che fa l’usuraio nel quartiere di Harlem a New York per conto di un pappone. Compresso tra un’intensa ricerca psicologica e il groviglio delle tematiche sull’ebraismo, il film ha i suoi momenti migliori nella descrizione dal vero del ghetto nero e in una incisiva interpretazione di Steiger. Fotografia in bianconero del grande Boris Kaufman e musiche di Quincy Jones. Da un romanzo di Edward Lewis Wallant, sceneggiato da David Friedkin e Morton Fine.
Leopold Socha, ispettore fognario nella Leopoli occupata del ’43, ha una moglie e una bambina a cui garantire un piatto caldo e un futuro. Scaltro e intraprendente, ruba nelle case dei ricchi e non ha scrupoli con quelle degli ebrei, costretti nel ghetto e poi falciati dalla follia omicida dei nazisti. Avvicinato da un vecchio compagno di cella, l’ufficiale ucraino Bortnik, gli viene promessa una lauta ricompensa se troverà e denuncerà alla Gestapo gli ebrei sfuggiti ai rastrellamenti. Nascosti undici di loro in un settore angusto delle fognature, in cambio di cibo e silenzio, Leopold ricava profitto e benessere. Un benessere vile come la sua condotta. Ma il tempo della guerra e della sopraffazione, ammorbidisce il suo cuore e lo mette al servizio del prossimo. Tra aguzzini famelici, perlustrazioni, fame, buio, bombardamenti e alluvioni, Leopold riuscirà a salvare uomini, donne e bambine conducendoli fuori dalle tenebre verso la luce. Con In Darkness il cinema torna a occuparsi della Shoah e della drammatica esperienza dei sopravvissuti, testimoni che si sono misurati con il male assoluto e la cui memoria riempie un vuoto privato e collettivo. Ma più diffusamente, il film di Agnieszka Holland indaga il comportamento umano in situazioni limite, affrontando la più grande tragedia del Novecento e richiamando insieme quelle successive, che si sono consumate nell’oblio e nelle derive della noncuranza. Sprofondando letteralmente personaggi e spettatori nelle tenebre, la regista polacca produce un cinema che mentre rievoca la Storia si pone in lotta contro il torpore del presente. In un buio lungo centoquaranta minuti Leopold Socha è la luce che rischiara, il protagonista di una vicenda eccezionale (e reale) connessa alle scelte di chi si sente parte della Storia avvertendo la necessità di rigettarne gli orrori. Privilegiando la prospettiva sull’individuo, la Holland realizza un racconto esistenziale e una battaglia tenace contro la cecità, descrivendo le tappe e i passaggi di una presa di coscienza individuale dentro un tempo segnato da sentimenti di insicurezza e da uno stato di pericolo permanente. In Darkness, trasposizione del romanzo “Nelle fogne di Lvov” di Robert Marshall, è dedicato a Marek Edelman, vice comandante della rivolta del ghetto di Varsavia e leader del Bund, il movimento operaio ebraico che lottava per l’autonomia culturale. Oscurato e incarnato, il film osserva l’umanità brancolare in un nero profondo dove le energie migliori sono destinate a lottare contro la fame e la miseria. Quella materiale e quella spirituale. Ambientato quasi interamente in una città sotterranea, In Darkness trova il suo contrappunto nello spazio urbano emergente e in cui emerge Leopold, traghettatore e corriere sospeso tra il mondo di sotto e quello di sopra, dove giorno dopo giorno la macchina di distruzione perfeziona la sua intenzione. Le fognature di Leopoli esemplificano i percorsi di una ricerca di liberazione, i vicoli ciechi dell’autodistruzione, i bivi della perdizione, un labirinto in cui non è facile fiutare tracce di salvezza. L’underground narrato dalla Holland assume un valore universale e la dimensione di una parabola, per nulla buonista, in cui un uomo si consegna alla propria rinascita affrontando il rischio della morte. L’autrice restituisce con sensibilità e nessun sentimentalismo l’ambivalenza della doppia logica alla quale l’occupazione nazista ha condannato il protagonista, appeso tra una tormentata ribellione e una speranza di redenzione, indeciso se diventare custode di vita o pedina decisiva della mostruosità del potere. Ma Leopold Socha non si sottrae, diventando simbolo di una possibilità, invertendo la direzione degli eventi, facendosi ‘giusto’ tra i giusti. Agnieszka Holland col suo film compie un atto memoriale che non dimentica che la Storia è in primo luogo quello che gli uomini hanno fatto.
A pochi giorni dalla festa per i 45 anni di matrimonio, Geoff riceve la notizia che è stato ritrovato il corpo della sua prima fidanzata, data per dispersa durante un’escursione in montagna negli anni ’60. Il corpo è rimasto congelato per oltre 40 anni ed è quindi intatto. Kate è molto turbata dal fatto e dalla reazione del marito e si mette a indagare sul suo passato. 2 straordinarie interpretazioni – premiate con l’Orso d’Argento a Berlino dove il film è stato accolto trionfalmente – per una storia d’amore della terza età intensa e profonda: Haigh descrive la vita tranquilla di una coppia, senza figli, con un cane, senza cadere mai nei luoghi comuni della relazione di un uomo e una donna che vivono in campagna con affetto, intimità, con solidale comunione dei beni e degli interessi. Poi svolta quasi nel thriller di indagine (dei fatti e dei sentimenti) con lo stesso sguardo delicato e leggero, tenendo sullo sfondo, ma presenti, anche nella bella colonna musicale, gli anni ’50/’60 di Geoff, i ’60/’70 di Kate.
L’intellligenza deduttiva del più noto investigatore della letteratura, Sherlock Holmes, si misura contro criminali geniali e terribili, e insieme al suo fedele assistente Watson deve affrontare intricatissimi casi ambientati nella misteriosa Londra di fine ‘800. La migliore trasposizione cinematografica è certamente la serie prodotta dalla 20th Century Fox, poi proseguita dalla Universal, in cui l’acume investigativo di Holems ha il volto dell’attore inglese Basil Rathbone, accompagnato dall’amico Watson che qui ha il volto di Nigel Bruce. Tratti dai romanzi più celebri di Sir Arthur Conan Doyle i 14 film presentati in questo imperdibile box da collezione rappresentano l’intera serie dedicata a Sherlock Holmes.
In una Taipei tormentata da piogge torrenziali vive Yuji, uno yakuza fuggito misteriosamente dal Giappone che svolge il ruolo di sicario per un boss locale. Nella vita dell’uomo irrompe un giorno la figura del figlio muto Cheng, di cui Yuji ignorava l’esistenza: dopo la fuga della madre sarà lui a doversene prendere cura. L’uomo in realtà sembra disinteressarsi del bambino, che segue il padre ovunque vada, dormendo per strada e cibandosi dai bidoni dell’immondizia. Ai due si unisce infine Lily, una prostituta in crisi. I tre formano per qualche tempo una famiglia felice, finché i compagni e il fratello di una delle vittime li rintracciano per vendicarsi.
La famiglia Katakuri è vittima della malasorte: la loro locanda non attira alcun cliente. La colpa è probabilmente dell’ambiente circostante, molto trascurato. Quando i clienti arrivano la situazione non migliora considerando che i malcapitati finiscono per soccombere nei modi più strani. Il primo cliente si suicida in preda ad una visione mistica, un campione di sumo muore durante un amplesso amoroso, un ufficiale della marina viene ucciso in seguito ad una lite. È il momento giusto per l’eruzione del vulcano a cui, forse, farà seguito una nuova era piena di speranza e felicità.
Erano anni che Takashi Miike lavorava al suo jidai geki – equivalente nipponico del genere “cappa e spada”, sovente ambientato nel periodo Tokugawa – con una cura maniacale per il dettaglio che ben conosce chi ama l’autore di Gozu. Quando Miike decide di indossare i panni “seri” (evento che capita assai di rado, visto che ogni anno gira un paio di eccessi camp, horror oppure trasposizioni di manga), per di più cimentandosi con il remake di un maestro – ieri Graveyard of Honor di Fukasaku Kinji, oggi Thirteen Assassins di Eiichi Kudo (1963) – l’iconoclasta della macchina da presa diviene modernizzatore, con immenso rispetto, della tradizione; e il capolavoro è nell’aria. Ogni inquadratura di 13 Assassins sembra il frutto di un lungo e meticoloso lavoro di ricerca del frame perfetto: dolly quando è il caso di utilizzarli, primi piani e controcampi fluidi e mai gratuiti, scene corali coreografate all’esatto punto di incontro tra la tradizione jidai geki e il western di Peckinpah. Con aggiunta di un dinamismo tutto contemporaneo, che emerge prepotentemente nelle gesta dell’assassino “scemo” o nella sequenza in cui il virtuoso dei ronin utilizza una dozzina di katana per sconfiggere gli uomini dell’empio Naritsugu; proprio il villain incarna la summa del Male secondo il Takashi Miike-pensiero, perversa macchina sadomasochista di distruzione (come in una riedizione del Kakihara di Ichi the Killer) che in fondo anela ad affrontare e poi abbracciare l’estremo dolore della morte. L’assurda carneficina di innocenti causata dalle manie di Naritsugu non può che preludere al tramonto di una società basata sul rispetto cieco delle gerarchie e del diritto di nascita, introducendo il Giappone all’età moderna. Nella parte dello ieratico leader degli assassini, invece, un Koji Yakusho per cui gli aggettivi da sprecare sono esauriti. In totale, un Miike come non se ne vedevano da tempo e forse come non si sperava di vederne più.
Mouchette è un’adolescente che vive in un paesino della Provenza in una situazione decisamente disagiata. Il padre e il fratello maggiore fanno attività di contrabbando mentre lei, oltre a frequentare la scuola dove viene maltrattata dall’insegnante di canto, deve occuparsi della madre gravemente ammalata e del fratellino nato da poco. Dinanzi a lei si apre solo un piccolo spiraglio di speranza nel poco tempo trascorso al Luna Park ma ripiomberà nel dolore quando incontrerà un cacciatore di frodo sofferente di epilessia che si rivelerà decisamente infido. Girato subito dopo Au hasard Balthazar questo film ne rappresenta in qualche misura l’ideale prosecuzione. In questa occasione l’ispirazione è strettamente letteraria. Bresson infatti adatta per lo schermo (sarebbe meglio dire fa suo) il romanzo di Bernanos “Nouvelle histoire de Mouchette”. I due autori sono entrambi di matrice cattolica ma questa è uno dei pochi elementi che li uniscono. Bresson aveva già realizzato un film ispirandosi a un romanzo dello scrittore (Diario di un curato di campagna) ma non ne condivideva né gusti né ideali affermando però: “Siamo ambedue cristiani, questo è già una comunione di interessi, un affinità elettiva. Ma ciò che mi attrae maggiormente in Bernanos è l’assoluta mancanza, nei suoi romanzi, di psicologismo letterario. Il cinema non deve infatti, secondo me, esprimersi con le parole ma deve trapelare attraverso le immagini. Ci sono poi, in Bernanos, certe ottiche, certe prospettive, per quel che riguarda il soprannaturale, che sono sublimi”. In Mouchette Bresson trova un personaggio che conferma la sua visione del mondo e sul quale può intervenire allontanandosi dalla struttura narrativa di Bernanos, che interviene spesso commentando quanto accade alla protagonista, per dedicarsi invece totalmente a mostrare i fatti. Incorniciando però l’intera fase della vicenda terrena di Mouchette all’interno di una prospettiva di morte. Come i volatili presi in trappola dai bracconieri all’inizio del film così la ragazzina è intrappolata in un’esistenza di fatta di deprivazione e come per le lepri nelle immagini che precedono il finale, il suo breve percorso esistenziale si indirizza verso un esito tragico. C’è un legame profondo tra Baltazhar e Mouchette ma anche tra lei e la Marie di quel film. Con in aggiunta, se possibile, una maggiore sfiducia nei confronti del contesto sociale in cui nessuno è capace di uscire da se stesso per incontrare davvero l’altro se non per ‘farne uso’ con le finalità più diverse. Anche chi offre qualcosa di gratuito finisce poi con il giudicare e condannare, prima in silenzio e poi ad alta voce. Nessuno si salva, neppure i più giovani. Se nel romanzo i due ragazzini che dileggiavano Mouchette ogni volta che la vedevano passare tacciono dopo che hanno saputo di un fatto grave che le è accaduto, in Bresson continuano nella loro derisione. Dove sta allora la dimensione cristiana del regista? Forse la si può condensare in questa sua dichiarazione: “La morte la vedo non come fine ma come principio, l’inizio di una nuova vita nella quale si potrà trovare la rivelazione di quell’amore sulla Terra appena intravisto. E a questo punto subentra il concetto di Dio”.
Tornano i maghi dell’harrypotteriana penna di J.K. Rowling, che qui esordisce alla sceneggiatura mettendo mano al suo libro (2001, profitti in beneficenza) sulla storia di un testo scolastico adottato nella scuola di magia di Hogwarts, scritto da Newt Scamander, allievo di Albus Silente. Dove sono questi meravigliosi, buffi e assurdi animali fantastici? Molti sono nascosti nella valigia di Newt, “magizoologo” inglese che, dopo un viaggio intorno al globo, approda nella New York del 1926. Ma in America l’atmosfera è tesa, si stanno verificando oscuri episodi e le cose vanno male per i maghi, non accettati dalle autorità No-Mag (nome USA dei babbani). I maghi sono soggetti al severo controllo del MACUSA, l’organo di governo americano del mondo dei maghi, che si assicura che i 2 mondi non collidano mai. Ma la guerra sembra inevitabile. Dopo la regia di 4 storie di Harry Potter, Yates dirige il 1° giocoso film della nuova saga (che a quanto pare sarà di 5 capitoli). Personaggi sfavillanti, sceneggiatura immaginosa, trovate visive deliziose, spiritose e surreali, trucco e parrucche, costumi (premiati con l’Oscar), scenografie, musiche, effetti speciali: tutto è al massimo livello. 3D (una volta tanto) clamoroso e coinvolgente.
Thomas Wake è il guardiano stagionale di un faro sperduto nel nulla, su un’isola battuta da venti e tempeste, nella Nuova Scozia di fine Ottocento, mentre Ephraim Winslow è il suo giovane aiutante, propostosi volontario per le quattro settimane del turno. L’accanirsi del maltempo costringerà i due uomini ad una permanenza ben più lunga del previsto e ad una convivenza forzata che porterà in superficie demoni personali, timori ancestrali e nuove, tormentate pulsioni, in un crescendo di follia e claustrofobia.
Decalogo (Dekalog) è una serie di 10 mediometraggi prodotti dal 1988 al 1989 e diretti da Krzysztof Kieślowski. Ogni episodio, di circa 55 minuti, è indipendente dagli altri e racconta una storia di vita quotidiana ispirata, talora vagamente, talora in modo più esplicito, a uno dei dieci comandamenti biblici.
Julien e Esther s’incontrano in una camera d’hotel tappezzata di azzurro, per amarsi appassionatamente e scambiare qualche parola dopo l’amplesso. Un dialogo senza impegno, o almeno così crede Julien. Di fronte alle domande del commissario di polizia, però, non ne è più sicuro. Arrestato per l’omicidio del marito di Delphine, che forse non ha mai commesso, Julien scopre che ricordare può essere un’azione complessa, che le immagini affiorano prepotenti, si accavallano, si ripetono e possono farsi rapidamente materia di ossessione.
Un film di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne. Con Jérémie Renier, Arta Dobroshi, Fabrizio Rongione, Alban Ukaj, Morgan Marinne. Titolo originale Le silence de Lorna. Drammatico, durata 105 min. – Belgio, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania 2008. – Lucky Red uscita venerdì 19settembre 2008. MYMONETRO Il matrimonio di Lorna valutazione media: 3,50 su 50 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Lorna è una giovane immigrata albanese a Liegi. Per ottenere la cittadinanza si è messa nelle mani del malavitoso Fabio. Costui le ha procurato un matrimonio con Claudy (un tossicodipendente) e Lorna ha ottenuto ciò che desiderava. Ora vorrebbe poter aprire un bar con il suo fidanzato Sokol che fa il pendolare da una frontiera all’altra. Per ottenere la somma necessaria deve però portare a compimento il piano di Fabio. Deve cioè poter ottenere un rapido divorzio per poter così sposarsi nuovamente. Questa volta con un mafioso russo che ha, a sua volta, bisogno della cittadinanza belga. Le procedure rischiano però di essere troppo lente e allora Fabio mette in atto la soluzione che già aveva in mente: elimina Claudy con un’overdose. Lorna mantiene il silenzio ma c’è qualcosa di nuovo nella sua vita. Qualcosa è cambiato anche nel cinema dei Dardenne. Noti agli appassionati (e vincitori di ben due Palme d’oro con Rosetta e L’enfant) per il rigore di un cinema da sempre attento a scavare nelle cause del dolore delle persone più vulnerabili, i due fratelli vantano caratteristiche stilistiche ben definite. La camera a mano, la scelta del super 16 mm, l’assenza di qualsiasi commento musicale hanno sempre costituito gli elementi identificativi del loro cinema unitariamente a uno stile teso a non aggiungere al film un’inquadratura in più del necessario. In questa occasione la forma (camera molto meno mobile e scelta del formato 35 mm) sembra avere avuto il suo influsso anche sul contenuto. Lo sguardo che i due fratelli belgi proiettano sul grave problema dell’immigrazione, legalizzata attraverso percorsi illegali, si lascia andare con maggiore disponibilità a un’indagine sui sentimenti venata da un accenno di patetismo. Lorna ha un volto dolcissimo ma è entrata in un’arena in cui dominano i lupi. Se vuole realizzare i propri sogni non può e non deve affezionarsi in alcun modo a Claudy con il quale è costretta a convivere per rispondere ad eventuali controlli delle autorità belghe. Ma Lorna non è un lupo. È una giovane donna che finisce col provare una pietà che sconfina nell’amore per quel relitto umano che le chiede costantemente aiuto per uscire dal tunnel in cui si è infilato. La scoperta di questo sentimento precede di poco l’eliminazione fisica del ragazzo. Il quale muore ma continua a viverle ‘dentro’ al punto da farla sentire in attesa di una nuova vita. Come sempre i Dardenne offrono nel finale ai loro protagonisti una luce (per quanto fioca) di speranza. È quanto accade anche a Lorna, protagonista dell’inizio di un nuovo corso del loro cinema.
Nella regione di Chalon-sur-Saône (Francia centrale, a nord di Lione) nel 1944, prima dello sbarco alleato in Normandia, i ferrovieri francesi lottano contro l’invasore tedesco: passaggio della linea di demarcazione per uomini e posta, sabotaggi nelle stazioni di smistamento, deragliamento di un convoglio germanico. 1° dei (pochi) film francesi sulla Resistenza e 1° lungometraggio dell’ex documentarista Clément che avrebbe poi girato altri 5 film sulla seconda guerra mondiale. È una cronaca corale semidocumentaria e celebrativa della lotta antitedesca degli cheminots che sfocia a volte nell’epica, a volte nel dramma. Privo di una vera struttura narrativa e alieno da ogni sfumatura psicologica nel disegno dei personaggi, il film s’iscrive in quella svolta verso il realismo che contrassegnò molte cinematografie, persino quella hollywoodiana, all’indomani della guerra 1939-45. Notevole il contributo della fotografia di Henri Alekan, ma non è trascurabile l’apporto ai dialoghi sobri e funzionali di Colette Audry. Fu girato in circostanze fortunose con veri ferrovieri francesi e con mezzi precari, un po’ come Roma città aperta : il deragliamento del treno, per esempio, è vero, senza trucchi, e fu filmato con 3 macchine da presa. Distribuito in Italia nel 1954.
C’era una volta, nella Cina del decimo secolo, la grande dinastia dei Tang. Nella città imperiale lo sfarzo e la ricchezza si respirano in ogni dove. L’imperatore, l’imperatrice e i loro figli sono serviti e riveriti da uno stuolo di servitori adoranti. Ogni minima azione quotidiana avviene nel rigore e nel rispetto di rituali millenari, nella magnificenza quasi surreale di un mondo estetizzato e dorato. Ma, come in ogni famiglia e favola che si rispettino, il male, il segreto, l’intrigo sono dietro l’angolo. La famiglia imperiale nasconde segreti inconfessabili fino al giorno in cui, durante la festa del Chong Yang, la festa dei crisantemi legata alla famiglia e alla sua solidità, ogni minimo intreccio verrà disvelato.
Uno dei migliori lavori di John Woo con citazioni da La magnifica illusione e Duello al sole. Il killer del titolo durante una sparatoria acceca per sbaglio una ragazza. Decide di rimediare all’errore proteggendola, all’insaputa di lei.
Broken Blossoms è il più complicato tra tutti i film di Griffith; anzi, probabilmente è il film americano muto dalla maggiore complessità di disegno in assoluto. La complessità formale non è una virtù in sé, naturalmente. Ma le perfezioni formali di Broken Blossoms si conformano in modo ideale alle esigenze narrative di Griffith. Roger Shattuck, parlando di pittura moderna, associa il piacere che deriva dall’osservazione della pittura astratta alle proiezioni personali sulle forme non rappresentative della realtà. I piaceri che ci derivano da Broken Blossoms sono del genere opposto: in esso, possiamo andare oltre la descrizione griffithiana di un mondo naturale per trovare una bellezza formale nascosta.Innanzitutto dobbiamo considerare i rischi che Griffith si assunse con questa nuova storia. E non mi riferisco alle incognite del box-office – anche se, nel 1919, chiedere 3 dollari a biglietto per un film a basso costo di 6 rulli richiedeva una discreta dose di temerarietà. Ma l’aspetto più straordinario riguarda la volontà di Griffith di inoltrarsi in un terreno inesplorato e psicologicamente rischioso. In Broken Blossoms, Griffith abbassa la guardia. Attività ovviamente tabù o aspramente criticate in The Birth of a Nation e Intolerance – incrocio di razze, autoerotismo, voyeurismo, masticatura d’oppio e omicidio per vendetta – vengono trasformate in attività sensoriali gratificanti che creano pericolose risonanze di anticonformismo. Gli scarsi riferimenti del film alla cultura postbellica dell’America del 1919, lungi dall’assecondare la rampante xenofobia nazionale o il diffuso sentimento di autocompiacimento, riguardano il lato più oscuro del provincialismo americano. Per la prima volta nell’opera di Griffith, il fanatismo razzista diventa bersaglio di aspre critiche. Né appaiono meno straordinarie le fugaci allusioni del film agli operai delle fabbriche di munizioni, ai marinai americani e alla prima guerra mondiale, che, in contrasto col consueto idealismo utopistico di Griffith, descrivono una società triste e autodistruttiva guidata dalla violenza e dall’ignoranza.Questo piccolo film, girato in 18 giorni e con un modesto budget di 92.000 dollari, era stato pensato come un programmer di routine e quando Griffith avanzò la proposta di distribuirlo a sé, e a prezzi speciali, Adolph Zukor gli oppose un netto rifiuto, a quanto pare dicendogli: “Mi presenti un film come questo e pretendi anche di guadagnarci? Ma se muoiono tutti!”. Infine, su insistenza dei suoi principali consulenti finanziari, Griffith ricomprò il film e lo fece distribuire nel circuito di sale di Klaw ed Erlanger organizzandogli una elegante tournée. Fu un successo clamoroso. Poi il film raggiunse le normali sale di programmazione, come prima distribuzione della nuova United Artists Corporation. Sfruttando la scia della sontuosa campagna pubblicitaria orchestrata da Griffith, Broken Blossoms divenne uno dei tre maggiori successi commerciali della United Artists. Ancora oggi, Broken Blossoms continua a ricevere una notevole attenzione critica; e negli ultimi 10 anni ha ricevuto un numero di contributi probabilmente superiore a quelli dedicati a Intolerance e a The Birth of a Nation. Stimolanti disamine che hanno riguardato la narrazione o le poco ortodosse strategie di commercializzazione e presentazione adottate da Griffith, le relazioni tra il film e gli stereotipi anti-asiatici contemporanei, la sua promozione come film d’arte e la sua rappresentazione della struttura di classe, tutte con risultati di notevole interesse.Ma il film è interessante anche per le sue modalità di racconto. Al contrario dei suoi sovraccarichi e prolissi predecessori, The Birth of a Nation e Intolerance, Broken Blossoms è caratterizzato da uno stile narrativo ingannevolmente semplice e lineare solo in apparenza. E forse proprio per questo motivo l’organizzazione interna del suo racconto è stata in genere trascurata. Eppure, questa apparente semplicità rivela una padronanza del mezzo che, per sottigliezza di sfumature, non mi sembra meno affascinante della più vistosa sperimentazione di Intolerance. Broken Blossoms è un film che si contraddistingue soprattutto per la sua straordinaria compressione. La concentrazione di tempo e spazio dà ai personaggi, agli oggetti, alle scenografie un intenso potere metaforico che non viene mai dissipato. Griffith ricorre agli elementi tradizionalmente usati per illustrare gli aspetti deteriori della vita a Limehouse: una fumeria d’oppio, una casa da gioco, un negozio di curiosità, il tugurio dei Burrows. Curiosamente, però, spoglia questi luoghi dei consueti dettagli prosaici e sordidi. La strada desolata in cui vive Cheng Huan è pulita e ben conservata; il porto su cui si affaccia l’appartamento di Lucy è immobile e semideserto. Il contrasto tra i bassifondi della terra d’origine e quelli di luoghi remoti si basa sulla contrapposizione tra vitalità e mancanza di vita piuttosto che sull’abusato stereotipo tra pulizia e sporcizia di Burke (il quale non fa che ricordare al suo lettore i “miasmi mefitici”, le “mani sporche” e il “viscidume che ricopre gli slum” di Limehouse). La fumeria d’oppio è vista letteralmente attraverso un velo romantico (grazie al filtro diffusore usato da Henrik Sartov), e i dettagli esotici (i musicisti, gli strumenti, una mangiatrice d’oppio sdraiata sul divano) sono definiti con grande nitidezza di contorni. Ovviamente, Griffith introduce la mescolanza tra razze come un esempio di turpitudine; e tuttavia nelle sequenze della fumeria d’oppio spira un’aria di ordine classico e di serenità che contrasta con qualsiasi idea di degenerazione. I vicoli dei bassifondi alla Hogarth di film quali Easy Street di Chaplin o Humoresque di Borzage qui lasciano il posto a spazi cittadini vuoti e dall’azione sospesa alla Hopper. I parallelismi che Griffith traccia tra Lucy e l’uomo cinese sono sostanziali, ma in ultima analisi sono più importanti le differenze delle similitudini. Lucy non apprezza né capisce l’amore che Cheng Huan le offre. I piaceri che le derivano dalla sua frequentazione sono quelli di una creatura maltrattata e immatura irresistibilmente attratta dal semplice richiamo delle cose materiali. Per lei, l’appartamento del cinese diventa una sorta di padiglione magico che si fonde coi regali della madre come raffigurazione della bellezza, anche se questa associazione non va mai oltre il suo splendore esotico. Lucy, che non sopporta di essere toccata (il che non sorprende, visto l’uso che fa della frusta il padre) si lascia sfiorare dalla mano di Cheng solo mentre è assorta nella contemplazione delle belle cose che le ha appena regalato (la veste, la guarnizione per capelli orientale che sostituisce i nastri). La bambola, sia letteralmente che figurativamente, diventa la fonte di quella espressione – l’attenzione di Lucy distolta da Cheng Huan verso il suo regalo.La possibilità di una soluzione positiva del loro rapporto viene costantemente prospettata, ma solo per essere sviata immediatamente dopo. L’espressione meravigliata che compare sulla faccia di lei mentre si guarda allo specchio, si tocca le labbra e gli sorride, sembra suggerire che stia scoprendo se stessa, e che tra i due possa nascere una possibilità di contatto. Ma subito dopo lei si limita a carezzargli la guancia come farebbe con un gatto e a chiedergli: “Perché sei così buono con me, cinese?”. Cheng risponde alla sua ingenua domanda con un sorriso, ma la barriera che Griffith eleva contrapponendo l’ignoranza e il pregiudizio della classe inferiore cui appartiene Lucy all’idealismo di alta casta dell’orientale allarga ulteriormente il divario creato dai sogni contrastanti e dalla diversa immagine che i due hanno l’uno dell’altro. In altre parole, il vero motivo che distrugge la loro relazione non è l’intervento di Battling Burrows. L’idillio stesso è basato su illusioni che impediscono ad entrambi gli innamorati di vedere l’altro nella sua luce reale; per questo la loro relazione non ha alcuna possibilità di sviluppo.Da lla nostra prospettiva, è interessante notare come gli sviluppi potenziali della loro relazione, ma anche le sue limitazioni, siano intimamente associati agli oggetti di scena e alle scenografie. La storia d’amore è costruita su continui riferimenti a una molteplicità di oggetti quali bambole, fiori, nastri, incenso e splendidi abiti; ma anche sulle diverse percezioni che di questi oggetti hanno due innamorati chiusi in sogni e aspirazioni individuali che difficilmente possono condividere.Riducendo gradualmente il repertorio degli elementi all’interno della sua mise en scène e riciclandoli in continuazione, Griffith crea un’abile mistificazione attraverso la quale i dettagli scenografici e i gesti appaiono rilevanti solo per la loro reiterazione pur senza avere uno scopo funzionale dimostrabile. Essi alludono ad affinità segrete, a ‘recondite armonie’; ma inducono a comparazioni ingannevoli che non conducono da nessuna parte. Allo stesso tempo, questa rigorosa compressione aiuta Griffith a fermare – o a contenere – la progressione narrativa. I costanti rimandi a questi dettagli, che sono praticamente disseminati e sepolti all’interno di tutto il racconto, ci incoraggiano a leggere il film come un mosaico – portandoci avanti e indietro mentre colleghiamo le nuove tessere con quelle che le hanno precedute pur se la narrazione ci spinge sempre in avanti. In questo contesto, anche la ripetizione delle avance di Cheng Huan verso Lucy appartiene alla profusione di paragoni che legano i tre personaggi e i loro diversi ambienti, ma potrebbe del pari non avere un significato proprio ma tendere unicamente a rafforzare un certo nitore formale. Se la vicenda solleva qualche momentaneo dubbio sull’eroismo di Cheng Huan, questo viene però ristabilito, e allo stesso tempo ridefinito, alla fine del film. Quando gli viene strappata Lucy, Cheng sa cosa deve fare. Dopo un iniziale collasso isterico (dove la sua posizione rannicchiata accanto al letto, mentre si stringe al volto la veste strappata, riecheggia la posizione di Lucy che stringeva la sua bambola nel letto), si alza e prende la sua pistola. Dopo aver perso la creatura amata e idealizzata, Cheng perde anche il suo pacifismo, e sposa la violenza come unica alternativa. Affronta quindi Battling Burrows, in una scena caratterizzata da sottile ironia e dal rovesciamento finale dei ruoli.L’assegnazione delle armi confonde tutte le associazioni convenzionali all’Asia e all’uomo bianco. Nella storia di Burke, Cheng Huan lascia un serpente come fatale “dono d’amore” per il pugile. Nel film di Griffith, l’immagine del serpente viene invece associata alla frusta che Battling Burrows usa per tormentare e percuotere l’indifesa Lucy. L’accetta brandita da Burrows ha perfino un’associazione ancora più diretta con l’Oriente, in quanto arma tradizionalmente usata per le esecuzioni capitali in Cina. La sei colpi di Cheng Huan, al contrario, non solo è un emblema della giustizia violenta dei western, ma è anche la prima arma che si discosti totalmente dalla abusata convenzione cinematografica dell’uomo orientale con accette “alla Fu Manchu”. La fine ricorda l’inizio, con la “giustezza” della decisione del cinese rivista in termini western. Cheng Huan stermina Battling Burrows con un atto di vendetta, e al “messaggio di pace” del Buddha si sostituisce il “la vendetta è mia” del Vecchio Testamento. Dopo la precipitosa serie di perdite, capovolgimenti e separazioni, l’unica soluzione possibile è l’auto-annientamento. Dopo essere sceso al livello di un killer vendicativo di stampo western, Cheng espia con un atto di harakiri di stile asiatico. Confondendo l’usanza cinese con quella giapponese, Griffith conclude il suo film intrecciando sofferenza poetica e misticismo orientale. Ma perfino il richiamo finale alla convenzione western, con il melodrammatico salvataggio all’ultimo minuto – pur amatissimo da Griffith – viene rovesciato e liquidato come irrilevante. La polizia locale, informata dell’assassinio di Burrows, corre alla volta del negozio di Cheng per arrestarlo. Griffith inizia il montaggio alternato tra la corsa della polizia e i preparativi di suicidio del cinese, come se intendesse mettere in scena l’ennesimo intervento salvifico. Ma, concentrandosi sulle attività rituali di Cheng, Griffith perde ogni interesse per l’avanzata dei poliziotti; e costruendo la scena del suicidio in un profluvio di campanelle da preghiera, incenso, candele, fiori, e icone dall’aspetto di bambole, la trasforma nella scena dei sogni frustrati e dell’amore infelice di Cheng. Di conseguenza, i “soccorritori” si riducono al ruolo di intrusi profani, e tutte le nozioni di “salvataggio”, con annesso arresto finale da parte dei poliziotti, vengono fatte apparire ingenue e grossolane. Le autorità, naturalmente, arrivano troppo tardi, e perfino il loro ruolo di spettatori inconsapevoli viene minimizzato. Quando arrivano nel negozio di Cheng Huan, come ha scritto Edward Wagenknecht, “noi li vediamo entrare ma non entriamo con loro” (Edward Wagenknecht e Anthony Slide, The Films of D.W. Griffith, 1975). Per la prima volta nella sua carriera, Griffith salta la scena clou dell’incontro tra gli aspiranti salvatori e il loro obiettivo. Nell’ultima sequenza, Griffith rimette al passo la forza propulsiva della narrazione lineare per completare il suo disegno simmetrico. Quando le autorità entrano nel negozio di Cheng, invece di mostrarci ciò che vedono, Griffith conclude il suo film come l’aveva cominciato: un monaco buddista percuote il gong del tempio e una nave esce dal porto di Shanghai.
Negli Stati Uniti d’inizio anni ’40, Stan, uomo senza averi e dal passato doloroso, si unisce a un luna park ambulante, dove impara i trucchi del mestiere dalla veggente Zeena e da suo marito Pete. Sedotta la giovane Molly, il cui numero consiste nel resistere alle scariche elettriche che le attraversano, parte con lei verso la grande città. Ambizioso e avido, diventa il Grande Stanton, indovino e sensitivo che col suo numero di pseudo occultismo seduce uomini ricchi e potenti e li convince di poter comunicare coi loro morti.
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