Jon è un impiegato che sogna di diventare un musicista, ma fatica a trovare un suo “stile”. La svolta arriva quando ha la fortuna di sostituire il tastierista di una band, gli Soronprfbs, che suona musica sperimentale. I componenti del gruppo sono tipi molto particolari, soprattutto il leader, Frank, musicista di talento che indossa costantemente una maschera di cartapesta. Il personaggio del protagonista è liberamente ispirato al comico inglese Chris Sievey, raccontato nel libro autobiografico di Jon Ronson. Mettendo in contrapposizione Jon e gli altri membri della band, Abrahamson affronta il tema delle fragilità psicologica ed emotiva dell’artista, ma parla anche delle conseguenze del successo, di talenti “maledetti”, di musica rock e social network. Le gag e gli avvenimenti, spesso insensati, di personaggi fuori dall’ordinario ne fanno una piacevole commedia surreale e bizzarra.
Katryn Bolkovac, poliziotta del Nebraska divorziata e con una figlia adolescente affidata al marito, decide di fare richiesta per una missione dell’Onu in Bosnia per poter guadagnare a sufficienza per tentare di ottenere la custodia della ragazza. Siamo nel 1999 e le forze di pace controllano il territorio con l’aiuto di contractors della società britannica Democra. Katryn, dopo poco tempo dal suo arrivo a Sarajevo, scopre un traffico di minorenni dall’Est Europa: Potrebbe trattarsi dell’ennesima e ormai purtroppo ben nota tratta se non venisse progressivamente alla luce una ben più atroce verità.
Dalla commedia The Sleeping Prince (1953) di T. Rattigan: arrivato a Londra nel 1911 per assistere all’incoronazione di Giorgio V, il granduca Carlo di Carpazia vuole compagnia galante per la serata. La trova in una ballerina americana, ma la situazione si complica. Il copione è un po’ moscio, irrimediabilmente coperto di polvere teatrale, ma la messinscena di Olivier è di un accademismo impeccabile e la Monroe, anche produttrice, sfolgora. Domanda: chi delle due star ha più sfruttato l’altra?
Il pigro 20enne David Wozniak dona per anni il suo seme a una banca in cambio di dollari facili. A 40 anni, precario nella macelleria paterna, inaffidabile nelle questioni di cuore, allergico alle responsabilità, ha sostituito lo smercio di sperma con la coltivazione di marijuana. Capita poi che 533 20enni scoprano di avere lo stesso padre e vogliano conoscerlo. È un’abile mistura di volgarità ridotta al minimo, buonismo grossolano, poesia sentimentale e morale conservatrice. Ha avuto un tale successo commerciale che Spielberg ha incaricato il canadese Scott (che l’ha scritto con Martin Petit) di farne un remake americano, Delivery Man (2013). Rifatto anche in Francia con Fonzy (2013).
Il vecchio leone torna a graffiare. Alla faccia dei critici cipigliosi. Ecco l’ennesima prostituta, figura portante di un film. Per narrarci le sue disavventure Ken Russell la fa parlare direttamente con noi, stile Godard o cinema verità. Ne vediamo di belle e di brutte e la protagonista rischia di finire male. Ma c’è un angelo custode di colore che veglia su di lei. Theresa Russell è brava a trasmettere la sua rassegnazione, ma anche la desolazione dell’ambiente in cui vive. Siamo abituati a vedere la vita di una prostituta cinematograficamente, ma anche se le situazioni sono sempre le stesse qui c’è qualcosa di più.
Si tratta d’una pellicola di propaganda anti-sovietica che, comunque, ebbe un buon successo sia per la trama romanzesca sia per gli attori notissimi. Una giovane russa ama un nobile tisico e per farlo curare accetta di diventare l’amante d’un commissario della Ghepeù. In realtà l’aristocratico, una volta guarito, si rivelerà fatuo e egoista, mentre il commissario, fanatico ma onesto, si suiciderà comprendendo la fallacia del suo credo.
Reinaldo Arenas, scrittore e poeta cubano in esilio, è il protagonista del film. Arenas sin da bambino mostra un grande talento per la poesia. L’avvento della rivoluzione sembra essere estremamente positivo per un giovane che sente emergere in sé l’interesse per il proprio sesso. Ma presto il vento cambia e, dopo aver vinto a 20 anni un premio letterario, nel 1973 viene arrestato perché omosessuale e i suoi lavori vengono confiscati.
12enne introverso ma responsabile, Conor vive con la madre, malata terminale, ed è vittima di bullismo a scuola. A badare a lui, arriva la nonna. Senza volerlo, Conor, sopraffatto dalla rabbia e dalla solitudine evoca dai suoi sogni e disegni una strana creatura alta 12 metri, che, poco prima di mezzanotte, prende vita da un imponente albero. Antico, selvaggio e inesorabile, questo mostro guida Conor in un viaggio all’insegna del coraggio, dell’autocoscienza e della verità raccontandogli 3 storie. Favola che spezza il cuore per la tenerezza con cui parla di malattia e di coraggio, di amore materno e di accettazione di un ingiusto dolore. Gli acquerelli, passione della madre di Conor, ispirano l’animazione delle storie terapeutiche raccontate dalla creatura fantastica (splendidi disegni animati di Jim Kat, illustratore di Harry Potter). Mentre la 4ª storia, quella che l’albero pretende da Conor, altro non è che la verità negata dal ragazzo. L’audace Bayona gioca con la macchina da presa per dare priorità al punto di vista di Conor. Indimenticabile la voce originale di Liam Neeson per la creatura.
3 liceali trovano un misterioso tunnel e vi entrano. All’uscita si trovano dotati di misteriosi superpoteri. Sono un solitario con la telecamera sempre accesa; un suo cugino intellettualoide e infelice innamorato; un amico sportivo, meticcio proletario. La sceneggiatura è firmata da Max Landis che ha il torto di rendere stereotipati e prevedibili i 3 protagonisti, mentre la regia provvede a un ingegnoso impianto visivo in cui la telecamera diventa un occhio mentale, estensione del cervello indipendente dalla forza di volontà. Verso la fine sfilano immagini cavate da fonti amatoriali, giornalistiche e di sorveglianza. Ne deriva un miscuglio di toni e di stili un po’ insensato e piuttosto ingenuo.
Alla vigilia del cambio di gestione, i camerieri del ristorante Eden si giocano il posto di lavoro in una cena in onore del nuovo proprietario. Alla loro testa Loris, maître della vecchia guardia, interpretato da Paolo Villaggio. Una commedia italiana al di sopra della media.
Anno 2077. Al solito, il pianeta Terra è stato raso al suolo da una guerra (qui con gli alieni). Jack – cui le autorità hanno cancellato la memoria – è un riparatore di droni che vigilano su enormi macchinari atti a estrarre l’acqua dall’oceano destinata agli umani sopravvissuti, rifugiatisi in una colonia lontana. Tutto procede fino a quando una navicella dalle fattezze antiquate si schianta sulla superficie, con un’unica superstite, che incontra Jack risvegliando in lui dubbi, domande e l’impellente desiderio di trovare una risposta ai suoi incubi notturni. Tutto già visto ma tutto ben fatto in questo equilibrato mix di fantascienza, azione e sentimenti, tratto dalla graphic novel dello stesso Kosinski. Oltre 2 ore di soddisfacente intrattenimento, con grandi effetti speciali, e un Cruise eroe con muscoli ma anche anima.
Sin dall’infanzia Bart, pistolero dalla mira infallibile, manifesta una morbosa passione per le armi da fuoco. Pur priva di tendenza omicida, questa attitudine segnerà la sua vita. Una sera conosce una cow-girl, Annie, dalla mira impeccabile quanto la sua: scatta un amore “al primo colpo”. In breve Bart scopre che la sua nuova fiamma è una donna passionale quanto avida di denaro. Accecato dalla passione diventa complice di innumerevoli rapine, e quando scopre di aver a che fare con una pluriomicida intuisce che la sua è una via senza ritorno. Storia di passione vissuta al di sopra della legge, questo film noir a la Bonnie e Clyde riflette indirettamente l’epoca in cui è stato girato. Realizzata nel 1949, la pellicola vanta alla sceneggiatura una firma autorevole ma criptata per ovvi motivi di sopravvivenza: Dalton Trumbo (Spartacus), qui celato dietro il nome Millard Kaufman. Uno dei celebri “10 di Hollywood” – coloro che tra registi e sceneggiatori si opposero alle accuse di sovversione mosse dalla Commissione per la attività anti-americane – firma questo gangster-movie infondendo un alone torbido e ribelle ad una storia caratterizzata dalla classica dicotomia amore-morte. La Sanguinaria propone un topos intramontabile a cui ancora oggi il cinema – vedi De Palma – ricorre sovente: la femme fatale. E mai come in questo caso la Vamp di turno (Peggy Cummings) annichilisce a tal punto il maschio-preda da renderlo privo di ogni volontà, vittima innocente dall’animo candido – Bart è contrario all’uso offensivo delle armi da fuoco – contrapposto a un’avida e spietata arpia. E nella pur pregevole fattura del montaggio e della fotografia, questa mentalità da Antico Testamento – Peggy come Eva che causa la cacciata dall’Eden – rende il film ingenuo e vincolato a una forma mentis datata. Dialoghi retorici e ridondanti per un film gradevole alla vista, ma un po’ meno all’udito.
Una donna, un uomo, due bambini. Lei di origine francese, lui cinese. All’improvviso la morte che entra in casa per mano di sicari che compiono una strage. Solo la donna si salva. Suo padre, Costello, raggiunge l’Estremo Oriente con un proposito preciso: vendicare la morte del genero e dei nipoti. Per farlo ingaggia tre killer che ha scoperto in azione mentre eliminavano l’amante infedele di un boss della malavita.. Con il loro aiuto cercherà di portare a compimento la missione che si è prefisso. Johnnie To si è finalmente (e speriamo definitivamente) scrollato di dosso i vincoli narrativi che almeno fino ad Election ne avevano in qualche misura ostacolato la genialità visiva. Sembrava cioè che il regista si sentisse in dovere di giustificare da un punto di vista sociologico l’agire dei suoi personaggi preoccupandosi quindi oltre misura del contesto. Intendiamoci: oltre misura per un regista come lui assolutamente in grado di intervenire sui generi interpolandoli con lo scopo di andare ‘oltre’ la verosimiglianza per puntare dritto al piacere della visione. Qui, a partire dall’esplicito omaggio a Melville sottolineato nel cognome del protagonista, è un susseguirsi di luoghi del cinema pronti a sottoporsi a reinvenzione. Se dispiace che il ‘samurai’ melvilliano Delon abbia rifiutato il ruolo di protagonista il dispiacere è di breve durata perchè Johnny Hallyday è praticamente perfetto nei panni del vendicatore che pronuncia le battute più improbabili con la stessa determinazione con cui reciterebbe Shakespeare. Con un interprete così To è libero di giocare con le immagini (indimenticabile lo scontro con i contendenti che si proteggono con inusuali barriere individuali) raggiungendo un livello di astrazione che fonde magistralmente cinefilia e spettacolo.
Violet vive a Osage County, Oklahoma. Ha un tumore in bocca e suo marito Beverly è sparito. Per questo Ivy, la figlia più giovane, convoca nella vecchia casa di famiglia le 3 sorelle che arrivano scontrose con mariti, amanti e figli. In realtà Beverly è morto e al funerale, davanti alla tavola, esplodono tutte le contraddizioni e le cattiverie possibili tra parenti, alimentate da una perfida Violet un po’ stonata dai farmaci. E salta fuori di tutto, incesti, tentate violenze, tradimenti e vigliaccate, e il drammaturgo Tracy Letts, autore del testo teatrale e curatore della sceneggiatura, si rivela degno dei drammi di Tennessee Williams. Sono indimenticabili la magnifica madre stronza della Streep e la Roberts, finalmente di nuovo all’altezza della sua fama, come figlia maggiore, impegnate in duelli verbali all’ultimo sangue. Wells dirige, George Clooney produce. Distribuito da Bim.
III secolo d.C.: il primo ministro Cao Cao muove guerra ai regni del sud della Cina per annetterli all’Impero: questi dovranno unire le loro forze per resistere all’invasore. Sembra che John Woo se ne sia stato assiso su un trono ad osservare una sequela di colleghi (Zhang Yimou, Chen Kaige, Ang Lee, Feng Xiaogang, Ching Siu-tung) che si cimentavano con wu xia pian sempre più imponenti e spettacolari prima di scendere in campo e rimettere ordine nelle gerarchie. Woo torna a casa, dopo le luci e le ombre di una lunga trasferta hollywoodiana – che in fondo di film davvero destinato a restare, all’altezza dei suoi migliori, ci ha regalato solo Face Off – e lo fa da leader indiscusso. Il romanzo dei tre regni è uno dei testi fondamentali dell’epos cinese e Woo lo affronta senza badare a spese – ottanta milioni di dollari fanno del film la produzione più costosa della storia del cinema cinese – e cercando di convogliare nel kolossal tutte le sfaccettature di uno stile peculiare, a volte discusso, ma senza dubbio unico. L’edizione internazionale è molto più corta di quella di quasi quattro ore uscita in Cina, ma i pur abbondanti tagli non snaturano il senso profondo dell’opera. Storia di (super)uomini, di amicizie virili che nascono e si consolidano in breve tempo, eccessi affrontati senza alcun timore (lo zoom per evidenziare i timori dell’Imperatore), i consueti omaggi a Sergio Leone – fino alla goccia d’acqua che indica la direzione del vento – e a John Ford. Ma soprattutto coreografie action (supportate dalla perizia di Corey Yuen) in cui far emergere il dinamismo boccioniano degli eroi e scene di battaglia girate con una perizia e un amore per il dettaglio come non se ne vedevano dal Bondarciuk di Waterloo. Testuggini da De bello gallico, specchi ustori memori di Archimede, assalti navali degni della flotta ateniese che imbriglia l’Impero di Serse: ovvero il John Woo che da sempre ama iniettare elementi dell’Occidente in un corpus che rimane, e non potrebbe essere altrimenti, figlio dell’Oriente. L’interpretazione dei quattro elementi fondamentali e della loro mutevole natura – uno dei topoi wu xia per antonomasia, da King Hu in poi – gioca un ruolo chiave nell’esito della battaglia, sancendo il trionfo dell’umanità capace di convivere con il mondo circostante e la sua bellezza sulla macchina mortifera del potere e della sopraffazione. E se gli effetti digitali non sempre sono all’altezza, è il fattore umano a colmare ogni lacuna. Anche in virtù di un casting all stars capace di rimettere fianco a fianco Takeshi Kaneshiro e Tony Leung, i due poliziotti innamorati di Hong Kong Express, rispettivamente nella parte dello stratega Zhuge Liang e del vicerè Zhou Yu. Micidiali in guerra, ma che ad essa ricorrono solo per preservare i piaceri della vita, dell’amore, dell’arte e della natura dalla tirannia violenta dell’usurpatore Cao Cao; uomini che parlano per mezzo della musica o che leggono il futuro nelle nuvole, che combattono ma che pensano solo alla fine della guerra. Si vis pacem para bellum, ancora una volta.
Un film di John Sayles. Con Jeni Courtney, Eileen Colgan Titolo originale The Secret of Roan Inish. Fantastico, durata 110′ min. – USA 1994. MYMONETRO Il segreto dell’isola di Roan valutazione media: 3,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Dal romanzo Secret of the Ron Mor Skerry dell’irlandese Rosalie K. Fry. Nell’Irlanda degli anni ’50 Fiona (Courtney) è mandata dal padre vedovo a vivere con i nonni sulla costa nordorientale. Scopre leggende locali e segreti familiari tra cui quello del suo fratellino neonato Jamie, portato al largo in una culla di legno e raccolto dalle foche. In una delle gite all’isola di Roan, un tempo residenza della famiglia, Fiona lo vede che naviga nella culla e convince i nonni a tornare nell’isola. Come sia riuscito J. Sayles, cineasta indipendente USA che ha curato anche sceneggiatura e montaggio, a fare un film-fiaba così profondamente irlandese, anzi celtico, evitando il lezio, il facile folclore, l’oleografia, e portando con delicatezza lo spettatore a guardare le cose con gli occhi della sua piccola protagonista, ha del miracoloso. Hanno contribuito al risultato la splendida fotografia di Haskell Wexler e gli addestratori delle foche.
Un battello risale il Nilo con a bordo una dozzina di personaggi alla Agatha Christie. C’è una ricca americana che viene asssassinata e c’è Poirot che indaga. Alla fine l’assassino è davero quello che non ci si aspetta. È un bel film che dà soddisfazione a chi ama il giallo, l’avventura e l’immagine. Si vede il Nilo, la valle dei templi, bei vestiti, bella gente.
Da una pièce teatrale di David Lindsay-Abbaire che l’ha adattata, è un dramma familiare – in cadenze di un mélo doloroso tenuto a freno – in cui, 8 mesi dopo aver perduto un figlio di 4 anni, Becca e Howie non hanno superato il trauma e non riescono ad avere rapporti sessuali. La regia di Mitchell è al servizio della Kidman nei rapporti con la madre e con la sorella, con sé stessa in attesa di una seconda maternità e soprattutto col ragazzo che causò il mortale incidente, rapporto morboso che forse le darà una via d’uscita. È una regia fondata sulla sottrazione, la cura dei dettagli e delle sfumature (da elogiare anche lo spontaneo Eckhart come marito), le inutili e astratte consolazioni degli amici, la faticosa ricerca di una nuova stabilità, i silenzi tra i coniugi, isolati l’uno dall’altro. Distribuzione Videa Cde. Rabbit Hole = la tana del coniglio.
Uno dei manifesti del cinema verità americano. Tre fratelli neri stentano a trovare un’identità sociale. Leila si mette con un bianco e ne ricava soltanto umiliazioni, Ben frequenta alcuni bianchi sbandati: tutti e due pateticamente tentano di scavalcare pregiudizi duri a morire. Hugh, che fa il cantante, troverà invece nel lavoro uno scopo alla sua esistenza.
Una coppia di impresari americani viene scortata dalle forze militari in una perlustrazione per le gole del deserto dell’Afghanistan, finché un talebano nascosto in un antro fa fuoco sul gruppo. Impaurito, l’assassino fugge per il deserto finché non viene catturato e rinchiuso in un carcere militare dove subisce torture e viene interrogato come possibile terrorista. Impossibilitato da una temporanea sordità a rispondere a qualsiasi domanda, viene inviato in un campo di prigionia.
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