È la storia di due destini che s’incrociano: un spregiudicato industriale sottaniere (Tapie) e un attore frustrato (Luchini) che fa il poliziotto hanno disturbi di stomaco ed entrambi fanno una Tac. Per vendicarsi dell’industriale infedele, una bella dottoressa (Martines, moglie di Lelouch) scambia i referti, cambiando la vita a entrambi. 35° film di Lelouch: divertente, spiritoso, ben recitato, infarcito di un’overdose di aforismi da Baci Perugina. Ottima A. Aimée come vedova in gramaglie che accalappia al cimitero vedovi benestanti. Imprenditore ingegnoso e discusso uomo politico, ex ministro con conti da regolare con la giustizia, noto in Francia quasi quanto Silvio Berlusconi in Italia, Tapie se la cava bene anche come attore.
Tina ha un fisico massiccio e un naso eccezionale per fiutare le emozioni degli altri. Impiegata alla dogana è infallibile con sostanze e sentimenti illeciti. Viaggiatore dopo viaggiatore, avverte la loro paura, la vergogna, la colpa. Tina sente tutto e non si sbaglia mai. Almeno fino al giorno in cui Vore non attraversa la frontiera e sposta i confini della sua conoscenza più in là. Vore sfugge al suo fiuto ed esercita su di lei un potere di attrazione che non riesce a comprendere. Sullo sfondo di un’inchiesta criminale, Tina lascia i freni e si abbandona a una relazione selvaggia che le rivela presto la sua vera natura. Uno choc esistenziale il suo che la costringerà a scegliere tra integrazione o esclusione.
Nicole sta cercando un appartamento per un futuro matrimonio con Dan, il quale è stato di recente radiato dall’esercito ed è senza lavoro. L’agente immobiliare è l’anziano Thierry il quale è segretamente innamorato della religiosissima collega Charlotte la quale gli presta cassette di programmi cattolici al cui termine compaiono lunghe riprese di lei che si spoglia. Charlotte di sera fa la badante al vecchio e satirico genitore di Lionel che fa il barista in un locale di cui Dan è un assiduo frequentatore e in cui dà un appuntamento al buio a Gaëlle, sorella di Thierry. Ancora una volta il Maestro Resnais affronta con il tocco che gli è proprio un nuovo (per lui) modo di fare cinema. Si tratta di teatro di un grande autore come Alan Ayckbourn che gli dà un copione da grande teatro londinese su cui Resnais interviene da par suo. “Le relazioni tra i protagonisti mi fanno pensare alla tela di un ragno drappeggiata tra due cespugli di ginestra spinosa e ricoperta dalla rugiada della notte. Thierry, Charlotte, Gaëlle, Dan, Nicole, Lionel e Arthur sono come insetti, che lottano per sfuggire alla trappola.
Un film di Werner Herzog. Con Helmut Döring, Gerd Gickel, Paul Glauer Titolo originale Auch Zwerge haben klein angefangen. Drammatico, durata 96′ min. – Germania 1970. MYMONETRO Anche i nani hanno cominciato da piccoli valutazione media: 3,29 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
In una imprecisata colonia di nani una ribellione provoca un crescendo di vandalismo, follia, violenza e atti crudeli, che diventa quasi un catalogo del sadismo, radicato nel mondo animale e nella natura. È il più estremo, surreale, inquietante e allucinato film di Herzog, che l’ha diretto, prodotto e scritto curandone gli arrangiamenti musicali, celato interamente in una dimensione critica. Un incubo raccontato come tale, senza una logica e, nel suo andamento caleidoscopico, senza uno sviluppo lineare né un finale, ma fondato su grande rigore stilistico: la figura ricorrente del cerchio indica una situazione senza vie di uscita. Fotografia di Thomas Mauch. Girato nell’isola di Lanzarote (Canarie) con attori nani non professionisti.
La spedizione dei Mille del 1860 guidata da Garibaldi, dallo scoglio di Quarto (5 maggio), sino all’incontro di Teano (26 ottobre) con re Vittorio Emanuele II. Pur con alti e bassi di stile e di tono, nonostante i compromessi storico-ideologici di sceneggiatura, il film raggiunge i suoi scopi: togliere l’epopea garibaldina dal mito e dall’oleografia (con un Garibaldi miope e reumatico, ridotto alla sua misura domestica: Ricci con la voce di Emilio Cigoli) e dare alla rievocazione storica la spoglia concretezza di una cronaca. Il tono cresce nell’ultima parte col mirabile inciso alla corte di Napoli, l’incontro di Teano, la partenza per Caprera: momenti in cui verità storica e umana coincidono in poesia. L’edizione francese, quella che il regista prediligeva, è di 139 minuti.
Giornalista incontra una donna spaurita, scoprendo che si tratta di una famosa attrice dell’UFA ormai dimenticata, morfinomane e prigioniera di una donna senza scrupoli. Ispirato ai casi dell’attrice Sybille Schmitz, suicida nel 1955, è il penultimo film di Fassbinder, Orso d’oro a Berlino 1982. Calato in un clima neoespressionista che scenografia e fotografia (ora abbagliante di bianco, ora appoggiata a forti contrasti) sottolineano, è una storia malinconica dove si confondono stereotipi, fantasmi, ombre del passato, paure del presente, echi del cinema muto, tenebre del cinema noir. Chiude la tetralogia sulla Germania postbellica attraverso quattro destini di donne ( Maria Braun , Lili Marleen , Lola ).
Arthur Fleck è in carcere per aver commesso cinque omicidi (in realtà sei, ma di uno la polizia non è al corrente), fra cui quello più clamoroso in diretta tv nazionale, ed è in attesa del processo che deciderà della sua pena: la sua avvocatessa vuole chiedere per lui l’attenuante dell’infermità mentale che riconosca la personalità doppia Arthur/Joker, il viceprocuratore distrettuale Harvey Dent invece vuole la sua testa, invocando la pena di morte. I suoi carcerieri (e aguzzini) lo deridono e lo umiliano, ma uno di loro gli permette (a titolo di scherno) di entrare in un coro di internati di cui fa parte Lee, la giovane donna di cui Arthur si innamora all’istante, intravvedendo in lei la sua prima opportunità di essere realmente visto e accolto: ma Lee è innamorata di lui o del Joker
Inghilterra 1940, dopo Dunkerque. Scompaginata compagnia teatrale di giro, tra un allarme e l’altro, recita Shakespeare. Il grande capocomico al tramonto è assistito da un fido segretario tuttofare. Teatro in scatola in confezione di gran classe. P. Yates ha fatto un film che è un appassionato omaggio al teatro e alla sua gente, di ambientazione suggestiva e ritmo serrato. Interpretazione superba di A. Finney e T. Courtenay. Da una pièce di Ronald Harwood, adattata dall’autore.
Sposata la figlia di un boia, un impiegatucolo delle pompe funebri è indotto dal suocero a diventare il suo successore. In cambio avrà un appartamento. Scritta da Rafael Azcona, Ennio Flaiano e il regista, all’insegna di uno humour nero, soffice e beffardo, ritmato dal rumore sinistro della garrote è un’efficace metafora satirica della Spagna franchista e una forte, non retorica, requisitoria contro la pena di morte che decenni dopo conserva la sua forza, compreso il suo straziato finale. Presentato alla Mostra di Venezia, suscitando le ire della delegazione spagnola, ebbe il premio Fipresci della critica internazionale. Distribuito in Spagna in ritardo con alcuni tagli. Fu più volte votato dai critici ispanici come il miglior film spagnolo di tutti i tempi. Mutilato anche in Italia.
Il film è diviso in 5 sezioni (“Usi e costumi”, “Il lavoro”, “La donna”, “Cittadini”, “Stato e Chiesa”, “La famiglia”) e in 11 episodi, alcuni assai brevi, con una lunga galleria di attori famosi. Scritto da Ruggero Maccari, Ettore Scola e Loy, è il tentativo di rinnovare la formula del film a episodi con la satira di costume. Bersaglio: i difetti degli italiani. Qua e là incisivo. Spicca l’episodio sul traffico con la Magnani.
All’inizio del Novecento la nobile e casta Eugenia (Antonelli) e l’arricchito plebeo Raimondo (Lionello), siciliani, apprendono per telegramma la notte delle nozze di avere lo stesso padre, ma per convenienze sociali e ragioni economiche decidono di recitare la commedia davanti al mondo, vivendo in casto connubio. Secondo la morale corrente, lui può permettersi qualche scappatella, mentre la virginea consorte, pur smaniosa dei misteri della carne, deve frenarsi. Commedia degli equivoci e delle agnizioni in cui s’intrecciano due filoni parodistici del dannunzianesimo (di cui canzona anche il versante eroico) e del romanzo popolare d’appendice. L’immaginifico domina la scena, ma Carolina Invernizio è dietro l’angolo. Pur controllati dalla misura di Comencini, i lenocinii della commedia italo-sicula fanno da mastice tra i due registri. Ingorghi e intoppi nella 2ª parte con un finale discutibile, ma le scene che sberteggiano D’Annunzio graffiano. Memorabile la sequenza del pagliaio in cui l’autista (Placido) cerca di spogliare la padrona che non collabora. Antonelli ottima, Lionello sopra le righe, due spiritosi caratteri di Abruzzo come Monsignor Pacifici e Rochefort, barone viveur.
Angelino ha 35 anni e, dopo la morte della madre, vive con il padre Peppino. Angelino non ha un lavoro, non ha desideri e non ha una ragazza. La sua vita trascorre tra le richieste del padre, che lo vorrebbe impegnato in un’attività e magari anche sposato, e un triste bar. Intorno a loro un grigio inverno che muta i colori della Sardegna, una radio che trasmette prediche religiose e una situazione economica in cui la crisi domina. Bonifacio Angius riesce a centrare in pieno l’obiettivo di realizzare il primo lungometraggio di finzione realizzando un ritratto complesso e amaro di una condizione esistenziale che è al contempo radicata nel territorio portato sullo schermo (un angolo di Sardegna) e rappresentativa di miriadi di situazioni analoghe italiane e non. Perché Angelino non è lo scemo del villaggio, non è un depresso né tanto meno un bamboccione da stereotipo socioeconomico.
Soffre piuttosto di un autismo sociale che non gli impedisce di porre e di porsi domande (solo apparentemente banali) che vanno ad impattare contro un muro di gomma che persegue l’indifferenza come obiettivo auspicabile. Anche quando sembra che la vita gli scorra sopra senza lasciare traccia nel suo intimo impermeabile a qualsiasi evento non è così. Angelino in realtà soffre per un rapporto con una figura paterna che lo ha avuto al fianco senza accorgersi di avercelo. Perché Peppino è un padre che ha svuotato nell’intimo la consorte e che non sa neppure che cosa ha o non ha condiviso con il figlio. A questo si aggiunge una distorta proposta della religiosità vista solo dal punto di vista del giudizio e della possibile punizione. Tutto quanto è stato quasi congelato nel lasciarsi vivere del giovane uomo avrà però modo di emergere con una grande lucidità che Angius sa cogliere con profonda partecipazione riuscendo però a non trascurare di innervare la sua sceneggiatura con una dolente ironia
Alcuni amici, ognuno dei quali ha trovato il suo posto nella vita, si ritrovano per passare una serata in allegria e libertà che ricordi la loro spensierata giovinezza. Ma il tempo passato crea un distacco fra di loro e si lasciano con la convinzione non manifesta, ma sentita, di non rivedersi più.
Quattro personaggi: Susie ha scritto un libro sui ladri di piante di orchidea dalle quali si può ottenere un tipo di sostanza stupefacente molto particolare. Johnny è il ladro, un tipo duro e segnato dalla vita e dai traffici illeciti. Charlie, timido e impacciato, fa lo screen writer e deve adattare il romanzo di Susie per una sceneggiatura di un film. E infine c’è Donald, fratello gemello di Charlie, anche lui sceneggiatore. Charlie è in crisi creativa e passa le sue giornate cercando disperatamente di farsi venire un’ idea, ma si perde guardando la fotografia di Susan stampata sul retro della copertina del libro. Fin qui tutto risulta piuttosto semplice, ma le cose si complicano nel momento in cui i vari personaggi si adattano agli altri. Susie deve intervistare Jonnhy per proseguire con la pubblicazione dei suoi romanzi e finisce col rimanere coinvolta da lui e dalla sua attività e Charlie chiede aiuto al fratello per scrivere la sceneggiatura del film. I quattro si incontrano di nuovo tre anni dopo: Susie è sempre innamorata e legata al suo Jonnhy, che da ruvido delinquente e diventato quasi romantico, e i due fratelli si ritrovano coinvolti in un incidente e in una sparatoria che avrà esiti negativi. Temi importanti e non facili, per quest’ opera di Jonze in concorso al Festival Internazionale di Berlino: il doppio, la creatività come stimolo per un arricchimento della realtà o come distruzione di un’ identità, lo smarrimento per la ricerca di una personalità nell’altro da sé. Tutto questo raccontato con uno stile che cambia durante la narrazione: dalla commedia, i toni diventano quasi grotteschi per finire nel dramma. È pericoloso adattare e adattarsi, si rischia di perdere e di perdersi.
Dal 1° al 3 luglio 1863 a Gettysburg (Pennsylvania) si svolse la più grande e sanguinosa battaglia (cinquantamila morti) della guerra civile. Le truppe sudiste del generale Robert E. Lee furono sconfitte da quelle nordiste al comando del generale George G. Meade. Scritto dal regista e basato sul romanzo The Killer Angels di Michael Shaara, prodotto dalla società televisiva di Ted Turner, fu messo in onda nei Paesi anglofoni in 3 puntate; esiste una versione per l’homevideo che dura quasi 6 ore. Piuttosto accurato, dal punto di vista storico-militare, nella descrizione della battaglia, ne rimuove sistematicamente la crudeltà e l’orrore: le morti sono tutte gloriose, pulite, istantanee, così come sono tutti valorosi, nobili e in buona fede sia gli unionisti sia i confederati. Sulle ragioni della guerra totale? Silenzio. I personaggi principali sono il generale Longstreet (Berenger), sudista contrario alla schiavitù; il docente Joshua Chamberlain (Daniels), soldato in nome dell’abolizionismo; il capo supremo dei confederati R.E. Lee (Sheen).
Da un paese della Toscana nell’agosto 1944 un gruppo di uomini, donne e bambini fugge dai tedeschi nel rischioso tentativo di raggiungere la zona già occupata dall’esercito americano. Favola generosa di molte bellezze tra cui le immagini che come le rondini passano in folla, in continua oscillazione tra ricordi personali e memoria collettiva, cronaca e fantasia, epica ed elegia. Anticipa i temi di Claudio Pavone sulla Resistenza come guerra civile. Premio speciale della giuria a Cannes. Una delle 4 partiture musicali _ e la più calda _ scritte da Nicola Piovani per i Taviani. Fotografia: Franco Di Giacomo.
Ritratto in piedi del divo Giulio Andreotti (1919) all’epilogo paludoso della prima Repubblica, dal 1993, inizio del suo 7° e ultimo governo, al 1996, quando comincia il processo di Palermo. È un grottesco il 4° film di Sorrentino? In parte. Non è neanche satirico, se non verso i fedeli della sua corrente. È un dramma, questo ritratto di un personaggio blindato in cui il volto e la maschera sono inscindibili. Di un politico che si assume la responsabilità di praticare il Male per difendere e promuovere il Bene in favore dei cittadini – sudditi? – ignari. Di qualcuno che chiude in sé la forza simbolica del potere, quella reale di chi ha segnato 50 anni di storia italiana e una complessità psicologica tale da renderlo enigmatico e inquietante. Con qualche forzatura espressionista Servillo lo impersona in questa direzione in bilico tra realtà e mito, tra l’immaginario popolare e il giudizio impietoso che ne dà il Moro in disparte di Graziosi. Persino le ciniche battute che snocciola a ripetizione sono enigmatiche: frutto d’intelligenza, ma non di pensiero. Escluso Aldo Moro, non a caso solo due personaggi sono rispettati in quanto umani, la moglie (Bonaiuto) e la segretaria (Degli Esposti). È un dramma dissonante: diverte in superficie, ma in profondità impaurisce. Premio Speciale della giuria a Cannes 2008. 4 Nastri d’argento: regia, sceneggiatura (Sorrentino), attore protagonista e produzione; 7 David di Donatello: attore protagonista, attrice non protagonista (Degli Esposti), fotografia, musica, trucco, acconciatore, effetti visivi.
Il fiume Inguri segna il confine naturale tra la Georgia e la Repubblica di Abkhazia. I secessionisti hanno reclamato questa porzione del paese, cacciando brutalmente i georgiani che la abitavano. Proprio lungo questa tormentata frontiera, in primavera, lo scioglimento del ghiaccio dà vita a piccole isole itineranti, che si fanno e si disfano a seconda delle stagioni e dei capricci della natura. Un vecchio contadino e sua nipote adolescente si installano in questa terra di nessuno, costruendo una precaria baracca di legno, per coltivarvi il necessario per sopravvivere al rigido inverno. Quando sull’isola compare un ribelle ferito, il già fragile equilibrio di questa insolita coppia si spezza pericolosamente. Quello diretto dal georgiano George Ovashvili è un film che indaga tra le pieghe dei conflitti. In primo luogo, il difficile rapporto tra uomo e natura, cristallizzato nel tentativo ancestrale di dominare, a mani nude, un ambiente riottoso, pronto a sottrarre con violenza ciò che un attimo prima aveva dato. In seconda battuta, c’è la lotta fratricida tra due popoli, che si manifesta nella presenza dei soldati georgiani che pattugliano il confine con le loro barchette, alla ricerca dei ribelli. Sopraggiungono molesti, così come il rumore degli spari nella notte, a turbare la quiete della vita del contadino, scandita solo dai ritmi di un lavoro paziente, in balia della natura. Il terzo contrasto, non meno importante, è quello tra la prudente saggezza dell’uomo anziano e l’incosciente desiderio di emozioni della nipote sulla soglia dell’adolescenza. La routine lenta e faticosa che li unisce, al contempo li divide, determinando il sentore strisciante di una deflagrazione che non si consuma mai veramente. Almeno non a parole, in un’opera dove gli sguardi, le inquadrature – carrellate o movimenti di macchina a mano – e la fotografia in 35 mm – contano molto più dei dialoghi, ridotti all’osso per l’intera durata del film. Un film da festival, in cui la sceneggiatura è scarna, al pari delle battute, e il ritmo è dilatato. Un film dove l’immagine ha la meglio sulla parola, esibendoci, in tutto il suo crudele splendore, una natura tanto generosa quanto capricciosa. Il regista ce la mostra con estremo realismo, ai limiti del documentario. I due attori protagonisti contribuiscono a rafforzare questa poetica del reale, agendo davanti alla macchina da presa con grande naturalezza, parlando solo con gli occhi: solcato, lui, dalla fatica dell’età e dalle intemperie della vita – ma nonostante tutto determinato e teneramente preoccupato per la nipote – e animata, lei, da un bisogno di vita che la spaventa e la incoraggia al contempo. In questo deserto di comunicazione, non è tanto la parola a mancare, quanto le risposte alle domande che questa storia incompiuta di uomini suscita. Curiosità e desiderio di emozioni più forti che il regista non soddisfa, interessato più ai capricci della natura che a quelli degli uomini.
La moglie di un professore a Monaco di Baviera ha un amante. Accortasi che lui l’ha fatta spiare e ha scoperto il tradimento, decide di uccidersi, ma cambia idea. Dal racconto Angst di Stefan Zweig. Sceneggiato con Sergio Amidei e Franz Treuberg, è il 5° e ultimo film di Rossellini con Ingrid Bergman e riflette la situazione di disagio in cui si trovavano. Il suo tema centrale è di nuovo l’incomunicabilità e l’incomprensione nella vita di coppia che, unito a quello della paura che opprime la donna infedele, dà al film “una tensione esistenziale che, pur nello schema rigido del racconto, accoglie una molteplicità di suggestioni” (G. Rondolino) e permette il passaggio dal privato al pubblico con una complessa scrittura registica di tragica intensità e di moderna penetrazione psicologica. Sottovalutato dai critici, ignorato dal pubblico. I. Bergman in gran forma. Rossellini ne girò 2 versioni, in tedesco ( Augst ) e in inglese ( Fear ); quella italiana, la migliore, è un incrocio delle due. Ne esiste un’altra – distribuita nel 1958 come Non credo più all’amore – più romanzata, con dialoghi cambiati.
Il Servizio Segreto incarica Natalino, ex partigiano, ex detenuto di sinistra, ex idealista, di eliminare una spia ex nazista di passaggio a Roma. Scritto da due esperti sceneggiatori, Benvenuti e De Bernardi, il film è divertente, ha buon ritmo, ma è troppo pallottoloso e arruffato nella ricerca del finale giusto. Bravo Manfredi, ma anche il contorno dei caratteristi è saporito.
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