Un anno di servizio militare in una caserma del Friuli. Tra le varie vicende che s’intrecciano spicca il rapporto conflittuale tra il soldato Scanna (C. Amendola) e il tenente Fili (M. Dapporto). Sorpresa finale. Prima di Mery per sempre (1989) Risi junior aveva mostrato le sue qualità con questo film corale dolceamaro, erede della migliore tradizione della commedia italiana. Attori affiatati. Qualche sbandamento per eccesso di ambizioni.
Anni Cinquanta. Domenico ha 14 anni e vive da solo con il padre Pietro da quando la madre è morta in circostanze misteriose. Pietro, uscito di galera, è il bersaglio della piccola comunità montana che lo considera “una bestia”. Quando in paese si ripresenta el Diàol, il diavolo, un orso che ha già mietuto vittime in passato, Pietro intuisce la possibilità del suo riscatto: dunque scommette con il padrone della cava di pietra locale, Crepaz, che ucciderà l’orso. Se riuscirà nell’impresa guadagnerà una somma enorme per l’epoca e la zona. Se invece fallirà, regalerà un anno del suo lavoro di spaccapietre a Crepaz. Anche per Domenico la caccia all’orso è un’occasione: per riavvicinarsi al padre, mettere alla prova la propria abilità con il fucile, e dimostrare che non è un bocia, ma un giovane uomo pronto ad affacciarsi alla vita adulta.
500 anni fa la nazione di Kumandra univa popoli differenti sotto il pacifico presidio dei Draghi. Finché i Druun, entità malvagie, non si sono diffusi tra gli uomini, agevolati dalla loro cupidigia e discordia, finendo per trasformare ogni forma vivente in pietra. Solo il sacrificio dei Draghi permise all’umanità di salvarsi: il segreto del loro potere è rimasto racchiuso in una gemma magica, unica arma di difesa contro i Druun. Oggi Kumandra non esiste più, divisa tra nazioni belligeranti, che corrispondono ad altrettante “parti” del drago: Zanna, Artiglio, Cuore, Dorso e Coda. Raya, principessa di Cuore, prova a tendere la mano verso Namaari, giovane figlia della regina di Zanna, ma la fiducia in quest’ultima porterà a una terribile disgrazia e al ritorno dei Druun.
1996. Etiopia. In un villaggio nell’area di Addis Abeba la quattordicenne Hirut viene rapita e violentata da colui che la pretende come sposa nonostante l’opposizione dei genitori di lei. La ragazzina riesce a fuggire impossessandosi di un fucile e uccidendo il suo sequestratore come auto difesa. Tutto però è contro di lei, sia la legge dello stato sia le regole ancestrali delle comunità rurali. Solo Meaza Ashenafi, avvocato e leader dell’associazione Andenet (uno studio legale al femminile che assiste gratuitamente donne che altrimenti non avrebbero alcuna possibilità di difendersi dai soprusi di una società dominata dai maschi) decide di assisterla. La battaglia contro i pregiudizi non sarà facile né indolore. “Difret” in etiope significa avere coraggio, osare. Il titolo rappresenta con efficacia il senso della vicenda anche sul piano produttivo. Alle origini del film ci sono personaggi reali: la produttrice è la sempre più impegnata sul piano sociale Angelina Jolie e alla regia c’è qualcuno che, seppur residente negli Usa, ha le proprie radici in Etiopia ed è lì che ha preteso (e ottenuto) di andare a girare un’opera che ha vinto al Sundance. Nella vicenda di Hirut si intrecciano le due tensioni che attraversano, seppur con caratteristiche diverse, più di un Paese del continente africano. Da un lato la progressiva emancipazione delle donne che trova nelle città occasioni per affermarsi e dall’altro un mondo rurale in cui vigono regole imposte dai maschi e la più completa sottomissione della donna all’uomo. Ai tribunali previsti dall’ordinamento statale si sovrappongono le “corti di giustizia” che si riuniscono in un campo sotto un albero e in cui nessuna donna è presente. Hirut ha difeso la propria dignità di essere umano e questo la allontana dalla comunità proiettandola in una realtà aliena, quella della città in cui rumori e stili di vita la disorientano. Accanto a lei Meaza (a cui è stato assegnato un prestigioso riconoscimento per l’attività svolta) che rivede nella ragazzina la stessa esigenza che provava lei quando aveva la sua età: il bisogno di far compiere all’intera società il passaggio necessario che porti a una trasformazione profonda dei costumi. Il magistrato che rappresenta l’accusa è una perfetta rappresentazione della difficoltà dell’impresa: vive in una realtà che dovrebbe favorirne l’apertura mentale ma resta legato ai pregiudizi maschilisti che gli sono stati inculcati. Ci vuole davvero coraggio per sfidare regole, scritte e non, come ha fatto Meaza Ashenafi riuscendo al contempo a ‘leggere’ una realtà in cui gli happy end non sono poi così happy.
Giancarlo Siani è un giovane praticante, impiegato “abusivo” per il Mattino col sogno di un contratto giornalistico e di un’inchiesta incriminante contro i boss camorristi e i politici collusi. Lucido e consapevole, Siani si muove tra Napoli e Torre Annunziata, un avamposto abbattuto dal terremoto e frequentato dagli scagnozzi armati di Valentino Gionta. Indaga, si informa, verifica i fatti e poi scrive pagine appassionate e impetuose sui clan camorristi e sulla filosofia camorristica. Era il 1985 quando Vasco Rossi cantava “ogni volta che viene giorno” e un giornalista di ventisei anni moriva assassinato per “ogni volta che era stato coerente”. Gli ingredienti per realizzare l’ennesima agiografia di una vittima (dimenticata) della camorra c’erano tutti. C’era la vicenda personale di Giancarlo Siani, c’erano gli Ottanta, quelli dei tangentisti e dei faccendieri, delle commesse e della corruzione, delle spese inutili e della burocrazia gonfiata, degli omicidi del generale Dalla Chiesa, c’era un Paese sordo alle idee di Siani che scriveva (e lavorava) per un’Italia migliore, c’era l’inevitabile sacrificio finale. Ma Marco Risi non ha realizzato un altro film sulla camorra, concentrandosi esclusivamente sulle tappe di avvicinamento di Siani prima a una consapevolezza di sé e della lotta politica, poi a una strategia letteraria e provocatoria. La camorra è in ogni gesto di chi si oppone a Siani, in ogni silenzio indifferente, nelle grottesche indagini dei carabinieri, nella “clemenza” della magistratura, nelle assurde pratiche rituali di “guappi” spietati e armati, che intendono porre la corruzione e la violenza come norma fondamentale di convivenza sociale. Risi, all’interno del medesimo spazio (Torre Annunziata), distingue due campi contrapposti, determinando il fronteggiarsi delle due parti: i villains che utilizzano la forza della pistola per ascendere l’empireo della carriera camorristica, l’eroe che avvia la sua opera di progressiva e inarrestabile bonifica dell’illegalità con la macchina da scrivere, puntando sul valore della persuasione. Sullo sfondo c’è Napoli e l’isteria collettiva che circondava nel 1985 Maradona, involontario capopopolo, occasione di riscatto, speranza di rivalsa calcistica e sociale, sul ricco Nord da parte del garzone del macellaio e di una città pronta ad osannare e a stritolare. Napoli come corpo corruttore e Napoli generatrice di “antidoti” capaci di riequilibrare moralmente l’ordine esistente. Napoli, ancora, sede del “Mattino”, che invia in un polveroso avamposto battuto dai fuorilegge un giornalista eroico, immagine della possibilità di progresso e fertilità contro l’aridità e l’improduttività dell’arroganza. Dopo il vuoto e la degradazione giovanile dei suoi ragazzi fuori, che hanno la Lazio come sommo ideale, che alimentano la loro forza con un linguaggio osceno, che scelgono la via dell’omologazione passiva e che hanno bisogno del branco per riconoscersi, il regista milanese si concentra su un ragazzo solare senza lati oscuri, isolato dai politici di palazzo in un non luogo sventrato e svuotato per essere riempito dall’eccitazione del business e poi affondato nei liquami chimici. Se il Maradona di Risi (Maradona – La mano de Dios) non ha mai smesso di cercare il suo pallone, Siani non ha mai smesso di cercare la verità e di morire per questo giovanissimo dentro la sua Citroën Mehari e sotto il cielo di Napoli. Risi coglie l’importanza della solitudine in cui viene abbandonato Siani e la spirale dentro cui viene fatto scivolare lentamente fino al massacro del settembre ’85. Con la linearità di un cinema che non ha tesi da dimostrare ma una bruciante urgenza di raccontare, Fortapàsc mette in piazza una classe politica che mira alla propria autoconservazione, una società incivile che chiede la legittimazione di essere incivile e un giornalismo (impiegatizio) che continua a ignorare le proprie responsabilità nel degrado sociale, etico, linguistico e culturale del Paese.
Nel condominio di una Parigi prossima ventura, dove il degrado fisico e morale troneggia su tutto, si intersecano le storie di strani personaggi: papà, mamma e figli Tapioca che sono affetti da una fame inestinguibile; la coppia benestante che è tutta presa nei progetti di fantasiose maniere per suicidarsi; i fratelli Kube che trascorrono i giorni costruendo insoliti giocattoli e souvenir; il macellaio Clapet che scambia carne umana con sacchi di lenticchie; sua figlia Julie che coltiva la passione per la musica studiando al violoncello… Un giorno Julie si innamora di Louison, clown dall’animo innocente, giunto nel caseggiato in cerca di alloggio e disposto a pagarsi il vitto occupandosi della pulizia dei locali. Quando intuisce che il padre lo ha scelto come nuova vittima per rifornirsi di carne, la ragazza non esita ad allearsi con una banda di teppisti – i “trogloditi vegetariani” che vivono nel sottosuolo – per salvargli la vita. Atmosfere surreali sottolineate da una fotografia cupa e da un accompagnamento musicale stridente, enfatizzano le strane vicende dei protagonisti costretti a condividere un palazzo simile ad una prigione bunker, visitato da un postino pazzoide che riverbera la violenza del mondo esterno.Il pubblicitario Marc Caro e Jean-Pierre Jeunet, vignettista umoristico e futuro regista di Alien 4 – La clonazione, collaborano alla realizzazione di un film eccentrico e visionario che strizza l’occhio – con eclettica disinvoltura – a Gilliam, Fellini, Clair, Carné e ai fumetti post-apocalittici francesi. Accolto tra gli applausi della critica, il film inaugurerebbe la nuova stagione del “realismo magico o poetico” del cinema francese. Parabola feroce e amara dell’impossibilità di una convivenza civile, o sarcastica parodia degli stilemi di un certo fanta-horror, il film è senza dubbio un’opera originale e provocatoria, ma come tutti i film di esordio che ambiscono allo status di “pellicola d’autore” sfiora i difetti di un intellettualismo narcisistico che appesantisce il (possibile) racconto di troppi e cervellotici significati.
Luca è figlio di un ricco industriale ma non è per nulla interessato alle sorti dell’azienda: Il suo interesse è rivolto all’India e alle pratiche di meditazione trascendentale. Il padre e la sorella, che non vogliono che il patrimonio familiare si disperda, gli mettono alle calcagna una psicologa che finge di innamorarsi di lui fino a sposarlo con lo scopo di ricondurlo all’ovile. Grazie al forte richiamo di un corpo spesso proposto ma mai concesso, l’affascinante e determinata ragazza sembra riuscire nell’intento di far riconciliare Luca con il capitale. Il suo inganno però verrà scoperto e il ragazzo l’avvelenerà con i funghi decorando il cadavere con fregi pop. Dopodiché il corpo verrà fatto sparire e nel finale, dopo un falso riconoscimento, Luca parteciperà al funerale in abito nero regolamentare insieme al padre e alla sorella mentre un gruppo di jazzisti si scatena al loro passaggio. Il venticinquenne Roberto Faenza nell’anno di grazia 1968 certifica le immense capacità di fagocitazione del capitale il quale non solo è capace di vanificare sogni e aspirazioni ma sa anche eliminare senza lasciare traccia le proprie mosche cocchiere. Faenza va anche oltre rigirando il coltello in una piaga ancora di là da venire. Quanti Luca hippie e contestatori in quegli anni abbiamo ritrovato poi dietro le scrivanie di dirigenza delle industrie paterne, in posti manageriali di alto livello o schierati politicamente in partiti conservatori? Quello di Faenza non è però un qualunquistico pregiudizio da maggioranza silenziosa. Si tratta piuttosto di un lucido avvertimento nei confronti di un ribellismo tanto facile da indossare quanto da dismettere con tanto di viaggi in India e di evasioni prive di motivazioni consistenti. Con stile a tratti grottescamente leggero, con una macchina da presa capace di cogliere gli stordimenti collettivi così come le fredde geometrie di una lucida strategia di assuefazione alla droga-denaro, Faenza realizza un film che, provocatoriamente, lancia sassi in più di una piccionaia.
Come Ernesto Picciafuoco, pittore laico e ateo in Roma, reagisce alla notizia – nota a tutta la famiglia, ma non a lui – che la Chiesa cattolica ha avviato da tre anni il processo di beatificazione di sua madre, uccisa da un figlio bestemmiatore. È il più importante film italiano 2001-2002: tiene in equilibrio privato e pubblico; descrizione critica di un ambiente e itinerario interiore; realismo di fondo, sonnambulismo onirico che lo eleva e fantasia metaforica che lo trasfigura (il fantasma della Gradiva, nuovo angelo sterminatore, che abbatte l’Altare della Patria), sarcasmo e tenerezza, il grottesco che avvicina comico e tragico. Con le armi della dialettica – e quelle della bellezza e dell’amore – toglie alla cultura dominante la maschera che copre il riflusso, la restaurazione, il ritorno ostentato al conformismo cinico, il dominio del Mercato, della Simulazione, del Banale, del Brutto. Tutto funziona in questo film che ha il suo momento emotivamente più alto in una bestemmia: un grande Castellitto e l’uso degli altri attori tra cui una meravigliosa Degli Esposti; la fotografia di Pasquale Mari, le scene di Mario Dentici, la musica di Riccardo Giagni. Premiato con 4 Nastri d’argento (regista, soggetto, attore e suono in presa diretta); Oscar europeo a Castellitto, premiato anche con 1 Globo d’oro. Premio Flaiano 2002 e Globo d’oro per il miglior film.
Amburgo. Dopo aver tentato il suicidio Cahit incontra Sibel che ha seguito un percorso analogo. Sono entrambi di origine turca ma vivono da molti anni in Germania. Sibel vuole uscire dalla sua famiglia in cui i maschi comandano e propone a Cahit di sposarla. Lei avrà così una copertura per vivere una vita libera anche sul piano sessuale. Ma il ruvido Cahit pian piano se ne innamora al punto di mettere a repentaglio la propria libertà. È un film diviso in capitoli questo di Akin ma a compiere questa scansione non sono dei cartelli o delle dissolvenze in nero. Un’orchestra con una cantante sulle rive del Bosforo separa le parti in cui il film viene suddiviso. Questa immagine, con la relativa colonna sonora, sottolinea il forte richiamo alle origini dei due protagonisti. Come è noto la Germania è la nazione in cui risiede il maggior numero in assoluto di turchi emigrati e il film ci mostra uno spaccato delle loro vite per poi, a vicenda impostata, trasferirsi a Istanbul. A una prima parte amburghese attenta a fondere, con uno stile da videoclip, modernità e radici culturali ed etniche ne succede una più personale e distesa. Al montaggio ritmato seguono ampi piani sequenza che consentono al personaggio di Sibel di palesarsi nella sua irrequieta ricerca di un equilibrio sempre difficile da raggiungere. Sta in questo l’originalità di Akin, nel saper offrire alla storia dei ritmi differenti facendoci ‘sentire’ come il prima e il dopo dell’evento che vede Cahit protagonista siano due modi di porsi dinanzi alla vita e alla possibilità di un desiderio amoroso con delle prospettive completamente diverse. L’impresa riesce grazie anche all’intensa interpretazione di Sibel Kekrilli, la sposa del titolo.
Liberamente tratto dalla biografia romanzata Il prigioniero (2003) dell’ex brigatista Anna Laura Braghetti e della giornalista Paola Tavella. Aldo Moro, presidente della DC, fu rapito dalle Brigate Rosse il 16-3-1978. Il suo cadavere fu fatto trovare il 9-5 nel bagagliaio di un’auto in una via di Roma equidistante dalle sedi della DC e del PCI. C’è una dimensione onirica femminile in questo kammerspiel politico con risvolti psicanalitici che racconta la convivenza del prigioniero con i suoi carcerieri. Tra loro c’è Chiara, figlia di partigiani. Da bibliotecaria, è in contatto con Enzo che la corteggia e le fa leggere la sua sceneggiatura sull’affare Moro, intitolata come il film (un mezzo verso di Emily Dickinson) e le dice: “L’immaginazione è superiore alla realtà.” Spesso, però, ne rimane sconfitta. È uno dei punti deboli del racconto, come lo sono alcuni degli agganci con la realtà esterna, quella che contrappone la rigidità cadaverica di un sistema politico a quella omicida e irresponsabile dei brigatisti. Sono difetti che non intaccano la sostanza narrativa di un film con cui Bellocchio fa la cosa giusta. È lui che vede Moro libero mentre, all’alba, torna a casa. Sceneggiatura premiata alla 60° Mostra di Venezia tra violente discussioni. Musiche di Verdi, Schubert, Pink Floyd.
Presentato alla Settimana della Critica di Venezia 2012 e premiato come Opera Prima, è costato all’esordiente Aydin 7 anni di lavoro per scrivere la sceneggiatura. Fa perno su un paradosso. Il fenomeno dei desaparecidos non riguarda soltanto l’Argentina. Negli anni 1990-96 si è ripetuto in Turchia. Nel 1995 centinaia di donne – sui mass media battezzate “le madri del sabato” – cominciarono a riunirsi davanti al liceo Galatasaray con le fotografie dei figli scomparsi dopo il loro arresto per mano della polizia di un governo di estrema destra. Il paradosso è che nel film non sono nemmeno nominate – anzi vi compare, per due minuti appena, una donna sola. Girata alla fine delle riprese, ma inserita all’inizio della storia, c’è una sequenza straordinaria di 11 minuti (con la cinepresa immobile, come nel resto del film se si tolgono brevissime panoramiche): un dialogo tra un avvocato e Basri, guardiano delle ferrovie il cui lavoro consiste nel controllare i binari che ogni giorno, d’estate come d’inverno, percorre a piedi e che per 18 anni scrive 2 lettere al mese al ministero degli Interni e alla questura: vuole sapere che fine abbia fatto il figlio Seyefi, un curdo come gli altri scomparsi. I suoi resti sono stati ritrovati a Istanbul. Secondo Aydin, la lettura di Dostoevskij ha contato molto per la cupezza del suo protagonista assoluto che perde a poco a poco anche la speranza.
Scritto da Luìs Arcarazo dal libro Compte enrere. La historia de Salvador Puig Antich di Francesc Escribano. Il 2 marzo 1974, un anno prima della morte di Francisco Bahamontes Franco (1892-1975), Salvador Puig Antich, militante catalano del Movimento Ibèrico de Liberaciòn (MIL) di estrema sinistra, è messo a morte con un discutibile processo da una corte marziale. Fu l’ultimo cittadino spagnolo giustiziato con la garrota. Oltre a descrivere per la prima volta con puntigliosa efficacia che cosa sia il garrote e come funzioni (fu in vigore dal 1882 e abolito nel 1976), il 2° film del catalano M. Huerga è il vivace ritratto di un giovane “ribelle con una causa”, la descrizione dei disperati tentativi dei familiari, compagni e avvocati di evitarne l’esecuzione e l’attendibile se pur parziale analisi politica di un regime totalitario ormai al collasso che, dopo l’attentato mortale (20-12-1973) all’ammiraglio Carrero Blanco, capo del governo, trasforma Salvador in un capro espiatorio per dare l’esempio. Premio Goya per la sceneggiatura non originale e passato in una dozzina di festival europei
Giunto a un momento cruciale della sua vita e della carriera, Jean-Claude Van Damme è alla disperata ricerca di denaro per pagare l’avvocato che lo minaccia di mollare la causa per la custodia della figlia. Avendo poco tempo a disposizione si reca nell’ufficio postale di una cittadina belga (dove è tornato nel tentativo di ricominciare da capo) per un money transfer, ma rimane invischiato in una rapina a mano armata. A causa di un terribile malinteso la polizia pensa che sia l’attore in persona a tenere in ostaggio dipendenti e clienti. I rapinatori decidono di sfruttare l’errore costringendo Van Damme a occuparsi della negoziazione.
Dopo una decennale guerra civile, il governo del Ciad (Africa centrale) concede un’amnistia a 200 criminali di guerra. È la tela di fondo della storia del giovane Atim (sta per orfano), educato, armato e mandato dal nonno cieco a vendicare la morte del padre. Quando in città incontra Nassara, l’uccisore, Atim scopre che fa il fornaio, regala il pane ai bambini poveri, è un musulmano devoto e, diventato muto in un agguato, è cambiato. Dopo Bye Bye Africa (1999), premiato a Venezia, che fu il 1° film prodotto nel Ciad, e Abouna (2002), presentato a Cannes, è la 3° regia di Haroun che l’ha scritto con Laora Dardos. L’ossessione della morte è il vero fuoricampo di un film in cui i dialoghi sono ridotti all’essenziale (tradotti nei sottotitoli nell’edizione della Lucky Red che ha allungato il titolo con retorica discutibile) e i personaggi principali si esprimono con gli sguardi e i gesti più che con le parole. Intorno a loro ruota un mondo confuso, incoerente, minaccioso. Su questo doppio registro, realistico e simbolico, Haroun lavora con una lineare intensità e un’ammirevole, depurata concezione dello spazio. Premio speciale della giuria a Venezia 2006. Titolo internazionale: Dry Season , stagione secca.
Al piccolo Mateusz, gravemente disabile, è stata diagnosticata una paralisi cerebrale. I medici sono convinti che non capisca niente e non possa fare progressi di alcun genere, per cui gettano la spugna. I suoi genitori no. La cura della madre e l’allegria del padre, regalano a Mateusz un’infanzia degna di essere vissuta, nonostante la frustrazione di non poter comunicare. Dovranno passare 25 anni perché qualcuno si renda conto dell’intelligenza imprigionata in quel corpo indomabile e offra finalmente a Mateusz gli strumenti per dire chi è e chi è sempre stato.
Da un romanzo di Lorenzo Carcaterra, sceneggiato dal regista che l’ha anche prodotto, il film, scomponibile in tre blocchi, racconta le peripezie di quattro ragazzi del quartiere di Hell’s Kitchen nel West Side di New York che, chiusi in riformatorio, subiscono un infame calvario di maltrattamenti e abusi sessuali. Una dozzina di anni dopo due di loro uccidono il più sadico degli aguzzini. Nel diseguale itinerario di Levinson c’è l’apprezzabile filone baltimoriano (dalla natia Baltimora): A cena con gli amici, Tin Men, Avalon e quello con ambizioni da Oscar dove si mette al servizio del divo di turno. Questo suo 12° film è tra i meno riusciti del secondo gruppo: verboso prolisso, oratorio, pur tra pagine felici nella prima parte. Peggiora il libro.
Pietro è un giovane avvocato, Giuliana la sua giovane moglie, un po’ svitata ma simpatica. Se non fosse per il bizzarro temperamento di lei, per la sua allegria, la loro unione sarebbe destinata a naufragare. Tratto da una bella commedia (1965) di Natalia Ginzburg che la scrisse su misura per Adriana Asti, il film s’involgarisce nel passaggio allo schermo. I flashback aggiunti fanno cattivo cinema. Da citare almeno la scena del pranzo con la suocera, grazie anche all’apporto dell’ottima caratterista I. Marchesini. Qua e là M. Vitti strafà.
È ermafrodita Alex che i genitori portano a vivere in un villaggio isolato della costa uruguayana, con la speranza di suscitare meno interesse morboso per lei o, forse, di poter tener nascosto il segreto della loro figlia. 15 anni dopo, un chirurgo plastico loro amico va a trovarli con la moglie e il figlio adolescente Alvaro. Mentre gli adulti dibattono tra loro sul destino di Alex, i due ragazzi, fortemente attratti, si confrontano con le loro paure e desideri. Tra i personaggi s’instaura una fitta rete di rapporti dove è difficile distinguere i comportamenti dalle psicologie e dalle ideologie tanto è sottile l’analisi della regista esordiente e sapiente la ricostruzione drammaturgica, imperniata sul personaggio di Alex, mirabilmente interpretata dalla 22enne Efron. Scritto (da un racconto di Sergio Bizzio) e diretto dall’argentina Puenzo, figlia del regista Luís ( La storia ufficiale ) che l’ha prodotto, vinse il Prix della Jeunesse e il Rail d’or. Su un tema inedito, impervio e raro (i casi di ermafroditismo tra i neonati sono in media 150 all’anno), non è solo una ricognizione, magistrale per equilibrio narrativo e pudica leggerezza, del pianeta adolescenziale, ma un apologo sulla difficile libertà della scelta.
Da una commedia di David Berry: da mezzo secolo due anziane sorelle vedove passano l’estate in un cottage sulla costa del Maine. Ricevono le visite di un’amica estroversa e malignazza, di un vecchio gentiluomo russo e di un energico idraulico. Con un quartetto d’attori che compendia la storia e la memoria del cinema (il più giovane è Price, 1911) un film dove la vita scorre piana come in una fotografia sbiadita: non una stecca, non un eccesso, non un attimo di noia anche se, come si dice, non succede niente. Ultimo film di L. Gish.
Jon è un impiegato che sogna di diventare un musicista, ma fatica a trovare un suo “stile”. La svolta arriva quando ha la fortuna di sostituire il tastierista di una band, gli Soronprfbs, che suona musica sperimentale. I componenti del gruppo sono tipi molto particolari, soprattutto il leader, Frank, musicista di talento che indossa costantemente una maschera di cartapesta. Il personaggio del protagonista è liberamente ispirato al comico inglese Chris Sievey, raccontato nel libro autobiografico di Jon Ronson. Mettendo in contrapposizione Jon e gli altri membri della band, Abrahamson affronta il tema delle fragilità psicologica ed emotiva dell’artista, ma parla anche delle conseguenze del successo, di talenti “maledetti”, di musica rock e social network. Le gag e gli avvenimenti, spesso insensati, di personaggi fuori dall’ordinario ne fanno una piacevole commedia surreale e bizzarra.
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