Un film di Terence Fisher. Con Christopher Lee, Peter Cushing, André Morel Titolo originale The Hound of the Baskervilles. Avventura, durata 87 min. – Gran Bretagna 1959.MYMONETRO La furia dei Baskerville valutazione media: 3,38 su 12 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Da generazioni tutti i primogeniti dei Baskerville vengono uccisi in modo violento e misterioso, apparentemente da un diabolico cane. Un amico dell’ultimo rampollo della sfortunata famiglia chiede aiuto al famoso Sherlock Holmes.
Kowalski (B. Newman), ex marine, ex corridore d’auto, ex poliziotto, scommette di percorrere in 15 ore, a bordo di una Dodge Challenger col motore elaborato, il percorso tra Denver (Colorado) e San Francisco, quasi 2000 km in linea d’aria. I poliziotti sempre più incarogniti dei tre Stati che attraversa cercano di fermarlo
“Lo Stato divora coloro che lo servono” è la tesi centrale del 2° LM di Schoeller che l’ha anche scritto. 3 premi César 2012 per sceneggiatura, attore non protagonista e suono (Olivier Hespel) e Fipresci della Critica Internazionale a Cannes. La tesi è annunciata nella sequenza onirica e metaforica iniziale: una bella donna nuda entra nelle fauci di un coccodrillo immobile. Il potere dello Stato divora, logora, fa soffrire chi ce l’ha, come il ministro dei Trasporti e il suo capo di gabinetto. Bertrand Saint-Jean è un personaggio complesso la cui umanità si mescola al cinismo: il suo dolore commosso per i 13 bambini precipitati in un burrone non gli impedisce di mettersi una cravatta più consona alla situazione o, ubriaco, di litigare con la vedova di Kuypers, disoccupato assunto come autista. Con poche eccezioni, il cast degli attori, sconosciuti in Italia, è diretto in modo impeccabile.
Un film di Christopher Nolan. Con Al Pacino, Robin Williams, Hilary Swank, Nicky Katt, Maura Tierney. Thriller, durata 118 min. – USA 2002. MYMONETRO Insomnia valutazione media: 3,34 su 34 recensioni di critica, pubblico e dizionari. L’agente Dormer (Pacino) del dipartimento di Los Angeles viene chiamato in un paese dell’Alaska per indagare sulla morte di una ragazza. Lo accompagna un collega. Collabora con lui la giovane poliziotta locale Ellie, che considera Dormer una vera leggenda. Rincorrendo nella nebbia l’ assassino, Dormer uccide incidentalmente il collega e non è nella condizione, per una certa indagine avviata dal suo dipartimento, di assumersi quella responsabilità. Dà la colpa all’assassino, che però ha visto tutto e ritiene di avere in pugno il poliziotto. I due sarebbero dunque legati dalla complicità. Si incontrano, sono costretti a proteggersi a vicenda. Ma Dormer è troppo onesto per reggere il gioco, e poi la poliziotta comincia a capire. Finisce come deve finire. Da rilevare Robin Williams che ormai si diverte nei ruoli di cattivo, come in One Hour Photo, (è lui lo psicopatico scrittore di gialli che ha ucciso la ragazza) e poi la solita performance di Pacino grande e tollerabilmente sopra le righe. L’insonnia è dovuta alla sua angoscia e al fatto che da quelle parti, in quella stagione, è sempre giorno. Il film parte meglio di come poi arrivi. Un po’ anche per il tributo al talento un po’ invadente del protagonista. E’ magnifico che l’indagine si svolga con gente che ragiona, parla e cammina, e non solo al computer. Sopra la media.
Un poliziotto, sua moglie, la loro bimbetta, la loro vita quotidiana, all’inizio apparentemente felice, in realtà in un crescendo sempre più claustrofobico e violento: i due non si parlano mai se non attraverso giochi e filastrocche; lei non lavora, non ha amici, non esce mai dalla casa o dallo stretto cortiletto in cui gioca con l’adorata figlia; lui inizia a maltrattarla, poi a picchiarla. Lento, freddo, angoscioso: ma la scelta di dividere il film in 59 capitoli interrotti da una scritta su schermo nero che annuncia l’inizio e la fine di ogni sequenza debitamente numerata (ogni volta circa 10 secondi di pausa), frantumando la narrazione in modo logorante, disturba, infastidisce e allontana il pubblico. Premio speciale della Giuria a Venezia.
Dal libro Follow the Rabbit-proof Fence di Doris Pilkington Garimara, adattato da Christine Olsen. Dagli anni ’20 al 1970 i bambini meticci australiani, figli di donne aborigene e uomini bianchi, venivano sottratti con la forza alle famiglie di origine e portati in colonie speciali per essere rieducati alla vita nella società bianca. Si racconta qui la storia vera di tre ragazzine di sangue misto – due sorelle e una cuginetta – che nel 1931 evadono dal centro di rieducazione per fare ritorno al villaggio natio con un viaggio a piedi (nudi) di circa tremila km lungo il recinto “a prova di conigli” (selvatici), costruito per difendere pascoli e terreni coltivati. È Molly, la maggiore delle tre fuggitive, oggi novantenne, a raccontare la storia. Cresciuta, Molly sposò un aborigeno dal quale ebbe due figlie. Una delle due è l’autrice del libro, fonte del film. Dopo il lungo intervallo di convenzionali thriller hollywoodiani, la rimpatriata ha giovato a Noyce. La cronaca della straordinaria fuga assume toni fiabeschi, mitici, quasi onirici, giustificati dall’ottica di Molly. A livello figurativo il regista punta sulla potenza suggestiva dei paesaggi australiani (fotografia del compatriota Christopher Doyle, prezioso collaboratore di Wong Kar-wai), ma altrettanto espressivo è il piano sonoro con le musiche di Peter Gabriel. Nella parte, prosaica e di basso profilo, che riguarda le scene dei burocrati governativi, affiorano gli schemi rigidi e semplicistici della denuncia. Ne risente specialmente il personaggio di Branagh.
Dal romanzo di Rafael Yglesias che l’ha anche sceneggiato. Sopravvissuto a un incidente aereo in cui ha perso il migliore amico, un architetto di San Francisco ha una complessa reazione psicologica che lo allontana dalla moglie e dal lavoro. Frequenta una giovane donna, sopravvissuta come lui, che nell’incidente ha perso il bambino e la aiuta a riprendersi. Con due interpreti di grande efficacia, una avvincente e interessante analisi psicologica sul tema della morte scampata e del senso di onnipotenza che ne deriva. Non sempre i dialoghi sono all’altezza.
Nel 1915 il porto turco di Gallipoli fu lungamente, inutilmente, sanguinosamente assediato dalle truppe britanniche. Con gagliardo ardimento i volontari australiani si fecero massacrare. Più che un film bellico – sull’ignominia della guerra – è un racconto picaresco di viaggio, avventure, amicizie virili. Weir ha mano felice nell’affettuosa descrizione dei personaggi, nella rievocazione di un’epoca. Belle pagine di atletica nella 1ª parte, la più riuscita.
Laureata in filosofia cum laude , l’animosa e fulva Marta assaggia le delizie del lavoro precario a tempo indeterminato. Si rassegna a fare la baby-sitter per un’amica che la presenta al call center Multiple, purgatorio dei precari, dove lo sfruttamento e la dissimulazione si svolgono in un clima di allegro entusiasmo imposto dall’alto. Poiché è anche volitiva e tosta, fa carriera come telefonista venditrice. Grazie anche a un sindacalista simpatico e casinista, si ribella. Dal romanzo Il mondo deve sapere della sarda Michela Murgia, sceneggiato con Francesco Bruni. Da un tema sociale di scottante attualità si può cavare un dramma o una commedia satirica. Ambizioso e attento al vento che tira, Virzì prende una terza via: il grottesco spinto con risvolti da musical all’aria aperta. La cifra stilistica è la solita: una assidua ridondanza anche nel becero da maledetto toscano per far passare un discorso di sinistra, aggiungendo due ardenti coiti, uno spiritoso nudo della Ramazzotti e nel finale la dispendiosa canzone “Que sera sera” di Jay Livingstone e Ray Evans. All’attivo, però, la recitazione. Bravi tutti, ma il migliore è ancora il poliedrico Germano. Finalmente promossa a protagonista, la Ragonese si distingue per la camminata. Se Virzì avesse preso il suo ritmo veloce e risoluto, il film ne avrebbe guadagnato. Medusa distribuisce. Globo d’oro della stampa estera al miglior film e alla Ferilli.
11ª commedia di Virzì, scritta con 2 amici, livornesi come lui, Francesco Bruni e Simone Lenzi, cantante e paroliere rockettaro che ha adattato il suo 1° libro, La generazione , storia d’amore tra Guido e Antonia, una strana coppia di 30enni. Lui è coltissimo, intelligente, timido, campa come portiere notturno in un grande albergo; lei, siculo-polacca, lavora di giorno in un autonoleggio e col nome di Thony compone ed esegue canzoni in inglese, in polemica con la famiglia siciliana. Si amano da anni, si incontrano alle 8 del mattino e fanno l’amore ogni giorno. Antonia però si cruccia perché non riesce ad avere un figlio, finché, dopo scontri e litigi, decidono di ricorrere alla fecondazione assistita. Con cambi di tono che passano dal comico al drammatico, dal dolente al rissoso, rimane un’altra commedia italiana anomala, diversa, della stagione 2012-13.
Raccontare il degrado di una bidonville può essere impresa ardua al cinema, si rischia di scadere nel pietistico, o di edulcorare una realtà che fa – e deve fare – orrore. La pellicola di Pablo Trapero – dedicata ed ispirata da Padre Mugica, ucciso in circostanze misteriose a Buenos Aires negli Anni Settanta – scansa abilmente le facili trappole rimanendo lucido e distaccato quanto basta
Rubén, uomo solitario, indurito dalla vita, trasporta col camion legname tra il Paraguay e l’Argentina. Un giorno, per ordine del suo capo, dà un passaggio a Jacinta, una giovane donna con una bimba di pochi mesi. Fin dall’inizio il rapporto tra i due è teso, le parole sono centellinate. Jacinta, che dichiara anche alla polizia di andare in visita ai parenti, in realtà vuol trovare un lavoro e rimanere laggiù. Rubén vorrebbe liberarsi di lei, ma la cosa non si rivela facile, così proseguono fino a quando, finalmente, arrivano a Buenos Aires, a casa dei parenti di Jacinta che accolgono festosamente lei e la bimba. Opera prima di Giorgelli, vincitore della Caméra d’Or a Cannes nel 2011, è un film delicato ma prezioso, fatto di prolungati silenzi che parlano e raccontano i protagonisti meglio di molte parole, e un po’ alla volta si insinuano prima la curiosità e poi il piacere nel seguire una storia magnificamente semplice raccontata con grande sensibilità. Distribuito da Cineclub Internazionale.
In un villaggetto isolato dell’Africa occidentale (trovato a Djerisso, Burkina Faso) con un’antica moschea a forma di termitaio, vive Collé Ardo Gallo Sy, seconda di tre mogli, che 7 anni prima si era rifiutata di far praticare sull’unica sua figlia l’escissione (asportazione della clitoride e delle piccole labbra), rito di purificazione che risale almeno a 5 secoli a.C., tuttora praticato in 38 dei 50 stati africani e in altre parti del globo. In casa sua si rifugiano quattro bambine per sottrarsi al rito che le eleva al rango di spose promesse. Altre due si sono uccise buttandosi in un pozzo. Collé diventa l’epicentro di uno scontro tra due tradizioni inalienabili: il Mooladé (diritto di asilo e protezione) e la Salindé (l’escissione). Col griot e l’ imam (consiglio degli anziani), il capo del villaggio convoca un’assemblea, dopo aver sequestrato tutte le radioline a pile che le donne ascoltano durante il loro duro lavoro. Il discorso del vecchio scrittore (dal 1956) e cineasta (dal 1963) Sembene è limpido: sono le donne, le madri africane ad avere il diritto di difendere loro stesse e le proprie figlie dalla pratica millenaria della Salindé , a costo di essere flagellate dai propri mariti come capita a Collé in una delle più coinvolgenti sequenze. È una battaglia tra la forza della ragione e della giustizia e quella del potere maschile che ricorre alla violenza. È una battaglia per la libertà. Premiato a Cannes 2004, fa parte di una trilogia sull'”eroismo del quotidiano”, iniziata con Faat Kine (2000) e che dovrebbe chiudersi con La confraternita dei topi . Distribuito in Italia da Lucky Red nella primavera 2006, ottenendo il patrocinio di Amnesty International nella campagna “Mai più violenza sulle donne”.
Anni ’20, Andalusia. La piccola Carmen è orfana di madre. Il padre amoroso, celebre torero inchiodato su una sedia a rotelle dopo un incidente nell’arena, le insegna i rudimenti della tauromachia e sposa Encarna, donna cattiva e ambiziosa che detesta la bimba. Per fortuna c’è la nonna, ex ballerina di flamenco, che dà lezioni alla nipotina. Carmen adolescente riesce a fuggire dalle grinfie della matrigna, si unisce a un gruppo di toreri nani e diventa una vedette delle arene con il nome di Blancanieves. Arricchito di tutti i luoghi comuni della cultura spagnola, vuole rievocare il cinema delle origini, muto e in bianco e nero, e la sua singolare rilettura della favola diventa un lavoro interessante, senza nostalgie. Presentato in alcuni festival con orchestra dal vivo a interpretare le musiche. Concha de oro a San Sebastián per la García e ben 18 candidature ai Goya, con 10 premi ottenuti, a partire da quello per il miglior film.
Vincent (Blanchet), potente ministro, costretto a dare le dimissioni per una cantonata politica, ricomincia a vivere. Perde la giovane amante, si fa cacciare dalla moglie, scopre la sua casa invasa da famiglie nordafricane, recupera la vecchia madre (Piccoli!), riaggancia le ex amichette, riprende il giro dei bar con i vecchi amici, riscopre i piaceri della pigrizia pensante. Intanto il suo successore assaggia l’ebrietà e le incertezze del potere. Può sembrare una favola poetizzante e leziosa, un po’ demagogica, avulsa dal mondo e dalla realtà sociale, ma è semplicemente una commedia controcorrente, in linea con tutti i film passati di questo georgiano, trapiantato a Parigi negli anni ’80, che ha il genio della scrittura leggera e non crede nel progresso, ma nemmeno nel catastrofismo nichilista oggi di moda. Sembra, la sua, una facile disinvoltura, ma soltanto per chi non sa coglierne la ricchezza musicale delle situazioni, impregnate di una buffoneria sottile, affidata ai gesti e ai comportamenti più che ai dialoghi. Non è forse spiazzante il suo bestiario, la galleria degli animali, buffi perché fuori dal loro contesto (asini, tucani, ghepardi, bisonti)? Dietro l’apparente frivolezza del racconto “c’è una sorta di tessitura molto compatta, la confezione di una trama fine, densa, quella di un vestito ideato da un sarto artista e filosofo” (J.-F. Rauger).
Un film di Jacques Tati. Con Jacques Tati, Marcel Fraval, Honoré Rostel, Franco ResselComico, durata 110 min. – Francia 1971. MYMONETRO Monsieur Hulot nel caos del traffico valutazione media: 3,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Hulot progetta un’automobile supermoderna che esporrà al salone di Amsterdam. Il viaggio da Parigi verso l’Olanda è pieno di difficoltà causate dal traffico. Hulot arriva in ritardo al salone e non può esporre la macchina, che comunque suscita l’interesse dei privati che la vedono in strada.
Un film di Rolf De Heer. Con Nick Hope, Claire Benito, Ralph Cotterill, Carmel JohnsonCommedia, durata 100 min. – Italia, Australia 1993. MYMONETRO Bad Boy Bubby valutazione media: 3,36 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Premiato alla Mostra di Venezia. Bubby è un trentenne che abita in una sorta di scantinato fatiscente. Con lui c’è la madre, che lo usa a suo piacere. Quando torna il padre Bubby fa una strage ed esce di casa. Trova un mondo completamente sconosciuto, fa una rapina e diventa una rockstar.Tutto ciò lo fa con incantata ingenuità. La regia di De Heer è scarna e antiestetica. Molto bravo l’attore. Il personaggio è tutto sommato una variante sul tema degli alieni o degli estranei al progresso della società ( Oltre il giardino, Boudu salvato dalle acque, Ho fatto splash, L’uomo venuto dall’impossibile, E.T.).
Di questo bio-pic-mélo su Edith Piaf anche i critici più severi hanno dovuto elogiare l’interpretazione della Cotillard, anzi la sua immedesimazione in un personaggio che passa dalla giovinezza alla maturità sino allo sfacelo fisico (artrosi, alcol, morfina) dei suoi 48 anni, e il modo con cui irradia la sua voce, cavata dalle incisioni originali della cantante. È ingeneroso, però, negare altri meriti al film di Dahan. Anzitutto la costruzione narrativa (montaggio: Richard Marizy che in parte modifica la sceneggiatura di Dahan e Isabelle Sobelman), che ne fa un esemplare racconto della memoria. Non mancano le cadute nell’apologia e nell’aneddotica cronachistica, ma la compresenza dei temi è la cifra di una vita eccessiva, spesa senza risparmio o di un destino che “se riletto alla luce di un testo come ‘Je ne regrette rien’ (diventa) un inno tragico alla vita in ogni sua epoca” (C. Pardi Vasic). 2 Oscar: attrice (Cotillard) e trucco (D. Lavargue, J. Archibald).
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