Turchia, 1970. Un ingenuo americano, Billy, ad Istanbul con la fidanzata Susan per una vacanza, si lascia mettere addosso due chili di droga. All’aeroporto lo scoprono e lo arrestano. Nonostante l’intervento dei diplomatici, viene condannato a quattro anni di galera. Con due altri reclusi tenta poi la fuga, ma un imprevisto la manda a monte. Per di più ci si mette anche l’allora presidente degli Usa, Nixon, che irrita i turchi accusandoli di troppa leggerezza nei confronti dei trafficanti di droga: gli anni di prigione di Billy si trasformano così in trenta. Ma una speranza di fuga c’è ancora.
Durante il passaggio della frontiera italiana per trascorrere le vacanze al paese natale, un emigrato viene fermato e imprigionato senza che gli venga fornita alcuna spiegazione. Di disavventura in disavventura, finisce in un manicomio criminale dal quale uscirà finalmente discolpato, ma purtroppo traumatizzato.
Trasposizione in film del 98enne de Oliveira di A alma dos ricos di Agustina Bessa-Luís, 2° capitolo di una trilogia romanzesca di cui aveva già fatto la 1ª parte, Il principio dell’incertezza (2002). Ex carcerato, il giovane Luciano è assunto come giardiniere dalla nobildonna Alfreda. Suggestionata da un biblista secondo il quale la Vergine Maria sarebbe stata ricca, Alfreda vive nell’attesa di un’apparizione della Madonna. Luciano l’accontenta, servendosi di una giovane scostumata. Squisito cineasta della trasparenza, circondato dall’affiatata compagnia dei suoi attori preferiti, il sempreverde regista mette in scena una commedia di raffinata eleganza dove la cerebrale verbosità dei dialoghi è permeata da un’acuminata ironia antiborghese. Fotografia dell’infallibile R. Berta.
Parigi 1899-1900. Il giovane scrittore Christian è assunto per scrivere il nuovo spettacolo del Moulin Rouge, diretto da Harold Zidler. S’innamora della primadonna Satine di cui il duca di Worcester, finanziatore dello show, pretende il corpo e il cuore. Christian è minacciato di morte; Satine, malata di tbc, muore dopo la prima trionfale. Musical pop australiano che chiude un’ideale trilogia dello spettacolo ( Ballroom , Romeo e Giulietta ), è un film di traboccante esagerazione audiovisiva, Kitsch svergognato, vertiginoso sincretismo che tende alla leggerezza e cerca “volontariamente l’imperfezione” (S. Emiliani). Appoggiato a una storia d’amore, è un prorompente pastiche che apre il XXI secolo, raccontando la fine del XIX e riassumendo il XX. Superfluo far l’elenco di miti, citazioni, rimandi, riciclaggi, contaminazioni, anacronismi (da Méliès a Ophüls, dal can-can e Satie ai Beatles e David Bowie), scatole cinesi scenografiche, superfici, fibrillazioni. Tutto calcolatissimo, molto sembra improvvisato. Scritto dal regista produttore con Craig Pearce; fotografia: Donald M. McAlpine; scene di Catherine Martin e Brigitte Broch, costumi della stessa Martin con Angus Strathie, entrambi premiate con l’Oscar. Kidman in stato di grazia.
Dal romanzo di Willard Motley. Il figlio di un commerciante ingiustamente condannato e morto di crepacuore entra nell’ambiente della mala. È riportato sulla retta via da un avvocato, ma l’ingiustizia sociale lo induce di nuovo alla rivolta. Su un tema che gli era caro (rapporto padre-figlio) Ray ha fatto un film, prodotto da Bogart, onesto e sincero nella sua denuncia sociale, ma verboso e retorico, di strategia macchinosa. Seguito: Che nessuno scriva il mio epitaffio.
Berlino, anni Quaranta. Bruno è un bambino di otto anni con larghi occhi chiari e una passione sconfinata per l’avventura, che divora nei suoi romanzi e condivide coi compagni di scuola. Il padre di Bruno, ufficiale nazista, viene promosso e trasferito con la famiglia in campagna. La nuova residenza è ubicata a poca distanza da un campo di concentramento in cui si pratica l’eliminazione sistematica degli ebrei. Bruno, costretto ad una noiosa e solitaria cattività dentro il giardino della villa, trova una via di fuga per esplorare il territorio. Oltre il bosco e al di là di una barriera di filo spinato elettrificato incontra Shmuel, un bambino ebreo affamato di cibo e di affetto. Sfidando l’autorità materna e l’odio insensato indotto dal padre e dal suo tutore, Bruno intenderà (soltanto) il suo cuore e supererà le recinzioni razziali. La drammaticità della Shoah, di un inferno voluto dagli uomini per gli uomini, è inarrivabile e di fatto non rappresentabile ma questo non ha impedito al cinema di provare e riprovare a misurarsi con quella tragedia. L’approccio cinematografico di Mark Herman, regista e sceneggiatore, è diretto e il punto di vista assunto è quello di un bambino, figlio di un gerarca nazista, la cui innocenza (davanti all’orrore) trova corrispondenza soltanto in Shmuel, coetaneo internato all’inferno. A differenza di La vita è bella e di Train de vie, Il bambino con il pigiama a righe non è una favola dove ognuno ha un proprio e preciso ruolo, al contrario nel film di Herman i due universi, quello del Bene e quello del Male, si lambiscono fino a confondersi e a sconvolgersi. Nel Bambino col pigiama a righe è l’inadeguatezza e la debolezza degli adulti, anche di quelli buoni, a obbligare i bambini a prendere in mano il proprio destino e a determinarlo. I padri e le madri non fanno “magie” come il Guido Orefice di Benigni e il Male che li circonda finisce per inghiottire i loro figli e renderli all’improvviso consapevoli. Il regista inglese è abile a evitare gli stereotipi della storia “cattiva” e della contrapposizione tra infanzia idealizzata e abiezioni del mondo adulto, analizzando la durezza di un’epoca (la Germania nazionalsocialista) e di un’età (l’infanzia). Muovendosi tra trappole d’apparenza ed eludendo clichè, sentimentalismi e scene madri, Herman mette in scena le ingiustizie e i rapporti di forza che si definiscono già nell’età più verde. Attraverso il minimalismo di episodi quotidiani, immersi nella severità dei colori freddi, Il bambino col pigiama a righe svolge la memoria, rivisitandola con soluzioni e libertà che rendono la storia intollerabile e lancinante. Per questa ragione, l’autore “chiude la porta” sulla camera a gas, interponendo fra gli spettatori e il volto della Medusa la pietas di un narrare artistico che consenta di guardarla senza soccombere impietriti, atterriti. Tratto dal romanzo omonimo dell’irlandese John Boyne, Il bambino con il pigiama a righe è un film evocativo di un’epoca nera e tragica, rivista attraverso la psicologia di un’amicizia infantile e di una (pre)matura scelta di campo, complicate da una realtà storica di discriminazioni e di selezioni razziali. Immagini che richiamano per tutti la necessità di frequentare (sempre) la Memoria e di non considerare mai risarcito il debito con il nostro passato.
Ebreo, omosessuale e socialista imprigionato ed esiliato dai nazisti, Bauer nel 1956 diventa procuratore generale dell’Assia e dà il via alla caccia ai criminali sopravvissuti del NSDAP. Nonostante l’ostilità dell’opinione pubblica, che vuole dimenticare, le minacce di morte e i sabotaggi degli ex nazisti rimasti nelle forze di polizia, scopre dove si nasconde Adolf Eichmann. Scritto da Kraume insieme a Olivier Guez, è un dramma storico la cui forza sta in un triplice atto d’accusa alla democrazia tedesca: per le resistenze alla denazificazione, per il permanere dell’oppressione nei confronti degli omosessuali, per la mancata richiesta di estradizione di Eichmann da parte del governo Adenauer. La forma convenzionale non è però all’altezza del contenuto. È di fatto, non di diritto, il prequel di Il labirinto del silenzio (2014). Audience Award a Locarno 2015.
Verhoeven ha sempre cercato, un po’ come David Lean, di abbinare arte e commercio, cinema di impegno e grande spettacolo. Dopo tanti successi a Hollywood è rimpatriato per un film, a lungo covato, che rievoca i tragici ultimi mesi dell’occupazione nazista in Olanda, mettendoli a confronto con lo sterminio degli ebrei e la resistenza antitedesca e raccontandoli anche nelle loro ombre. Nel seguire le peripezie di una bella soubrette ebrea che si infiltra come spia tra gli occupanti, il regista e il suo sceneggiatore Gerard Soeteman hanno scelto di costruire la loro storia all’insegna del travestimento, della menzogna e dell’ambiguità senza riguardi per nessuno, nemmeno per i loro personaggi olandesi, ebrei, nazisti: nessuno è del tutto innocente né del tutto colpevole. Rifacendosi al libro Grijis Verleden ( Passato grigio , 2001) di Chris van der Heyden, c’è tutto in questo thriller d’azione: bombardamenti aerei, rastrellamenti, esecuzioni a morte, torture, agguati, scambi d’identità, amori tra le due parti, gerarchi delle SS arruolati dagli Alleati in nome della futura guerra antibolscevica. Il collaborazionismo delle popolazioni con gli occupanti tedeschi è un fatto storico da studiare, non un problema da risolvere. A guerra finita, fu nascosto, rimosso, dimenticato. Non è il caso, dunque, di deprecare i contenuti, ma i modi espressivi.
Il 18/2/43 i fratelli Hans e Sophie Scholl sono arrestati nell’Università di Monaco mentre distribuiscono volantini della Rosa Bianca, gruppo pacifista di resistenza antinazista. Cinque giorni dopo, con Cristoph Probst sono condannati alla decapitazione. Scritto da Fred Breinersdorfer (che ne ha tratto anche un libro) e basato sui verbali degli interrogatori della Gestapo (conservati negli archivi della Germania Est e resi pubblici nel 1990) e su altre testimonianze e interviste, il 2° film di M. Rothemund ha il suo nucleo centrale e più interessante nel duello psicologico-verbale tra la ventunenne Sophie e Robert Mohr, ufficiale della Gestapo. Qui, ma anche nella scena del processo, si vince una difficile scommessa: fare un film emotivamente coinvolgente e, insieme, scrupolosamente fedele alla cronaca nei minimi dettagli e storicamente attendibile. Ci riesce grazie anche alla figura della protagonista che fa passare un discorso privo di retorica e sempre attuale sul coraggio civile, frutto di un agire in obbedienza alla coscienza. Premiato a Berlino 2005 per la regia e la migliore attrice (Jentsch). Sullo stesso argomento, nel 1982, in Germania furono girati Die weisse Rose e Fünf letzte Tage . Le sentenze del tribunale del Popolo nazista furono dichiarate illegali e criminose nel 1985.
Già noto attore e clown ebreo nella Berlino prebellica, Adam Stein è ricoverato in una clinica israeliana dove si curano i superstiti dei lager nazisti di sterminio. Scampato grazie a Klein, sadico comandante di un campo, che l’aveva costretto a fare il suo cane, camminando a quattro zampe, Adam è tormentato dai sensi di colpa perché sopravvissuto alla morte della moglie e della figlia. Attraverso un nuovo paziente della clinica rinchiuso in una cella separata, riesce faticosamente a riprendersi. Tratto dal romanzo omonimo (1968) di Yoram Kaniuk, adattato da Noah Stollman, ambientato in una clinica la cui architettura è ispirata allo stile della Bauhaus e girato in una fotografia altrettanto stilizzata, in un BN dominato dal bianco, è una storia di salvazione che ha il suo contrappunto in quella di David, un bambino convinto di essere un cane che impara a camminare grazie ad Adam, costretto a esserlo. È uno dei più originali, visionari – e dei più impervi – film sulla tematica della Shoah, così insolito che fu distribuito debolmente anche negli USA da chi lo riteneva inadatto a trovare un qualsiasi pubblico. Straordinaria interpretazione di Goldblum.
Partendo da uno spunto del poeta americano Walt Whitman sull’intolleranza si raccontano quattro storie. La caduta di Babilonia: re Baldassare credendo ormai, dopo aver vinto sull’esercito della Persia, di essere al sicuro dà il via a una celebrazione fastosissima che però dà modo al nemico Ciro di sconfiggerlo. La passione di Cristo racconta tre momenti dell’esistenza di Gesù. La notte di San Bartolomeo, tratta di una storia d’amore poco prima dell’eccidio degli Ugonotti. La madre e la legge: un povero operaio, dopo uno sciopero sanguinoso, viene ingiustamente condannato a morte per omicidio. L’uomo si salverà in extremis per via della confessione dell’assassino. Uno dei film più importanti della storia del cinema.
Un film di David Wark Griffith. Con Mae Marsh, Henry Walthall, Violet Wilkey Titolo originale The Birth of a Nation. Storico, Ratings: Kids+16, b/n durata 38′ min. – USA 1915. MYMONETRO Nascita di una nazione valutazione media: 3,42 su 10 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Si tratta di materiale stampato dalla Library of Congress intorno al 1970 a partire dai negativi originali. I due rulli consistono in materiale di ripresa e in immagini non utilizzate nel film. Le scritte a mano su alcuni fotogrammi indicano che le scene riguardano i rulli 2, 7, 10, 23, 28 e 29 nella loro numerazione prima del montaggio. Verso la fine della seconda bobina di questa raccolta, nel provino dei costumi e del trucco per Lillian Gish e Walter Long, si intravede ogni tanto il celebre cappello di paglia utilizzato da Griffith: lo si può scorgere nell’angolo in basso a destra dell’inquadratura
L’intellligenza deduttiva del più noto investigatore della letteratura, Sherlock Holmes, si misura contro criminali geniali e terribili, e insieme al suo fedele assistente Watson deve affrontare intricatissimi casi ambientati nella misteriosa Londra di fine ‘800. La migliore trasposizione cinematografica è certamente la serie prodotta dalla 20th Century Fox, poi proseguita dalla Universal, in cui l’acume investigativo di Holems ha il volto dell’attore inglese Basil Rathbone, accompagnato dall’amico Watson che qui ha il volto di Nigel Bruce. Tratti dai romanzi più celebri di Sir Arthur Conan Doyle i 14 film presentati in questo imperdibile box da collezione rappresentano l’intera serie dedicata a Sherlock Holmes.
Salvando la vita al boss Sawada, il cameriere Ishimatsu Rikuo fa il suo ingresso nel mondo della yakuza. Nell’ambiente è però considerato un cane rabbioso e il suo comportamento gli impedisce di crearsi una cerchia di seguaci fedeli come si converrebbe ad un vero leader. Imprigionato in seguito a un regolamento di conti, Ishimatsu fa amicizia con Imamura, un esponente della gang rivale Giyu, che al termine della condanna di cinque anni viene ad aspettarlo assieme a Chieko, donna a cui Ishimatsu è legato da un tormentato rapporto di amore e violenza. Una notte, credendo che Sawada lo voglia uccidere per aver picchiato dei superiori, non esita a sparare al proprio capo ferendolo gravemente. È la goccia che fa traboccare il vaso…
Shun Takahata si è appena lamentato della sua vita, noiosa e uguale a se stessa, quando la mattina, in classe, la testa del professore esplode e al suo posto compare un gioco parlante e assassino (il Daruma ga koronda, “Daruma è caduto”), una versione mortale di “Un, due, tre, Stella” che miete una vittima dopo l’altra, lasciando un solo vincitore per aula. Non c’è tempo per domandarsi cosa stia succedendo, ma solo per prepararsi al secondo gioco, altrettanto infantile e sterminatore. Basterebbe la sequenza iniziale, da antologia degli incipit cinematografici più visionari e strizzastomaco, per aver ragione di fare un bell’inchino a Miike e magari sperare di indovinare un nuovo punto di svolta nella sua filmografia, che ne ha già conosciuto più di uno. Il resto del film mantiene le promesse, perché, anche se la struttura drammaturgica è presto chiara e non subisce variazioni, lo tengono insieme una coerenza visiva e una misura narrativa eccellenti.
Kughihara e Iguchi sono due yakuza appartenenti al clan dei Sanada. Cercano di evitare la vendetta dopo che il loro capo è stato brutalmente assassinato dai rivali del gruppo Otaki. Gli accordi per evitare una sanguinosa guerra fra clan sono condotti da Hijikata, leader dei Bando.Tuttavia, insieme a Nakajo e Konna, della famiglia Otaki, Hijikata complotta per diventare leader dei due gruppi rivali. Kunisada, uno del clan Sanada, a differenza dei compagni di clan, vuole vendetta.
Il detective Kiriya Tatsuhito della polizia di Tokyo è chiamato ad indagare intorno ad alcuni omicidi nel quartiere di Shinjuku ad opera di una triade cinese comandata da Wang Zhiming. Inizialmente vende le proprie informazioni sul caso al gruppo rivale, gli Yamane, presto, però, scopre che Yoshihito, il giovane fratello avvocato, difende gli interessi della triade ed è probabilmente coinvolto in prima persona nel traffico di organi umani gestito da Wang. Proteggere il fratello diventa l’unico scopo del detective sconvolto…
Kikoku (鬼哭, distribuito come Yakuza Demon negli Stati Uniti) è un film yakuza giapponesediretto da Takashi Miike . Il film riunisce Miike con Riki Takeuchi , che interpreta il personaggio principale.
Seiji (interpretato da Takeuchi) è cresciuto come un orfano cresciuto dal suo capo Muto. La famiglia Muto è composta solo dal boss Muto, Seiji e Yoshi e funge da ramo della più ampia famiglia Date. Quando Muto è chiamato a saldare i suoi debiti con la banda, giura invece di assassinare un alto ufficiale della famiglia rivale Tendo. Seiji si offre di eseguire lui stesso l’assassinio, ma Muto lo proibisce perché Seiji ha già scontato una condanna per omicidio di 15 anni per un colpo legato a una banda. Il giorno dopo, Muto viene arrestato per possesso illegale di arma da fuoco e condannato a scontare 2 anni di carcere.
Un uomo mediamente infelice, dalla famiglia disastrata e dall’attitudine vittimista ha una sola passione: Zebraman, il supereroe protagonista di una serie televisiva di quart’ordine. Per questo passa tutto il suo tempo libero a cucirsi un costume identico a quello dell’eroe e nel disperato tentativo di vivere, anche per finta, un’identità più soddisfacente comincia a girare di notte indossandolo e atteggiandosi ad eroe. Le conseguenze sono immediatamente nefaste vista l’inettitudine del soggetto, capita però che contemporaneamente alcuni alieni stiano progettando di prendere il controllo della Terra, occasione perfetta per l’inetto di trasformarsi in eroe.
Una bella del Sud vive 37 anni in una villa solitaria, tormentata dai ricordi dell’assassinio del fidanzato. Parenti infidi che mirano alla sua eredità la terrorizzano con macabre trovate. Sulla scia del successo di Che fine ha fatto Baby Jane? (1962), un 2° thriller in cui O. de Havilland sostituisce la Crawford ammalata. 4 nomination agli Oscar, una delle quali per la fotografia di Joe Biroc. Il soggetto è di Henry Farrell, autore del romanzo che è all’origine di Baby Jane; anche lo sceneggiatore è il medesimo, Lucas Heller che ha più di un debito con P. Boileau e T. Narcejac e Les Diaboliques. L’anomala misoginia di R. Aldrich tocca qui il vertice del barocchismo.
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