Dalla finestrella di un ospedale a quella di un carcere: in mezzo 8 storie di donne accomunate da un destino di sottomissione umiliata in una società fondata sul potere maschile. Lo sfondo è Teheran, dove incombe la presenza occhiuta e violenta della polizia. Il titolo indica la circolarità tematica – l’impossibilità di una via di fuga – ma anche la sua struttura narrativa: il movimento della cinepresa che passa da una donna all’altra, da un dolore all’altro. Gli occhi delle donne sono ora rassegnati, ora fieri e ribelli. Il 3° film di J. Panahi non ha forse il lirismo raffinato di Kiarostami o la tensione metaforica di Makhmalbaf, ma, nella durezza con cui registra la coincidenza tra oppressione politica e oppressione maschile, possiede semplicità, lucidità e fluidità ammirevoli. Coprodotto in Italia da Mikado e Lumière & c. e non distribuito in Iran. Leone d’oro e premio Fipresci a Venezia 2000.
Moglie incinta di un contadino, colpito da un calcio al basso ventre durante una lite con il capo del villaggio, insoddisfatta della troppo mite sentenza locale, va in città a reclamare giustizia e scuse ufficiali. 5° film del talentoso Z. Yimou, tratto da un romanzo di Chen Yuan Bin, sembra _ ma non lo è _ più allineato dei precedenti. L’aneddoto esile, ma robusto come uno spago, serve a raccontare la Cina d’oggi in immagini chiare e distinte, cariche di emozione con la sordina. Leone d’oro a Venezia 1992 con premio a G. Li (1965) il cui incanto di artigliata dolcezza è soffocato da panni pesanti. Scoperto soltanto il volto che è una finestra sul mondo.
Lou, un grigio balordo che si fa mantenere da una tardona, ha un’avventura con la giovane Sally di cui assume la protezione uccidendo due gangster che la perseguitano. Sapientemente ambientato nella cornice della famosa città termale decaduta, è un dramma gangster dove contano i personaggi più che l’azione. Dominato da un ottimo Lancaster, diretto con intelligenza da Malle in scene d’amore e violenza. Leone d’oro a Venezia ex aequo con Gloria di J. Cassavetes.
Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono eterni rivali. Scudieri normanni con alterne fortune, affrontano la vita come il campo di battaglia. Jean de Carrouges crede nella spada e nell’onore, Jacques Le Gris nell’astuzia e nella fedeltà a chi fa i suoi interessi. Se il primo è abile sul campo, il secondo è scaltro a corte dove si guadagna la simpatia e la protezione di Pierre d’Alençon, conte e cugino del re Carlo VI. Ma più della competizione per i feudi può la bellezza di Marguerite de Thibouville. Sposa con dote di de Carrouges, Marguerite diventa l’ossessione di Le Gris, che approfitta dell’assenza del rivale per rivelarle tutta la meschinità dei suoi sentimenti.
A Ravenna, ridotta a deserto industriale, una giovane borghese nevrotica, moglie di un ingegnere, cerca vanamente un equilibrio. 9° film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva (fotografia di Carlo Di Palma, Nastro d’argento) come espressione di una realtà dissociata e con ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come “mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose”. Come nei 3 precedenti film con Monica Vitti, la donna è l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata. Leone d’oro a Venezia.
Una gioia per gli occhi, ma il resto? Due le intenzioni di Castellani: fare della trasposizione uno spettacolo il meno aulico possibile e rendere “italiani” personaggi, usi, costumi, ambiente, ancorandoli alla tradizione pittorica del Quattrocento (Uccello, Carpaccio, Pisanello, Botticelli, Ghirlandaio…), scegliendo gli esterni tra Venezia, Siena, Verona, Montagnana, Sommacampagna, Castelvecchio. Splendida fotografia di R. Krasker. Protagonisti giovani, ma poco scattanti: meglio i personaggi di contorno. Di grande dignità figurativa, ma un po’ algido. Né Shakespeare né Luigi Da Porto, come il regista avrebbe voluto. C’è anche Elio Vittorini come principe Bartolomeo. Sopravvalutato al suo tempo (Leone d’oro a Venezia nell’anno di Senso , L’intendente Sanshô , La strada , Fronte del porto ) e sottovalutato dopo.
Il film racconta del processo a Elsa Lundenstein che ha ucciso il vecchio amante affetto da un tumore alla gola iniettandogli una forte dose di morfina. Elsa ha cercato di sbarazzarsi di un uomo che le era divenuto odioso, o ha praticato, come lei stessa sostiene, l’eutanasia?
Considerata una prova registica minore dei fratelli Coen, la pellicola non è avulsa da intenti pedagogici che sfociano a tratti in una visione statica, non tanto dell’interiorità dei protagonisti, quanto dell’assenza di una serrata fluidità avvincente tra le varie sequenze. Qui, come ovunque, troviamo la capacità singolare di travalicare i generi filmici e come rumore di sottofondo quel costante odore di western misto a uno sconfinato orgoglio di frontiera, dove il solo limite per la sempre cantata America (in questa pellicola celebrata nello stesso titolo) è data da un confine che è l’antinomia stessa del concetto di confine: l’Oceano. Allo stesso modo i loro personaggi (spesso cuciti su attori professionisti di nota fama) sembrano “strabordare” di continuo. Ma se il paradosso diviene più che una chiave di lettura il leit motiv dell’intento registico dei geniali fratelli, violando sempre le colonne d’Ercole della credibilità e verosimiglianza (dato restituitoci da una sinossi che sposa un criminale con una sbirra americana), questa pellicola è il riverbero di personaggi che si incastrano in una legenda di significati folkloristici, talmente surreali da divenire archetipi ma pur sempre fuori dall’apnea dei luoghi comuni del cinematografo da botteghino. Plot eccessivo nella sua dicotomica linearità (da un lato Nathan Arizona, magnate dei divani e capace di inseminazioni da parto plurigemellare, dall’altro un comunissimo criminale da due cents perdente dapprima nella fecondità e poi nel lavoro e nella credibilità) e non privo di un certo eco reazionario in cui l’avversione dei fratelli Coen al governo dell’epoca si staglia sulla rappresentazione esasperata di due ceti agli antipodi, sullo sfondo degli anni ’80. L’opera rimane ancora oggi una promessa più che una partita chiusa e le pellicole successive ne sono l’esatta conferma.
1951, teologia e comunismo a Hollywood. E tante risate. Un produttore cattolico (Brolin in formissima, fusione di 2 pezzi da 90 della Hollywood degli anni d’oro: Eddie Mannix, vicepresidente della M-G-M, e il suo capo ufficio stampa Howard Strickling) manda abilmente avanti e preserva l’illusione di quella fabbrica di sogni che è Hollywood. Nell’arco di una giornata, si destreggia tra la repressione morale, lo sconvolgimento socio-politico, la black list di McCarthy, e riconduce sulla retta via le star sotto contratto del suo Studio. Lo scopo è evitare scandali da prima pagina (deliziosa Swinton nel doppio ruolo di reporter). Clooney è un centurione romano convertito sotto la croce di Cristo nella produzione Ave, Cesare! La Johansson fa il verso a Esther Williams in La ninfa degli antipodi , mentre Tatum danza sulle orme di Gene Kelly. I Coen hanno fabbricato una commedia spensierata. Un’ironia colta con memorabili citazioni rende omaggio alla produzione cinematografica degli anni d’oro di Hollywood. Un’ironia dissacrante prende in giro un’epoca che non c’è più con quella catena di montaggio di film in costume… da bagno, da cowboy, da ballerino, da antico romano… dove l’atmosfera surreale di metacinema è resa magicamente da una assortita galleria di personaggi irresistibili e (con)vincenti. Come per i loro film passati, i 2 fratelli utilizzano una voce fuori campo (Michael Gambon) per dare una brezza fiabesca.
I modelli Carl e Yaya, dopo aver discusso di denaro una sera al ristorante, vengono invitati ad una crociera di lusso, tra milionari soli e accompagnati di varie provenienze e anziani e gentili fabbricanti d’armi. Ma la sera della cena col capitano una terribile mareggiata getta ospiti e equipaggio nel caos più totale, e i due bellissimi si ritrovano spiaggiati su un’isola, senza essere in grado di procurarsi aiuto né cibo.
Alexia ha una placca di titanio conficcata nel cranio a causa di un incidente passato. Ballerina in un ‘salone di automobili’, le sue performance erotiche la rendono preda facile degli uomini, che l’approcciano senza mezze misure. Ma Alexia uccide con un fermaglio chi si avvicina troppo e colleziona omicidi che la costringono a fuggire e ad assumere l’identità di un ragazzo, Adrien, il figlio scomparso dieci anni prima di un comandante dei pompieri. Lei è una macchina programmata per uccidere che cerca un rifugio, lui una divisa programmata per salvare vite che ha disperatamente bisogno di prenderla per qualcun’altro. Tutto li separa ma poi qualcosa improvvisamente li unisce per sempre.
Dheepan deve fuggire dalla guerra civile dello Sri Lanka e per farlo si associa con una donna e una bambina. I tre si fingono una famiglia e riescono così a scappare e rifugiarsi nella periferia di Parigi. Anche se non parlano francese nè hanno contatti. Trovati due lavori molto semplici (guardiano tuttofare e badante) i due scopriranno la vita da periferia, le bande e le regole criminali che vigono nel posto che abitano. Quando arriverà inevitabile lo scoppio della violenza e degli spari occorrerà prendere una decisione, se rimanere insieme o separarsi. Qualsiasi storia nel cinema di Audiard per raggiungere il paradiso del sentimentalismo, quella punta emotiva che suscita nello spettatore l’irrazionale sensazione di partecipazione alle vicende dei personaggi, deve passare per l’inferno della violenza. Come se le due forze fossero inscindibili nei suoi film si attraggono a vicenda: gli atti violenti o criminali chiamano amore e ogni amore per concretizzarsi prima o poi richiede di essere legittimato dalla violenza, altrimenti sembra non poter essere davvero tale. Destinato a mettere a confronto e a sovrapporre questi due estremi, questa volta Audiard decide di eliminare ancora più del suo solito il primo livello di comunicazione. I protagonisti di Dheepan fanno molta fatica a parlarsi, non solo spesso non si capiscono per problemi di lingua ma anche quando parlano lo stesso idioma è come se non riuscissero ad essere chiari gli uni con gli altri. In un cinema in cui l’unica legge che conta è quella dei corpi, strusciati o impattati, non sarà mai con le parole che si potrà risolvere qualcosa, in storie in cui l’unica verità è quella espressa dagli istinti non è con il ragionamento che si può cambiare la propria vita. I protagonisti di Dheepan hanno solo i fatti e le azioni per spiegarsi ma per Audiard bastano e avanzano. Il regista non teme di scrivere una scena di dialogo, forse la più bella ed intensa del film, tra due persone che parlano ognuno una lingua che l’altro non conosce, eppure sembrano stranamente sulla stessa lunghezza d’onda. Si tratta forse dell’unico momento nel film in cui si intravede un lampo della capacità quasi ottocentesca che quest’autore ha di raccontare gli uomini attraverso lo stordimento. Questa volta la riluttanza con cui il protagonista cerca di non farsi trascinare in un mare di efferatezza e di scegliere di costruire il suo opposto con una donna sembra però meno potente del solito. Coadiuvato da due interpreti decisamente meno abili e virtuosi di quelli cui Audiard ci ha abituato e caratterizzati con molta meno umanità del solito, il suo ultimo film appare come il più lieve, quello che con più difficoltà riesce ad accendere un fuoco sfregando i legnetti del suo arsenale. Dall’altra parte però Dheepan involontariamente conferma cosa sia ad attirarci verso questa storia e questo stile di racconto, anche quando meno riuscito. Si tratta della continua esistenza di un rumore di fondo tetro, la netta sensazione che in ogni momento emotivo esista una sottile paura della morte, la consapevolezza che tutta la passione mostrata possa prendere la strada del sangue come quella dell’amplesso e forse non esiste differenza. Del resto nell’inferno del palazzone grigio e indifferente in cui si svolge il film si consumano sparatorie e guerre fra bande nelle quali striscia la possibilità di tramutare una famiglia finta in famiglia vera. L’ultima possibile eredità del cuore pulsante del noir (inseguire un amore nei luoghi e nelle situazioni che rendono più difficile rimanere vivi) è forse davvero questa.
A Los Angeles nella lotta contro il crimine si usa un mostro volante che spia, controlla e uccide. È un sofisticato elicottero che potrebbe servire per altri e più loschi scopi. Pilota democratico si oppone. Stringato e avvincente nella 1ª parte, si dilata poi in fanfaronate spettacolari. Personaggi a due dimensioni, ma affascinante come flipper altisonante e multicolore
Intorno al 1913 la quieta vita di Eichwald, paese della Germania del Nord, è turbata da una serie di strani e crudeli incidenti, all’apparenza privi di spiegazione. Non si riesce a individuare i responsabili. Il maestro della scuola locale – anche voce narrante – riunisce i fili degli eventi finché raggiunge una terribile verità che potrebbe essere il frutto di un’interpretazione paranoica. Il pastore protestante si rifiuta di credergli. Lo scoppio della guerra 1914-18 porta il maestro a non tornare più nella comunità. 1° film in lingua tedesca dal 1997 del regista austriaco “al quale preme rappresentare l’impossibilità di fare i conti con la realtà, oggi come ieri” (P.M. Bocchi) che ne fa il resoconto di un orrore a macchia d’olio inconcepibile più che inammissibile. È un film in bianco e nero (più bianco che nero) che lascia libero lo spettatore di decifrare i misteri della vicenda. Chi sono i colpevoli: i bambini o gli adulti? Senza quasi mai usare il primo piano, Haneke si pone di fronte alla realtà illeggibile di un panorama umano di vizi privati e pubbliche virtù sotto la coperta pesante del perbenismo. Suggerisce che potrebbe essere il terreno di cultura e la massa acritica del futuro nazismo. Palma d’oro al Festival di Cannes 2009. Distribuito da Lucky Red. Scritto da Haneke con Jean-Claude Carrière.
Texas, anni Cinquanta. Jack cresce tra un padre autoritario ed esigente e una madre dolce e protettiva. Stretto tra due modi dell’amore forti e diversi, diviso tra essi per tutta la vita, e costretto a condividerli con i due fratelli che vengono dopo di lui. Poi la tragedia, che moltiplica le domande di ciascuno. La vita, la morte, l’origine, la destinazione, la grazia di contro alla natura. L’albero della vita che è tutto questo, che è di tutte le religioni e anche darwiniano, l’albero che si può piantare e che sovrasta, che è simbolo e creatura, schema dell’universo e genealogia di una piccola famiglia degli Stati Uniti d’America, immagine e realtà. L’attesa della nuova opera di uno degli sguardi più dotati e personali dell’arte cinematografica è ricompensata da un film tanto esteso, per la natura dei temi indagati, quanto essenziale. Popolato persino da frasi quasi fatte, che la genialità del regista riesce a spogliare di ogni banalità e a resuscitare al senso. Malick parla la sua lingua inimitabile, le cui frasi sono composte di immagini (tante, in quantità e qualità) e di parole (molte meno) in una combinazione unica, senza mai pontificare. Si ha più che mai l’impressione che con questo film, che parla a tutti, universalmente, non gli interessi comunicare per forza con nessuno, ma farlo innanzitutto per sé. Testimone di una capacità rara di sapersi meravigliare, ha realizzato un film che non si può certo dire nuovo ma nel quale Terrence Malick si ripete come si ripropone il bambino nell’uomo adulto, per “essenza” vien da dire: ci si può vedere la maniera o, meglio, ci si può vedere l’autore. Del film si mormorava addirittura che avrebbe riscritto la storia del cinema e in un certo senso The Tree of Life fa anche questo, senza inventare nulla ma spaziando dall’uso di un montaggio emotivo da avanguardia del cinema degli esordi ad una sequenza curiosamente molto vicina al finale del recentissimo Clint Eastwood, Hereafter. Il confronto, però, scorretto ma tentatore, non si pone: la passeggiata di Malick in un’altra dimensione è potente e infantile come può esserlo solo il desiderio struggente che nutre il bambino di avere tutti nello stesso luogo, in un tempo che contenga magicamente il presente e ogni età della vita. Ecco allora che il film non sarà nuovo ma rinnova, ritrovando un’emozione primigenia, fondendo ricordo e speranza. L’ultimissima immagine non poteva che essere un ponte.
“Sono il più patriottico degli Americani perché credo nei principi che hanno dato vita a questa nazione e mi do da fare perché vengano ristabiliti”. Così Michael Moore in un’intervista per la ‘bibbia’ del cinema “Variety”. In effetti Fahrenheit 911 è un film patriottico perché crede nel popolo americano pur non avendo alcuna fiducia in chi lo governa in questo periodo. Moore riduce al minimo, rispetto a Bowling a Columbine, la sua presenza sullo schermo per lasciare spazio al suo nemico pubblico numero 1 George W. Bush e al gruppo che ha portato alla Casa Bianca dopo un’elezione che ha lasciato dietro di sé più di un dubbio di legittimità. Moore però non si limita a mostrare e dimostrare le bugie dell’Amministrazione Bush (dai rapporti con Bin Laden alle dichiarazioni contraddittorie nell’arco di poco tempo sull’Iraq) ma va a cercare tra il popolo i motivi dell’arruolamento dei giovani nell’esercito per giungere poi, in un’apoteosi di populismo mediaticamente efficacissimo, ad andare davanti al Senato a offrire ai senatori il modulo per l’arruolamento da consegnare ai loro figli. Una democrazia che voglia avere il diritto di proclamarsi tale ha bisogno di ‘arrabbiati’ come il premio Oscar Moore.
Un film di Maurice Pialat. Con Sandrine Bonnaire, Gérard Depardieu Titolo originale Sous le soleil de Satan. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 113 min. – Francia 1987.MYMONETRO Sotto il sole di Satana valutazione media: 3,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Dal romanzo di Georges Bernanos, il film ha avuto la Palma d’oro al Festival di Cannes del 1987. Protagonista è un giovane prete, maldestro ma pieno di buona volontà. Per mortificarsi della sua inettitudine, si infligge delle punizioni corporali, che lo spossano. Durante una terribile notte, Satana gli fa visita sotto le spoglie di un simpatico mercante di cavalli. Poi incontra Mouchette (un personaggio che ricorre spesso nelle opere di Bernanos), prostituta e infanticida. Il prete con tutte le sue forze cerca di salvarla dalla dannazione.
Tratto da un libro autobiografico (1975) di Gavino Ledda. Pastore di Siligo (Sassari), Gavino vive fino a vent’anni con il gregge tra i monti, strappato alla scuola, separato dalla lingua, escluso dalla collettività. Durante il servizio militare in continente, studia e prende la licenza liceale. Esplode allora la ribellione contro il padre che, di fatto e per necessità, è stato lo strumento della sua separazione. Esce dallo scontro vincitore, colmo di pietà e di terrore. Apologo sulla necessità di spezzare il potere autoritario e sul rifiuto del silenzio, ha nella colonna sonora e musicale (Egisto Macchi) il suo versante più inventivo. Pur con durezze didattiche e scorie intellettualistiche, è un film razionale e lucido che assomiglia al paesaggio sardo: ventoso e scabro, enigmatico e violento, soffuso di una luce che gli dà la nobiltà maestosa di un quadro antico. Un intenso O. Antonutti e un duttile S. Marconi nella parte di Gavino sono i protagonisti. Prodotto dalla RAI. Palma d’oro a Cannes da una giuria presieduta da Roberto Rossellini. Fu l’ultima delle sue trasgressioni alle regole del gioco.
Essendo morto il marito Lord Thomas Franklin, rappresentante della Contea in Parlamento, mentre ella si ritrovava ad una frivola festa, Lady Hellen Franklin finisce in clinica per esaurimento nervoso e in preda a grande desiderio di morire. Curata, ma ancora molto depressa, viene condotta alla casa della madre da un autista titolare di una piccola e nuova autorimessa da noleggio, certo Steven Ladbatter. La giovane e aristocratica donna, trovatasi a suo agio a contatto con Steven, se ne serve più volte nei tempi successivi e, incurante delle tradizioni o delle malignità, gli dimostra familiarità uscendo con lui per delle passeggiate in campagna e sedendo accanto a lui sul sedile dell’auto.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni
6° LM di Ceylan e, dopo Uzak (2003), il 2° che vince il Grand Prix du Jury a Cannes 2011. L’Anatolia è un altopiano stepposo di circa 500 000 kmq, quasi 200 000 in più del territorio italiano. I primi 90 dei 157 minuti di questo poliziesco si svolgono al buio, illuminato dalla splendida fotografia di Gökhan Tiryaki. Dal tramonto a notte fonda 2 auto e una jeep percorrono le strade non asfaltate dell’altopiano. Un magistrato, un medico legale e 9 poliziotti scortano 2 uomini che, ubriachi, hanno sepolto in un luogo imprecisato un loro amico. Cercano il cadavere. Dai dialoghi apparentemente banali emergono aspetti oscuri del delitto. Coprodotto e scritto dal regista con Ebru Ceylan e Ercan Kesal, offre molti spunti interessanti: un’autopsia in tempo reale; un’apparizione magica; il tema del suicidio come punizione. Distribuisce Parthénos.
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