Nella Moldavia del Seicento la principessa Asa è condannata e giustiziata per stregoneria col suo amante e sepolta nella tomba di famiglia. Due secoli dopo due medici russi in viaggio la riportano casualmente in vita. La strega cerca di impossessarsi di Katia, una sua discendente che le somiglia come una gemella. Vagamente ispirato al racconto Il vij dell’ucraino Nikolaj V. Gogol’, è l’esordio nella regia di Bava, grande direttore della fotografia e geniale mago di trucchi che qui, appoggiandosi a un suggestivo apparato scenografico, esaltato da una fotografia virtuosistica che determina l’atmosfera, gli spazi, le emozioni, si cimenta in un esercizio di delirante necrofilia. Grande successo internazionale, il film contribuì al lancio della Steele. Rifatto per la TV a colori da Lamberto Bava, figlio di Mario.
Inghilterra, alla fine dell’Ottocento. Appassionata storia d’amore in forma di ritratto in piedi di una ragazza di campagna che cerca di dimostrare le sue nobili origini, ma finisce per ritrovarsi con un figlio illegittimo. Si ribella, uccide il seduttore, è punita. Dal romanzo Tess dei D’Urbervilles (1891) di Thomas Hardy. Tre temi centrali: natura, amore e destino. Lungo ma non prolisso. Troppo decorativo, sebbene squisito, nell’ultima parte trova la sua giusta combustione drammatica. Manca di sensualità e di slanci lirici. 3 Oscar: fotografia (Geoffrey Unsworth e Ghislain Cloquet), scene, costumi. Restaurato dalla Cineteca di Bologna.
In una New York a corto di acqua e dove la guerra è arrivata in forma di terrorismo, con attentati kamikaze, il giornalista Joel e la fotografa Lee hanno deciso che è rimasta una sola storia da raccontare: intervistare il Presidente degli Stati Uniti, da tempo trinceratosi a Washington mentre dilaga una feroce Guerra Civile. Partono così per un viaggio verso la capitale, cui si aggregano l’anziano e claudicante giornalista Sammy e la giovane fotografa Jessie, che vede in Lee un modello da seguire. Contro quel che resta del governo si muovono le truppe congiunte Occidentali di Texas e California, ma la regione che i giornalisti attraverseranno nel loro viaggio non è fatta di battaglie campali tra schieramenti ed è invece preda di un caos di microconflitti e atrocità.
Famoso ballerino s’innamora a Londra di gentile signora in attesa di divorzio. 2° film RKO della più grande coppia di ballerini mai vista sullo schermo. Trabocca di balletti deliziosi e di canzoni. C’è la stupenda “Night and Day”, ma anche “Continental” (17′ di danza e musica) dove, per chi sa vedere, è chiaro che per la coppia ballare corrisponde a far l’amore. C’è anche B. Grable, allora sconosciuta, che si fa valere.
Dal romanzo di Pascal Brukner. Due coppie si incontrano su una nave in crociera per l’India: Nigel e Fiona, Oscar e Mimì. Nigel è un manager piuttosto convenzionale; sua moglie sembrerebbe la sua perfetta omologa, almeno in apparenza. Oscar è su una sedia a rotelle: è un cinico e depravato scrittore americano fallito che vive a Parigi. Mimì è bellissima, parigina e magica, fa sparire le altre donne. Oscar si accorge che Nigel mira a sua moglie e lo incoraggia, ma “in cambio” dovrà ascoltare tutta la sua storia, come fosse un analista.
Dopo la morte del padre, lo scrittore fallito Ryota prova a recuperare i rapporti con la sua famiglia mentre è in arrivo un tifone su Kiyose, vicino a Tokyo. È presa da una canzone la frase detta dalla madre al figlio (titolo originale del film), “Wakare no yokan” di Teresa Teng, e significa “Anche più profondo del mare”. Quando il protagonista capisce che per la sua famiglia, divisa e distrutta dalle sue azioni superficiali del passato, prova un amore così, allora ricomincia a vivere. La famiglia è il cardine e il centro di questo dramma personale: la tempesta spazza via a Ryota i paraocchi: una vita sprecata tra scommesse e bugie, piatta e anonima, e gli consente di partire alla ricerca di sé stesso, forse più che di un’ispirazione per il suo romanzo. Poetica della quotidianità: non accade nulla di eclatante, la vita scorre per un paio di giorni sufficienti a delineare le personalità e i rapporti che intercorrono tra loro in maniera netta e precisa. Lo spettatore è solo invitato ad assistere e lasciarsi trasportare dall’emozione. Girato prima del precedente film Little Sister , ma uscito solo in seguito, dopo Cannes.
Dal romanzo (1870) di J. Verne: due scienziati e un marinaio, naufraghi, sono ospitati a bordo del Nautilus, sottomarino (del 1860!) ideato e guidato dal vendicativo capitano Nemo che fa la guerra alle grandi potenze. Un po’ bovino e a una dimensione sola rispetto a Verne, ma ricco di sequenze avvincenti e di un rispettabile cast, anche se il vero eroe del film è l’operatore Franz Planer. Oscar per scenografia (John Meehan) ed effetti speciali (John Hench).
Pii turisti in una zona rurale del Texas incontrano una bizzarra famiglia di maniaci che hanno idee assai particolari sui pezzi di carne che servono per fare una grigliata all’aperto. Film d’esordio a basso costo del texano Hooper, ispirato alle gesta criminali di un personaggio della cronaca (Ed Gein), già fonte d’ispirazione per Psycho (1960) di Hitchcock, è uno shocker di importanza storica che aprì la strada alla profonda metamorfosi del cinema orrorifico tra gli anni ’70 e ’80, imperniato sull’ossessione fantastica dello smembramento del corpo rappresentato in tutta la sua fisicità. Forsennato e visionario, è leggibile a vari livelli. Ebbe 2 seguiti, di cui il 2° è uscito in Italia soltanto in cassetta, e un remake nel 2003.
Raccolto da un galeone spagnolo dopo un naufragio, il temibile pirata Capitan Red scopre che sulla nave c’è un prezioso trono azteco. Con l’aiuto del suo mozzo, Ranocchio, decide di impossessarsene. Tornato alla regia dopo un’assenza di 8 anni, Polanski ha cucito un film divertente, simpatico e sardonicamente irrispettoso, senza abusi di effetti speciali né tendenze al gigantismo hollywoodiano, ma con un nucleo centrale irrisolto, una opacità di fondo che probabilmente dipende dall’incapacità di Polanski di adeguarsi allo spirito e ai ritmi della commedia, se non volgendoli al grottesco.
Col marito Thomas Janes (Penn), poeta alcolista in crisi coniugale e creativa, la fotografa Jean (McCormack) va sull’isola di Smuttynose, di fronte alle coste di New Hampshire e Maine, a fare un servizio sul misterioso caso di un duplice omicidio avvenuto nel 1873 e sanzionato con la condanna a morte di un uomo forse innocente. A portarli su una barca a vela è Rich (Lucas), fratello di Thomas, accompagnato dalla fidanzata Adaline (Hurley). Accentuate dalla forzata convivenza in barca, le tensioni tra le due coppie si alternano con la rievocazione in montaggio parallelo dell’antica vicenda. Da un romanzo di Anita Shreve, sceneggiato da Alice Arlen e Christopher Kyle, il 6° lungometraggio della californiana Bigelow è coerente col suo cinema, imperniato sul confronto etico, ma anche epico, tra mondi separati e giustapposti. Le due storie sono narrate e commentate dalla voce off di due personaggi femminili (Jean, Maren). È un film materico, pesante, in regola col titolo originale, ma anche fantasmatico, non senza risvolti onirici, dominato dalla presenza incombente degli elementi naturali. Film imperfetto, ma anche affascinante per chi sa apprezzarne l’insistenza sui dettagli, i gesti ambigui, gli slittamenti di sensibilità, i tempi sospesi. Fotografia di Adrien Biddle.
Blake è la copia addolorata di Kurt Cobain, che si consuma e consuma gli ultimi giorni della sua vita. La cronaca lirica e monotona della sua solitudine esistenziale è interrotta da un venditore di Pagine Gialle che gli pone quesiti inserzionistici, da un detective che rivela storie e aneddoti dimenticando il soggetto investigato e dalla madre di Blake che lo supplica di andare via con lei. Intorno alla casa, che lo contiene insieme alla sua musica, respira la natura, scorre l’acqua in cui Blake monda i peccati e fa scivolare il dolore. Circondato da giovani coinquilini indifferenti, Blake compone il suo requiem e si congeda dal suo corpo. Last days è il capitolo finale di una trilogia sulla morte: cominciata con Gerry, due giovani perduti nel deserto, e proseguita con Elephant, due studenti omicidi alla Columbine High School. A partire da Gerry, Gus Van Sant ha cercato di allontanarsi dalla narrazione tradizionale, lavorando in maniera originale e differente sul contenuto e la forma. Lo spazio è unico: il deserto, la scuola, la casa. Il tempo è circolare: si apre e si chiude sul corpo e il volto di Michael Pitt. Last days gioca con la sensazione di tempo reale e con le suggestioni che può creare il suo trascorrere. Il tempo quasi scaduto di Blake si muove orizzontalmente, in maniera ripetitiva, ma allo stesso modo suggerisce una progressione che porta all’atto finale e definitivo. Nel ripercorrere gli ultimi giorni del leader dei Nirvana, Van Sant rinuncia a investigare le motivazioni che lo hanno consumato, lasciando più di una domanda in sospeso. Non concede allo spettatore puntuali informazioni drammaturgiche e il film resta disabitato e lontano come la casa in cui il protagonista si rifugia e ripiega su stesso. Oltre quello che vediamo non c’è nulla, niente passato e niente futuro, soltanto il presente e la gelida cronaca di una morte (suicidio?Omicidio?Fatalità?). Kurt Cobain secondo Van Sant diventa una riflessione autoriale sull'”elefante” che nessuno vede ma ciascuno tende a rappresentarsi, sull’America giovane e invisibile lanciata nel vuoto. Così capita che l’elefante si appassioni alla morte come alla musica, quella suonata da Blake alla finestra, solo, singolo, senza più band.
La notte del 24 dicembre (nel Giappone scintoista soltanto l’uno per cento della popolazione è cristiana) tre senzatetto di Tokyo – il barbone Gin, il travestito Hana e la ragazzina Miyuki, scappata di casa – trovano nella spazzatura una neonata. Sulle tracce di una foto e di un biglietto da visita, i tre “padrini” attraversano la città e rintracciano una ragazza disperata per un suo recente aborto, che aveva rapito la bambina in ospedale. Possono così arrivare ai genitori. Probabilmente ispirato a In nome di Dio (1948), western natalizio di Ford (tratto da un romanzo già portato 5 volte sullo schermo), e scritto dal regista Kon con Keiko Nobumoto, è un intelligente film d’animazione double-face : la sua dimensione favolistica ed edificante alla Dickens, adatta ai bambini, è contraddetta, non senza crudele e sottile malizia, dalla realistica e impietosa descrizione della metropoli e da molti segni che suggeriscono come sia astratta e illusoria la ricerca della felicità e dell’amore familiare. 3° lungometraggio di Kon, tecnicamente raffinato con uso funzionale degli effetti digitali.
La scultrice Yeon, moglie tradita e madre riluttante di una bimbetta, comincia a far visita, spacciandosi per una sua ex fidanzata, a un condannato a morte che ha tentato due volte il suicidio. Seminvisibile demiurgo elettronico del plot, il direttore del carcere non solo la fa passare, ma gradualmente l’asseconda nelle sue bizzarrie scenografiche con cui si propone di ridare all’omicida il gusto della vita e di sedurlo. Entra in azione il marito geloso (musicista?) che vuole riconquistarne l’affetto. In concorso a Cannes 2007, quest’enigmatico film a basso costo, chiuso in 3 stanze e sul grigio percorso stradale dalla città al carcere, è piaciuto assai, forse troppo, ai critici. C’è chi l’ha definito “un kammerspiel sublime”. Anche allo spettatore medio, spiazzato dal cattolico Ki-duk che toglie più del solito (il mutismo quasi assoluto di Yeon), rimarrà nella memoria la rutilante tappezzeria mobile delle quattro stagioni (ancora…) con cui la donna arreda la stanza delle visite. Soom (titolo inglese più corretto: Breath , respiro) si presta a riserve. C’è una certa premeditazione artificiosa che qui vizia il suo indubbio talento. Riguarda soprattutto il personaggio femminile che lentamente rivela una insondabile violenza ferina.
David Gale è un professore che, nel Texas che pratica con convinzione la pena di morte, si oppone come leader di un movimento di protesta che dà fastidio al potere. Un giorno però viene incastrato da una studentessa che gli si offre per un rapporto sessuale e poi lo accusa di stupro. Da quel momento la sua vita è in caduta libera: la moglie lo abbandona portandosi via il figlio e perde il lavoro. Tutto questo viene raccontato a una zelante giornalista che lo intervista nel braccio della morte. Perché Gale è stato condannato per l’omicidio della sua collaboratrice Constance e attende che l’esecuzione abbia luogo. La giornalista vorrebbe poterlo salvare. Non bisogna raccontare di più di questo film di un Alan Parker che si affida a una struttura narrativa macchinosa per mutare lo stereotipo del film di impegno sociale che si mescola al thriller.
William Parrish è un miliardario che sente voci inspiegabili. La spiegazione c’è: è arrivato nella sua villa il bel Joe Black. Sua figlia Susan se ne innamora subito, ma nessuno sa che si tratta dell’Angelo della Morte venuto a prendere William. Va però prima salvaguardata l’azienda di famiglia che il subdolo Drew vorrebbe sottrargli. Brad ormai può fare di tutto, anche il killer più attivo al mondo in un film decisamente troppo lungo. Hopkins, anche lui, può permettersi di tutto e di più.
Il giovane Patch Adams, dopo diversi tentativi di suicidio, viene ricoverato in un ospedale psichiatrico in cui il disinteresse nei confronti dei pazienti regna sovrano. La situazione non sarà diversa alla Facoltà di Medicina a cui si iscrive. Il preside Walcott è un individuo decisamente cinico. Patch non sopporta tutto questo e, quando potrà occuparsi in prima persona di un ospedale, ribalterà la prospettiva. Travestimenti da clown, terapia del buonumore, attenzione vera nei confronti dei pazienti divengono la pratica quotidiana. Robin Williams gigioneggia senza freni in un film che si ispira alla realtà ma che non dimentica gli stereotipi.
Il regista Jarmusch, pur non apparendo del tutto in forma, si dimostra comunque sempre pungente. Cinque storie in taxi in cinque città molto diverse tra loro. A New York c’è l’attore Mueller-Stahl, che finito a Brooklyn per accompagnare un cliente, non trova più la strada del ritorno. A Roma c’è Benigni, qui troppo vicino a Il piccolo diavolo, che tra parolacce e fantasia sessuali fa quasi venire un infarto a un monsignore. A Los Angeles c’è Gena Rowlands, che lavora nel cinema e vuole far fare un provino a una tassista mascolina. A Parigi c’è Beatrice Dalle, cieca ma non troppo e infine a Helsinki un autista ha a bordo tre ubriachi.
10° film del regista coreano, è diviso in 3 parti: 1) “Vasumitra”. A Seul, figlia di un poliziotto e orfana di madre, la ragazzina Yeo-jin aiuta l’amica del cuore Jae-young a prostituirsi. Mettono da parte i guadagni per fare insieme un viaggio in Europa. Sorpresa dalla polizia con un cliente in un motel, Jae-young si butta dalla finestra. 2) “Samaria”. Yeo-jin comincia a prostituirsi, incontrando uno a uno i clienti dell’amica ai quali, invece di farsi pagare, restituisce i soldi dati a Jae-young. Il padre poliziotto la scopre e uccide uno dei clienti. 3) “Sonata”. Il poliziotto invita la figlia a far visita alla tomba della madre in campagna. Le insegna a guidare l’auto e poi si costituisce. Orso d’argento a Berlino 2004, è un film dissonante che spiazza gli spettatori e ha spaccato in due le accoglienze critiche. Disorienta, turba, sorprende. Comincia, partendo da un’antica storia indiana, con una visione idillica del sesso e della prostituzione dal punto di vista innocente di una ragazzina immatura, ma poi, attraverso la torva figura del padre poliziotto, la smentisce descrivendo la miseria meschina dei clienti, adulti della sua generazione. Pessimista, ma non nichilista alla moda, impregna il racconto di un furente moralismo che è anche un atto d’accusa contro la società del benessere. Rimane intatta la maestria stilistica del regista che l’ha anche prodotto per essere più libero.
Nam Chul-woo è un povero pescatore nordcoreano che nella sua barca ha l’unica proprietà e l’unico mezzo per dare da mangiare a sua moglie e alla loro bambina. Un giorno gli si blocca il motore mentre sta occupandosi delle reti in prossimità del confine tra le due Coree e la corrente del fiume lo trascina verso la Corea del Sud. Qui viene preso sotto controllo delle forze di sicurezza e trattato come una spia. C’è però chi non rinuncia all’idea di poterlo convertire al capitalismo lasciandogli l’opportunità di girare, controllato a distanza, per le strade di Seoul.
Protagonista è Brian Slade, scomparso in seguito a quello che avrebbe dovuto essere un finto delitto in scena. Haynes utilizza la struttura narrativa di Citizen Kane per rievocare la fine degli anni Sessanta, il glam rock e il kitch. Anche qui infatti un giornalista indaga sulla morte e sulla vita del misterioso cantante.
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