Rynn, tredicenne figlia di un poeta pazzo e suicida, vive da sola in una casa un po’ sinistra. Diventa una sorta di “bimba omicidi”, togliendo di mezzo col cianuro tutti coloro che in qualche modo le danno fastidio.
Dave, un 19enne dell’Indiana, sarebbe un adolescente americano qualsiasi se non fosse affetto, sull’onda di una passione per la bicicletta, da un’acuta italofilia. Il suo eroe è Felice Gimondi, il suo gatto si chiama Fellini, mangia cibi italiani, ascolta dischi di Rossini e Donizetti. Con tre amici s’iscrive a una corsa in linea a squadre. Vi partecipa un quartetto italiano della Cinzano che lo sbatte fuori di strada. È il crollo di un mito. Deliziosa e briosa commedia animata da un affiatato gruppo di interpreti, ben serviti da un’ottima sceneggiatura dello iugoslavo Steve Tesich che, su 6 nomination, ebbe l’Oscar e nel 1985 fu consulente di una miniserie TV intitolata L’America in bicicletta .
Dopo due anni nella clinica psichiatrica di Broysen, due ritardati mentali – Elling e Kjell – sono alloggiati insieme in un appartamento di Oslo a spese dell’assistenza sociale: devono imparare a entrare nella normalità e adattarsi alla realtà del mondo. All’origine c’è Brodre i blodet (1996) di Ingvar Ambjornsen, il 3° di 4 romanzi imperniati sul personaggio di Elling, già portato sulle scene ( Elling i Kjell Bjarne ) con successo con gli stessi due attori. Naess – che già l’aveva ridotto e diretto a teatro – ne ha fatto il suo 2° film, scritto con Axel Hellstenius, passato per 8 festival, 5 volte premiato e selezionato nella cinquina dell’Oscar 2002. È una commedia divertente, accattivante, fin troppo edificante. Ha la sua carta vincente nella strana coppia di cui Elling è la mente e Kjell il braccio. Se il secondo, gigante con l’anima di un fanciullino, rimanda al Ben di Uomini e topi di J. Steinbeck, Elling, inzuppato di complessi nevrotici, è una figura originale che, grazie anche al brio recitativo del suo interprete, giustifica la preferenza nel titolo.
Giovane divo della canzone pop, che manda in delirio il pubblico dei suoi fans con esibizioni canore impregnate di violenza masochistica, viene sfruttato da un governo di destra come parafulmine della protesta giovanile e poi trasformato in un pentito profeta religioso, adatto a spingere la gioventù verso un rientro nei ranghi di una normalità dove fede religiosa e obbedienza ai poteri costituiti sono tutt’uno. Sensibilizzato da una pittrice che l’ama, cerca di ribellarsi, ma è stritolato. Film di anticipazione politica di un regista della BBC che aveva acquisito fama internazionale con L’ultimo degli Stuart (1964) e Il gioco della guerra (1966, premio Oscar per il documentario), è un apologo troppo didascalico e piuttosto isterico che sostiene l’opinabile teoria di una contiguità e continuità tra fanatismo musicale e misticismo religioso.
Un film di Harry Edwards. Con Joan Crawford, Harry Langdon, Edward Davis Titolo originale Tramp Tramp Tramp. Comico, b/n durata 65 min. – USA 1926. MYMONETRO Di corsa dietro un cuore valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Dopo aver interpretato numerosi cortometraggi, nel 1926 Harry Langdon arriva a interpretare il suo primo lungometraggio, Di corsa dietro al cuore, diretto da Henry Edwards e codiretto da un giovane Frank Capra che ne cura anche la sceneggiatura e la produzione.Il sodalizioCapra-Langdon sarebbe in seguito proseguito con La grande sparata e Le sue ultime mutandine. Nel film, al fianco del comico, all’epoca all’apice della popolarità, appare una giovane esordiente di appena 21 anni, destinata a divenire una delle stelle più sfavillanti e controverse di Hollywood, Joan Crawford. Harry (Langdon) partecipa a una maratona podistica da New York alla California per conquistarsi i favori di una ragazza, Betty (Joan Crawford), figlia dell’organizzatore della corsa. Dopo innumerevoli gag, per Harry arriverà con la vittoria anche la scoperta che Betty è già fidanzata.
Nel 1940 il capo di una compagnia teatrale di polacchi, in una Varsavia occupata dai tedeschi, riesce, con una serie di travestimenti (anche da Hitler), a far fuggire un gruppo di patrioti e di ebrei verso la libera Inghilterra. Rifacimento dell’omonimo capolavoro (1942) di Lubitsch – il cui titolo italiano è Vogliamo vivere! – è un triplice omaggio: alla Polonia, zerbino d’Europa; al regista berlinese; al teatro. Brooks, produttore e interprete, ne ha fatto un film ancor più slavo ed ebraico (ma meno rigoroso) del precedente. In una compagnia di bravissimi attori spicca la Bancroft, doppiata da Livia Giampalmo. Trascinante come una pochade di un Feydeau impegnato.
The Merchant of Venice (1596-97) di Shakespeare conta 15 trasposizioni sullo schermo nel muto. Il 1° fu un Méliès (1901): 150 secondi. Col sonoro c’è il silenzio, se si toglie il mediocre film italo-francese di P. Billon. Almeno dopo il 1945 la presenza di un antagonista come Shylock lascia spazio al sospetto, se non alle accuse, di antiebraismo. Perciò l’inglese Radford, anche sceneggiatore, prende le sue precauzioni. Come tutti, anche a teatro, lavora di sottrazione sul testo originale, ma aggiunge una sequenza iniziale (senza dialoghi) ambientata nel ghetto. Shylock è un malvagio o un custode della legge, vittima del ruolo (l’usura) in cui la borghesia mercantile lo ha incastrato? Shylock ricambia con un odio che nasce dall’orgoglio ferito il disprezzo che Antonio, il protagonista del titolo, gli dimostra: l’ostilità tra i due non nasconde una forma di affinità? Non sono entrambi – l’uno ebreo, l’altro omosessuale (come qui Irons suggerisce con dolente malinconia) – “diversi” e in qualche misura capri espiatori di un sistema sociale? Radford non risponde o lo fa con reticenza. Confeziona un film in costume filologicamente corretto e lascia recitare a briglia sciolta un appassionato Pacino (doppiato da Giancarlo Giannini) che ha il suo momento di gloria (matt)attoriale nella famosa tirata del 3° atto. Esterni: Venezia e due ville venete; interni in Lussemburgo.
Per sfuggire ai nazisti, mite ebreo polacco deve unirsi a compatriota colonnello, accanito antisemita. Tragicomiche avventure per portare importanti documenti in Inghilterra. Dalla commedia Jacobowsky and the Colonel (1943) dell’austriaco Franz Werfel, un film garbato e avventuroso affidato ai contrasti recitativi della coppia Kaye-Jürgens. La pièce, suo ultimo lavoro, fu messa in scena prima in inglese nella riduzione di S.N. Behrman, e nel 1944 in tedesco ( Jacobowsky und der Oberst ). Nel 1965 ne fu tratta anche un’opera da G. Kleber.
Dal dramma (1964) del tedesco Peter Weiss (adattato da Adrien Mitchell) La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat rappresentati dai ricoverati del manicomio di Charenton sotto la direzione del marchese de Sade . L’azione si svolge nel 1808. Teatro filmato? Sì, ma di alta classe. Nel trasferire la sua messinscena dal palcoscenico allo schermo Brook è ricorso a un linguaggio filmico di forza suggestiva (primi piani alla Goya, sfocature, sapienti movimenti di macchina, luci dure; la fotografia è di David Watkin) e una compagnia di attori eccezionale tra cui spicca, primo tra pari, Magee (Sade). Il dialettico testo di Weiss e ancor più lo spettacolo di Brook hanno due padri spirituali: Brecht e Antonin Artaud, teorico del teatro della crudeltà. Almeno due scene memorabili: la flagellazione di Sade con i capelli sciolti di Charlotte Corday e la rievocazione del supplizio pubblico di Damiens. Edizione originale con sottotitoli.
Izzy, escort romantica aspirante attrice, per caso irrompe nei provini di una commedia in preparazione a Broadway e rimescola le carte delle relazioni sentimentali di regista, autore, attrice e attore principali. Alla fine saluta tutti, diventa una diva e si mette con Quentin Tarantino. Ideato all’inizio del 2000, ma bloccato dalla morte (2003) di John Ritter, che avrebbe dovuto esserne il protagonista, sceneggiato da Bogdanovich con Louise Stratton, è un omaggio alla screwball comedy del suo maestro Lubitsch – il tormentone degli “scoiattoli alle noci” è una citazione di Fra le tue braccia (1946) – con l’aggiunta di un po’ di vaudeville à la Feydeau e un pizzico di Woody Allen. Ma è anche il testamento artistico del 76enne regista, che traspone in Izzy la sua poetica della frivolezza e la sua filosofia di vita all’insegna della levità. Ritmo, brio, sapidità, satira, virtuosismo della cinepresa, attori strepitosi sincronizzati come ingranaggi perfetti di un orologio.
Dal Mahabharata (grande poema dei Bharata), il più vasto poema epico in sanscrito della letteratura indiana: diciotto libri per 106 000 distici, Brook, Jean-Claude Carrière e Marie-Hélène Estienne trassero uno spettacolo teatrale di 9 ore che fu messo in scena al Festival di Avignone nel 1985. Ne fu tratta una edizione TV di quasi 6 ore e una cinematografica che ne dura quasi 3. Con un ritmo largo da saga sfilano avventure eccezionali, violenti conflitti, nascite miracolose, sfide ai dadi, atti di magia, duelli barbari, furibonde battaglie, intermezzi umoristici. Il tema di fondo è tagliare i legami che uniscono gli eroi umani al mondo degli dei, trapiantarli sulla terra, metterli di fronte alle loro responsabilità di individui e poi di cittadini. Di alto decoro formale e talvolta di forte suggestione dinamica e figurativa, la regia di Brook concilia raffinatezza e semplicità. La recitazione di un’affiatata compagnia internazionale di attori è in un inglese che ha una limpidezza da Berlitz School e una densità da dramma shakespeariano.
Nei giorni drammatici precedenti la liberazione di Parigi, alla fine dell’ultima guerra, il generale tedesco Dietrich Choltitz che presidia la città si ribella all’ordine di Hitler di distruggere la capitale col fuoco.
Carsten, docente universitario di scienze sociali, ha una moglie attenta e colta che non ama più, un figlio violinista e un’amante, sua studentessa, attivista nella sinistra radicale. Quando la ragazza partecipa a un’azione di sabotaggio di una fabbrica di materiale bellico durante la quale un poliziotto rimane ucciso, Carsten decide di aiutarla, convincendola a dichiararsi non colpevole come i due suoi compagni. L’inganno riesce, ma i sensi di colpa prevalgono. Dopo La panchina (2001) e L’eredità (2003), è la 3ª parte di una trilogia sulle classi sociali danesi in forma di un dramma esistenziale in cui non mancano gli echi del cinema di I. Bergman, e non soltanto per la presenza di Pernilla August ( Fanny e Alexander ). “Fatto più di increspature successive che di traumi… è un ritratto psicologico ed esistenziale di profondo rigore e di insolita efficacia” (E. Martini). Pone domande senza dare risposte, induce a riflettere e a non schierarsi, ma a condividere le ragioni di tutti.
Un film di Alain Resnais. Con Claude Rich, Jean-Paul Belmondo, Charles Boyer, Anny Duperey, Gigi Ballista.Titolo originale Stavisky. Drammatico, durata 112 min. – Francia 1974. MYMONETROStavisky il grande truffatore valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Negli anni Trenta, la mancanza di qualsiasi scrupolo ed una audacia truffaldina fuori dal comune consentono al finanziere Stavisky (un personaggio storico) una vita tra le più brillanti ed agiate. Quando, dopo l’ultima impresa, il funzionario di una banca lo mette al corrente di un pesante ammanco, Stavisky crede ad un nuovo inganno.
Un film di Richard Donner. Con Julia Roberts, Mel Gibson, Patrick Stewart Titolo originale Conspiracy Theory. Giallo, durata 134 min. – USA 1997. MYMONETRO Ipotesi di complotto valutazione media: 3,15 su 13 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Jerry Fletcher (Gibson) è uno sciroccato taxista di New York che soffre in modo acuto della sindrome del complotto. Sembra un mattoide, ma non lo è: c’è qualcosa nel suo passato che ha dimenticato, ma che potrebbe ricordare. Se ne convince il procuratore Alice Sutton (Roberts), figlia di un incorruttibile giudice assassinato, che diventa con lui il bersaglio di una potente sezione deviata della CIA. Prodotto da Joel Silver per la Warner e scritto da Brian Helgeland (Oscar per L.A. Confidential ), è un thriller che rielabora un tema di Telefon (1977) di Don Siegel e, pur in modo allusivo, fa del famoso romanzo di Salinger Il giovane Holden il suo referente letterario. “Osservato con più attenzione, Jerry è una versione quasi perfetta del giovane Caulfield in età adulta… e come Holden è un romantico sotto mentite spoglie” (A. Zaccuri). Storia stramba, in bilico sull’assurdo, che incuriosisce, tiene sulla corda, copre bene le sue carte con una certa originalità nei particolari e sagaci scene d’azione.
In un paesino dello Yorkshire, la ruvida adolescente Mona (Press) che vive con il fratello, ex ragazzaccio diventato un fanatico religioso, incontra la conturbante, viziata e trasgressiva coetanea Tamsit (Blunt) e tra le due ragazzine la simpatia si trasforma presto in innamoramento appassionato. La fine dell’estate porta a Mona una bruciante delusione, ma non una sconfitta. Dal libro di Helen Cross, il talentoso Pawlikowski ha tratto un film con una confezione che ha l’atmosfera misteriosa e malinconica di Picnic a Hanging Rock , i contenuti di bollente e insieme candido erotismo di Lawrence e un duetto di attrici seducenti, veritiere e fuori dal comune per un’analisi profonda e acuta delle ossessioni e dei dolori adolescenziali. Interessante ambientazione nel mondo del “cristianesimo rinato” della provincia inglese.
Nella Mosca di Gorbaciov nasce una strana amicizia tra Liocha (Mamonov), sassofonista ebreo alcolizzato che vive solo per la musica, e Schlikov (Zaitchenko), tassista rozzo, violento e antisemita. Nella sua collera disperata, straripante di urla e di furore, ma anche di tenerezza, sapiente nella descrizione della metropoli comunista, sostenuto da una colonna sonora in presa diretta (gli assolo del sax tenore sono di Harold Singer), è un film profondamente russo con una struttura narrativa forte da cinema americano. Si appoggia a due personaggi più veri e più grandi della vita che nell’edizione italiana hanno la voce di Mino Caprio (il sassofonista) e Massimo Dapporto (il tassista). Premio per la regia a Cannes.
In una cittadina olandese tre giovanotti – due dei quali si allenano per vincere una gara di motocross – sono attratti da una bionda inserviente di un fast food mobile. Uno dei due motociclisti finisce paralizzato, un altro scopre di essere gay e il terzo si accomoda nella normalità borghese. Scritto da Gerard Soeteman, è un inventivo dramma corale, straripante di sesso e di violenza con una vena non tanto sotterranea di misoginia e abitato da una colorita galleria di personaggi tra cui spicca R. Hauer nella parte di un campione di motocross.
Passare da American Pie a questi sogni irrisi dalla fine gergale “z” è per Weitz un innegabile progresso. Film di struttura binaria con i 2 protagonisti che si incontrano verso la fine: l’uomo della Casa Bianca, ricalcato su Bush Jr. e Martin Tweed, conduttore di un reality show di enorme successo, modellato su Simon Cowell, del programma TV American Idol . Il primo è un idiota di buon cuore che comincia a dubitare della sua funzione e dei suoi consiglieri. Il secondo è intelligente e cinico nello sfruttare lo spettacolo della spazzatura con cui seduce una grande massa di vidioti, ma non privo di un malinconico odio per sé stesso. Due facce del potere sulle quali Weitz scherza; non sono però due personaggi caricaturali. È comprensibile che questa commedia noir non abbia avuto successo. Più che far ridere, spaventa. Attori bravissimi compreso Dafoe, burattinaio dell’uomo più potente del mondo, anch’egli ispirato a un personaggio reale: Dick Cheney.
Alcune giornate nella vita di Joe (Dallesandro), ragazzo da marciapiedi, eroinomane e impotente, e del suo compagno Holly (Woodlawn), un travestito che arreda l’appartamento frugando negli immondezzai dei bassifondi di New York ( trash = spazzatura, e inizio di una poesia di Allen Ginsberg). Girato “nel corso di otto pomeriggi di sabato” in modi semimprovvisati e diviso in 12 sequenze, “ha l’aria casuale e l’ostentata cialtroneria dei prodotti della Warhol Factory” (T. Kezich). Alterna passaggi di resoconto impassibile da entomologo a sprazzi di sinistro umorismo, un’angoscia alla Beckett e la sincerità aggressiva di un gioco della verità. Distribuito in Italia nel ’74 con un doppiaggio curato da Pasolini che ricorse a voci ruvide di non professionisti. V.M. 18 anni.
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