Da un dramma (1960) di Giuseppe Patroni Griffi. Adriano, cinico in crisi, debole, sbruffone e sentimentale, cerca di cambiar vita sposando una brava ragazza. Diretto senza convinzione, non abbastanza riscattato da una scrittura disadorna e da un bianconero sporco da cinegiornale. “Credo che sia orribile… – dichiarò anni dopo Rossellini – Fu allora che abbandonai definitivamente il cinema.”
Nel 1932 anarchico della Bassa lombarda, deciso a far fuori il Duce, trova ospitalità in una casa chiusa di lusso dove s’innamora della bella Tripolina. Il mattino dell’attentato si sveglia in ritardo. Ghignante quadro di costume, è un’opera ideologicamente equivoca perché il suo contenuto evidente (l’antifascismo) è in contraddizione con il suo contenuto latente (una mescolanza di sentimentalismo e volgarità). Come la bricconata conclusiva mostra, la sua mancanza di rigore rasenta l’isterismo. Attori ineccepibili. Premiato Giannini a Cannes.
Un film di Roberto Rossellini. Con Giacomo Furia, Marilyn Buferd, William Tubbs, Giovanni Amato, Joe Falletta.Commedia, Ratings: Kids+13, b/n durata 83′ min. – Italia 1952. MYMONETRO La macchina ammazzacattivi valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Convinto da uno strano personaggio (il diavolo?), un fotografo di paese si vendica di coloro che gli hanno fatto del male rifotografando una loro fotografia e provocandone la morte. Poi, però, convince il diavolo a far resuscitare le sue vittime. Girato a Maiori (Salerno) nel ’48, tra difficoltà e interruzioni (uscì soltanto quattro anni dopo), difficilmente catalogabile, in bilico tra tragico e grottesco, serio e faceto, frammentario eppure coerente, fu il tentativo di Rossellini di avvicinarsi alla commedia dell’arte. La visione neorealistica si carica di elementi fantastici e surreali. Il soggetto è di Eduardo De Filippo e Filippo Sarazani.
Ragazza sogna di sposare un miliardario. Ci riesce, ma lui è fuori di testa, un paranoico sadico. Lei, già incinta, lo lascia. Lui la perseguita, la ricatta, vuole distruggerla. Lui muore, lei abortisce. Ophüls prese in mano il film, iniziato da John Berry, in condizioni disastrose e si districò ammirevolmente. È il suo film più fittamente parlato, ma gli attori sono diretti benissimo. Assai interessante la tematica. Scritto da Arthur Laurents dal romanzo Wild Calendar di Libbie Block.
Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Helge Nissen, Jacob Texiere, Ebor Strandin Titolo originale Blade af Satans Bog. Drammatico, b/n durata 158′ min. – Danimarca 1920. MYMONETRO Pagine dal libro di Satana valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
In quattro episodi vediamo Satana (Nissen) che, maledetto da Dio, percorre il mondo inducendo gli uomini a compiere il male; può sperare di essere liberato dalla maledizione divina solo se qualcuno gli resiste, ma pochi lo fanno. Il primo episodio racconta il tradimento di Cristo da parte di Giuda, prezzolato da Satana nei panni di un fariseo. Il secondo episodio è ambientato nella Spagna del XVI secolo: Satana è un Grande Inquisitore che esercita la sua influenza su un giovane monaco tormentato, spingendolo a commettere un orribile stupro. Il terzo episodio è collocato all’epoca della rivoluzione francese: un giovane che ha la possibilità di salvare Maria Antonietta dalla ghigliottina lascia che sia giustiziata, perché gli ricorda un misfatto che era stato indotto a commettere da Satana, qui un capo giacobino. Il quarto episodio si svolge in Finlandia, durante la guerra civile del 1918: qui Satana è un empio monaco a capo di una plebaglia di bolscevichi, che minaccia di uccidere la famiglia della telegrafista Siri, se essa non manderà un messaggio che attiri i Bianchi in un’imboscata.
Lei resiste e si uccide piuttosto che diventare una traditrice.Carl Theodor Dreyer aveva appreso il mestiere alla Nordisk, scrivendo didascalie, adattando romanzi e drammi, ed occupandosi del montaggio di gran parte dei lungometraggi della società dal 1915 al 1918. Il suo talento venne riconosciuto e gli fu pertanto concesso un sostanzioso budget per fare questo film, la più grande produzione realizzata dallo studio nel 1919. Dreyer, tuttavia, non era soddisfatto delle risorse disponibili e, dopo aver completato il film, lasciò indignato la Nordisk. Eppure, anche se la sceneggiatura è sbilanciata (il complicato episodio francese è un po’ debole), questo film ambizioso colpisce per i primi piani indagatori, i set austeri e disadorni, il montaggio teso e le composizioni attentamente centrate. La sceneggiatura era stata scritta nel 1913 dall’autore danese Edgard Høyer (l’episodio finale era ambientato in origine durante la guerra russo-giapponese); si tratta di un’opera originale e nonostante ciò che si legge in molti credits, non deve nulla al bestseller di Marie Corelli The Sorrows of Satan (1895), portato sullo schermo da D.W. Griffith nel 1926.
Le cinque giornate sono quelle di Milano (18-23 marzo 1848), ma raccontate alla rovescia: delinquente da strapazzo e panettiere sono coinvolti nei moti contro il dominio austriaco. In cadenze di balletto crudele, sghignazzante e qualunquista, il film oscilla tra fascismo e Potere Operaio. È fascista a livello espressivo, estremista a quello ideologico, confuso su entrambi. Sceneggiatura di D. Argento, Luigi Cozzi, Vincenzo (Enzo Ungari) e Nanni Balestrini.
In seguito alla presa di potere di Kato del clan Sanno, avvenuta eliminando il boss yakuza precedente ma mascherando il reale colpevole, il cane sciolto Otomo è rimasto ai margini, fingendosi morto per sfuggire alle ritorsioni dei Sanno. Ma le voci sulla reale versione dei fatti e il ritorno in azione di Kimura, alleato di Otomo, preparano la strada a una violenta vendetta. Considerare Outrage Beyond come oggetto a sé stante, valutarlo in maniera decontestualizzata, sarebbe mancare di rispetto a quell’artista unico che è Kitano Takeshi. Entità ormai inscindibile dal proprio cinema, ultimo esempio di artista in simbiosi di carne, sangue e celluloide con le sue opere, grazie alla trilogia iniziata con Takeshis‘ e terminata con Achille e la tartaruga Kitano ha reso arte la sua crisi di ispirazione, offrendosi in maniera disarmante, quasi con un seppuku virtuale, al pubblico. Dopo un simile processo autodistruttivo non restavano che il ritiro o il rientro nei ranghi sicuri dello yakuza eiga, quel sottogenere rigidamente codificato che il popolo kitaniano da lui si attende
Il regista Takeshi Kitano ha un sosia biondo che è un perdente assoluto. Perde al gioco, viene bocciato alle audizioni, svolge lavori noiosi e ripetitivi. Ma non smette mai di sognare, anche a occhi aperti, di entrare nel mondo del cinema e diventare famoso come il vero Takeshi. Ma sono solo sogni? Ed è solo un sosia? Anche le menti artistiche più vulcaniche conoscono momenti in cui subentra un blocco creativo o la perplessità e lo scetticismo sulle effettive possibilità di rinnovare il proprio linguaggio. La differenza spesso è tra chi finge che nulla sia successo e ripropone stancamente il medesimo copione e chi non ci sta e riesce a interrogarsi su questa crisi, oltre che ad allargare il campo sul suo ruolo nella società. È il caso di Kitano Takeshi, star crossmediale nipponica, divenuto da intrattenitore televisivo e pittore a tempo perso creatore di videogiochi e soprattutto regista apprezzato in tutto il mondo. Scottato dall’insuccesso di Zatoichi e dalla difficoltà di imboccare nuove strade, lontano dalle aspettative dei fan, Kitano sceglie la via più impervia e rischiosa, inaugurando con Takeshis’ una folle trilogia sul senso dell’arte con se stesso come simbolo dell’artista e del suo travaglio. Takeshis’ è un’opera narcisista, spesso volutamente sciatta, quasi autolesionista come una cerimonia di harakiri, ma carica di una sincerità anche disarmante, quella andata scomparendo nelle opere immediatamente precedenti del regista nipponico.
Ricca signora USA si sbarazza del cadavere del losco seduttore della figlia che l’ha ucciso senza volerlo. Compare un testimone del delitto che la ricatta. Tra i due nasce una strisciante passione senza futuro. 4° e ultimo film USA del tedesco Ophüls, scritto da Henry Garson e Robert Soderborg per la Columbia, tratto dal romanzo The Blank Wall (1947) di Elisabeth Sanxay Holding. Il regista firma un noir anomalo, sacrificando la suspense al disegno dei personaggi col suo inconfondibile stile dai morbidi e complessi movimenti della cinepresa. Messo in DVD nel 2013 dalla Sinister Film in edizione originale e doppiata, arricchita dal documentario Ophüls e il noir (41′) del cinecritico Lutz Baker.
Un burattinaio parigino s’innamora di una modista alla quale confessa di essere un maniaco omicida, raccontandole la sua storia. Epilogo tragico. Girato in 6 giorni, è uno dei 12 film che Ulmer diresse per la PRC dal 1942 al 1945. Connubio sorprendente di espressionismo, romanticismo, surrealismo con espliciti omaggi al cinema muto.
Da un racconto di Helen Rose. Un giornalista sportivo e una disegnatrice di moda si sposano, scoprendo che hanno pochi interessi in comune. Come mostra spiritosamente la conclusione, il mondo del sogno (la moda) ha la meglio su quello della realtà (la boxe). Scritta con impeccabile garbo, ricca d’inventiva a livello di regia (e di scenografie), elegante, divertente, è una commedia che regge il paragone con i modelli degli anni ’30. Un solo neo: Peck non è abbastanza duttile per una parte che avrebbe richiesto Cary Grant.
Joanna Crane ha una doppia vita a schizofrenia libera: strapagata stilista di giorno, tutta casa e lavoro, al calar del sole si traveste da prostituta e va a battere i marciapiedi dell’infima Los Angeles. Film truculento e trito, indigesta mistura di naturalismo attardato, decadentismo decorativo, infantilismo freudiano, greve moralismo e congenita ruffianeria mercantile. Il talento di K. Russell affiora qua e là a schegge.
La banda dei ricercatori è tornata: l’associazione a delinquere “con il più alto tasso di cultura di sempre” di Smetto quando voglio decide di ricostituirsi quando una poliziotta offre al capo, Pietro Zinni, uno sconto di pena e a tutto il gruppo la ripulitura della fedina penale, a patto che aiutino le forze dell’ordine a vincere la battaglia contro le smart drug. Così questi laureati costretti a campare di espedienti in un’Italia che non sa che farsene della loro cultura vanno a recuperare un paio di cervelli in fuga e lavorano insieme per stanare i creatori delle nuove droghe fatte con molecole non ancora illegali. Pietro però non può rivelare nulla del suo nuovo incarico alla compagna Giulia, incinta del loro primo figlio, ed è costretto ad inventare con lei bugie sempre più colorite.
Affetto da una rara malattia (leontiasi) che gli deforma mostruosamente il cranio e il viso, il sedicenne Rocky Dennis è risarcito dall’amore della madre sgallettata e dalla protezione di una banda di simpatici punk. Alle prese con una storia non lontana da Elephant Man , Bogdanovich ha il merito di aver fatto un film commovente senza indulgere né agli effetti né al sentimentalismo. Ottima l’interpretazione di Cher nella parte della madre.
Un uomo, traumatizzato dall’eccessivo affetto materno, è l’insospettabile autore di numerosi delitti. A mettere la polizia sulle sue tracce sono alcune rivelazioni della ragazza che egli segretamente ama; l’assassino viene eliminato in extremis, proprio quando sta per fare di lei – che ha rifiutato di sposarlo – l’ennesima vittima
Arthur Kirkland è un onesto avvocato di Baltimora. Giovane e intraprendente, tenta invano di fare pulizia tra giudici corrotti del Maryland. È un film di attori. Al Pacino recita con il piede sull’acceleratore senza mai perdere il controllo del personaggio. Da segnalare l’esordiente C. Lahti, la divertente prova di Warden, giudice con la vocazione del suicidio, e il contributo di L. Strasberg. Scritto da Barry Levinson con Valerie Curtin.
Durante un viaggio in Spagna Lisa, una turista americana, incontra in uno strano negozio di oggettistica il Diavolo sotto le spoglie di un maggiordomo. Incantato per l’incredibile somiglianza di Lisa con una nobildonna morta decenni prima, riesce ad attirarla nel palazzo dove, apparentemente, presta servizio. Qui Leandro (il Diavolo-maggiordomo), manovrando bizzarri manichini, si diverte a tormentare i vecchi abitanti facendo loro rivivere i momenti della morte.
Un film di Walter Hill. Con Jami Gertz, Ralph Macchio, Joe Seneca Titolo originale Crossroads. Commedia, durata 96 min. – USA 1986. MYMONETRO Mississippi Adventure valutazione media: 2,83 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Genio della chitarra con il blues nel sangue, il giovane Eugene Martone (nome da bluesman, Talent Boy) vuole a tutti i costi ritrovare l’unica canzone andata perduta del grande chitarrista Robert Johnson. Venuto a conoscenza che nell’ospizio locale, ad Harlem, abita l’ormai ottantenne Willie Brown, l’ultimo ad aver suonato con Robert ancora in vita, si fa assumere come inserviente pur di carpire, dal testardo musicista di colore, il segreto di quelle note. Per i due ha inizio un viaggio che li condurrà da New York a Memphis, e poi sempre più a sud, nello stato del Mississippi, verso quel crocicchio dove, negli anni Trenta, più di un uomo imparò l’essenza del blues dal diavolo in persona. Walter Hill elabora un ritratto dei luoghi e delle leggende attorno ai quali crebbe l’affascinante mito di Robert Johnson, bluesman morto misteriosamente nel 1938 a Greenwood nel Mississippi, e di Willie Brown, che lo accompagnò negli ultimi anni. La musica, costante e avvolgente, è curata da Ry Cooder, che aveva già firmato con i suoi accordi di chitarra molte immagini dei Guerrieri della palude silenziosa, film diretto da Walter Hill nel 1981. La pellicola è il racconto di un viaggio verso sud, ma anche la narrazione del percorso interiore che coinvolge progressivamente i due protagonisti: da una parte il giovane Talent Boy, ostinato e ambizioso, a cui manca però ancora “il chilometraggio”, cioè l’esperienza del musicista on the road e la conoscenza diretta del blues e dei suoi luoghi. Dall’altra, un vecchio che deve fare i conti con la sua vita e con quelle decisioni che un giorno, in piedi fermo a un crocicchio, stabilirono il suo destino. Pur appoggiandosi su alcune curate ed efficaci scelte di stile, il film si eleva soprattutto grazie ai contenuti della storia che racconta, basati sulle vicende e sulle suggestioni (Legba è effettivamente il nome del demone degli incroci) della tradizione americana sudista. E una volta accettati i toni poco drammatici della commedia avventurosa, si possono scorgere e percepire quelle che sono le radici del blues.
Ambiziosa versione in animazione della saga (1954-55) di John Ronald Reuel Tolkien. Giovane hobbit della Terra di Mezzo deve gettare nel fuoco della montagna l’anello malefico del Signore delle Tenebre. Mille difficoltà lo attendono. Animazione per adulti? L’azione abbraccia la prima metà dei 3 libri e termina bruscamente; passata la prima ora diventa anche confusa, il che per un disegno animato è il colmo. Anche la tecnica impiegata, ricalcata in parte su quella del cinema dal vivo, lascia perplessi. Belle musiche di Leonard Rosenmann.
Dal romanzo (1907) di Ferenc Molnár: storia dolceamara di due gruppi di ragazzi che nella Budapest del primo Novecento si contendono uno spazio libero per i giochi. Uno dei ragazzi, l’unico a non avere i gradi, muore durante una “battaglia”. I “soldati” dei due eserciti rivali seguono piangendo la madre che trasporta il piccolo cadavere. Sceneggiato da Jo Swerling e messo in immagini con l’abituale finezza psicologica da Borzage che smorza, ma non soffoca, la vena antimilitarista di Molnár e ne accentua anche troppo quella romantica.
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