La mitologia greca viene rivisitata con parecchie licenze all’americana in questa narrazione della gesta di Perseo (Hamlin) alle prese con cavalli alati e mostri vari (tra i quali la Medusa). Olivier e la Andress, nei rispettivi ruoli di Giove e Venere, sembrano a loro agio fra tanti effetti speciali.
Storia molto romanzata e all’acqua di rose di Elisabetta di Baviera, sposa nemmeno troppo felice, e anzi destinata a tragica fine, dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Qui invece Sissi è felicissima di sposare il giovane Franz che la viene a corteggiare sulle montagne bavaresi.
Un film di Arthur Penn. Con Paul Newman, Lita Milan, John Dehner, Hurd Hatfield, James Congdon. Titolo originale The Left-handed Gun. Western, Ratings: Kids+13, b/n durata 102 min. – USA 1958. MYMONETRO Furia selvaggia – Billy Kid valutazione media: 3,13 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. William H. Bonney, detto Billy the Kid, diventa un fuorilegge assassino per vendicare la morte di un amico che gli aveva fatto da padre. Lo sceriffo Pat Garrett lo aspetta. Dal teledramma (1955) di Gore Vidal The Death of Billy the Kid l’esordiente A. Penn ha tratto un western controcorrente: teso, visionario, sfrontato, acido, emozionante e tenero. Scoperto dalla critica europea. Newman aveva già interpretato il personaggio in TV. L’adattamento è di Leslie Stevens. L’originale regia di Penn influenzò la svolta nel western operata da Sam Peckinpah, Robert Altman e altri.
Lo spregiudicato banchiere Thomas Crown, che ha fatto un grosso colpo nella sua stessa banca, viene scoperto da una bella e intelligente detective, con la quale instaura una relazione. La donna vuole però denunciarlo e quando lui, lanciandole una sfida, la informa del luogo dove ha progettato un nuovo colpo, lei avverte la polizia. Ma al posto della refurtiva viene trovato un biglietto con cui Crown…
Assoldato per un rapina durante una fiera Parker viene tradito dai criminali della sua banda e scaricato mezzo morto per strada. Raccattato e rimesso in sesto da una coppia di campagnoli il criminale medita una vendetta ad ampio raggio, un piano clamoroso nel quale viene coinvolta suo malgrado anche un’agente immobiliare in crisi finanziaria. Dall’incontro di due generi ben precisi, le storie di Donald Westlake con protagonista il criminale costantemente malmenato Parker e i film d’azione con Jason Statham, esce fuori un curioso ibrido che forse non rende giustizia a nessuna delle due fonti d’ispirazione. I romanzi di Westlake sono stati ampiamente saccheggiati dal cinema nel corso degli anni e in maniere a dir poco burrascose poichè lo scrittore non aveva un buon rapporto con gli studios. Ne hanno usufruito tra i molti anche Lee Marvin, Mel Gibson, Robert Redford e Jean-Luc Godard, però Parker è il primo film a basarsi su un suo racconto da quando l’autore è deceduto e per questo il primo a poter usare il nome del protagonista (dettaglio così decisivo da finire nel titolo). Seguendo quindi gli eventi di Flashfire: fuoco a volontàTaylor Hackford lentamente piega tutti gli angoli e smussa tutto ciò che non rientrerebbe nella parabola dell’eroe da Jason Statham, ovvero il duro senza scampo, dotato di un piano preciso e una vendetta da portare a termine. Per questo motivo ad ogni angolo e prima di ogni svolta sembra di intuire il meglio e poi ci si ritrova con una sua versione un po’ svogliata. Non solo il Parker adattato ai personaggi di Jason Statham perde quel senso di disperazione umana da noir filmico che era riuscito a guadagnare nelle sue precedenti incarnazioni cinematografiche (sorprendente quella di Mel Gibson in Payback) ma non guadagna nemmeno l’asciutta e spietata determinazione che l’attore britannico ha portato negli action movie moderni, finendo più dalle parti della vendetta nello stile del Conte di Montecristo. Anche l’unica caratteristica che hanno in comune i due personaggi (ovvero Parker e quelli solitamente incarnati da Statham), vale a dire la capacità di incassare senza fermarsi, nutrirsi di colpi ricevuti più che dati come un’instancabile macchina umana (sublimata dall’attore britannico in Crank), non sembra essere resa con la dovizia che sarebbe stato lecito aspettarsi. È allora il personaggio di Jennifer Lopez, agente immobiliare in cerca di denaro per una vita migliore, quello a cui più facilmente ci si affeziona. Entra in scena a metà film ma il suo mondo e i suoi problemi sembrano immediatamente più interessanti e coinvolgenti di quelli del protagonista. In questa storia trasformata in film di vendetta iperbolico e fumettoso (in cui anche un cockney come Statham viene creduto texano quando ne imita malissimo l’accento), Jennifer Lopez porta un peso umano e reale non indifferente, una complessità sentimentale e romantica (quella sì davvero da noir) che sorprendono. Quando i due agiscono in coppia sembra lei la protagonista del film, ovvero il personaggio le cui traversie sono più determinanti per lo spettatore.
Dal musical (1943) di Oscar Hammerstein II e Richard Rodgers, ispirato alla pièce Green Grow the Rushes di Lynn Riggs. In una fattoria dell’Oklahoma, Laurey (Jones) è innamorata del cowboy Curly (McRae) e concupita dal rozzo bracciante Jud (Steiger) che, quando i due si sposano, cerca di vendicarsi con furia omicida. Qualcosa di più di un musical, quello di Hammerstein-Rodgers: una gloria nazionale, e non soltanto perché, prima di diventare un film, fu rappresentato a Broadway (regia di Rouben Mamoulian) per 2248 volte. Le fonti della sua “americanità” si trovano nella poesia di Walt Whitman e nelle pagine di Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau. Nonostante l’ostentato ricorso agli esterni, Zinnemann non riesce a piegare l’ambientazione realistica alle esigenze della musica e della danza. Per fortuna il dinamismo delle coreografie di Agnes De Mille è rimasto intatto. Celebri le canzoni: “Oh, What a Beautiful Mornin'”, “People Will Say We’re in Love”, “Out of My Dream”, “The Surrey with the Fringe on Top”. Fu proiettato in 2 sistemi: Todd-Ao e Cinemascope (fotografia di Robert Surtees). 2 premi Oscar: suono (Fred Hynes) e colonna musicale (Robert Russell Bennett, Jay Blackton, Adolph Deutsch). Ottimi McRae, la Jones e, tra gli interpreti minori, la Grahame.
Nella Hollywood degli anni ’30 giovanissima star del cinema lascia la madre svanita che viene ricoverata in manicomio, e impara a vivere in un mondo ambiguo e spietato. Tratta da un romanzo del critico inglese Gavin Lambert, è una variazione divertente, graffiante, antirealista sul tema di È nata una stella. Discontinuo, qua e là un po’ isterico ma interessante.
Ispirato a un fatto vero che fece scalpore nell’Inghilterra del 1911 e da cui nel 1946 il commediografo Terence Rattigan trasse un dramma di successo, trasposto in film due anni dopo (Tutto mi accusa). Ronnie Winslow (Edwards), allievo del Royal Naval College, viene espulso con l’accusa di aver rubato un vaglia postale di cinque scellini. Il padre banchiere (Hawthorne) assume un grande avvocato (Northam) per difenderlo contro la Corona. Commediografo prima che sceneggiatore e regista, D. Mamet si cimenta per la prima volta con un copione altrui. Dirige bene gli attori, tutti bravi o bravissimi, benché poco noti; segue fedelmente il testo di Rattigan, sottolineando come, più che l’onore familiare, sia in giuoco una questione di civiltà giuridica, ma ne prende le distanze.
Luisa e Natale, giovani e poveri, si sposano, ma non hanno una casa propria. Alla periferia di Roma escogitano un sistema per farsene una e avere così la possibilità di vivere senza promiscuità. Scritto da C. Zavattini, è un frutto tardivo, un po’ accademico e ripetitivo, della poetica neorealista. Apologo sulla crisi degli alloggi e storia d’amore, è un film gracile e bozzettistico, ma scorrevole, tenero, ben recitato. Nastro d’argento per la sceneggiatura.
Un vestito da prima comunione deve giungere in tempo a casa del commendator Carloni. Visto il grave ritardo, lo stesso Carloni va a prenderlo dalla sarta. Nel ritorno a casa una serie di imprevisti aggrava la situazione. Appello alla bontà e alla solidarietà in forma di satira dei vizi borghesi, è una commedia ad alta velocità e a ritmo di balletto. Godibile galleria di caratteristi e frequenti trasgressioni zavattiniane alle regole della commedia realistica. Scritta, col regista, da C. Zavattini e S. Cecchi D’Amico. 3 Nastri d’argento: regia, soggetto, A. Fabrizi. Titolo francese: Sa Majesté Monsieur Dupont; titolo inglese: His Majesty Mr. Jones.
Una ragazza di provincia si trasferisce nella capitale americana e va ad abitare con un’amica in una pensione la cui proprietaria si arricchisce con la tratta delle bianche. Un ragazzo si innamora di lei ma la giovane, credendo che la tradisca con l’amica, cerca di conquistare il suo principale che a sua volta ha preso una cotta per la sua compagna. Questa un giorno scompare e i tre personaggi la cercano finché la trovano, smascherano il losco commercio e dichiarano reciprocamente i propri sentimenti.
T.R. Baskin è una ragazza di provincia che viene a lavorare in città, ansiosa di ambienti e rapporti nuovi. Rimedia solo delusioni, incontri balordi con uomini sposati che si lasciano ingannare dal suo aspetto di bionda mangiatrice di uomini. Sta per mollare tutto e tornarsene a casa, ma supera la crisi. Rimarrà e un giorno farà l’incontro giusto.
Purtroppo non ho trovato versioni in italiano, ci sono su Emule ma non scendono
Finito in carcere per ubriachezza e guida pericolosa, il campione di rugby Crewe è costretto dal direttore ad allenare una squadra di detenuti che dovrà battersi contro quella dei poliziotti. Lo scontro è duro e i poliziotti giocano pesante: perciò Crewe, che in un primo momento si era accordato col direttore per la vittoria dei poliziotti, si impegna a fondo e fa vincere la propria squadra.
Dalla pièce di Alec Coppel. Scrittore di gialli per la TV, ricattato, decide di uccidere il ricattatore. Esegue il piano _ o così crede _ e nasconde il cadavere in giardino. È una farsa nera condotta a ritmo frenetico che strappa più di una risata, ma l’origine teatrale si fa sentire. Rifatto nel 1971 in Francia con Jo e il gazebo con Louis de Funès.
Cinico e spregiudicato pubblicitario, di successo sul lavoro e nelle relazioni sociali, Roger si trova a vivere una notte fuori dall’ordinario con suo nipote, adolescente in visita a New York dall’Ohio per un colloquio di ammissione alla Columbia University. Piccolo genio del computer, il sedicenne Nick è tanto innocente e ingenuo quanto lo zio è scaltro e sfrontato. Non avendo ancora mai avuto una fidanzatina, l’impacciato ragazzo vorrebbe apprendere i “trucchi del mestiere” dallo zio, sedicente don Giovanni. La commedia di esordio dell’americano Dylan Kidd – migliore opera prima al Festival di Venezia 2002 – gioca su due piani: da un lato le differenze fisiche e psicologiche tra i due sessi, dall’altro le divergenze caratteriali e di approccio alla vita tra zio e nipote. Il primo dei due piani apre il film, presentandoci il personaggio principale, quel Roger animale sociale che tiene banco tra i colleghi in libera uscita, con un profluvio di battute e teorie brillanti sulla futura evoluzione dell’emancipazione femminile. Presto scopriremo che non è tutto oro quel che luccica sulla superficie della vita di quest’uomo, che sembra aver capito le donne molto meglio di quanto abbia compreso se stesso. Eppure, il ritmo vivace e sostenuto del film e i suoi toni da commedia brillante si mantengono con costanza, anche quando l’incursione del nipote nella vita dello zio lascia intravedere delle crepe familiari irrisolte. Il regista non approfondisce, anzi si arroga il diritto di scherzarci su, proprio come fanno zio e nipote quando scoprono di essere molto più in sintonia di quanto si sarebbero aspettati.
Un burlone si prende una vendetta postuma sui parenti: il suo testamento promette una favolosa eredità se i congiunti faranno ognuno la cosa più contraria alla loro natura. Così un Casanova è costretto a sposare una zitella, un timido ad assalire, pistola in pugno, il capufficio ecc. Tutti traggono un vantaggio immediato dalle loro imprese, ma non l’eredità che si rivela inesistente.
Edward Cole è un ricchissimo ed eccentrico proprietario di cliniche che, a seguito di sue stesse direttive, si trova ricoverato in una propria struttura assieme al decisamente più umile e tranquillo Carter Chambers. Entrambi con pochi mesi davanti, a causa di una grave malattia, decidono di togliersi, nel breve tempo che resta loro, tutti gli sfizi che non hanno mai potuto levarsi nella propria vita: il viaggio che li vedrà protagonisti però, servirà a ben altro… Ridere della morte? Difficile, ma non impossibile. Succede, troppo raramente a dirla tutta, anche in Non è mai troppo tardi, film “evento” che mette assieme per la prima volta due grandi vecchi del cinema americano. Il rischio peggiore in film di questo tipo è che il melodramma soverchi lo humour, unico antidoto alla depressione a cui potrebbe indurre il tema trattato e, fortunatamente, il consumato mestiere dei due divi evita derive troppo deprimenti. Lo script è però drammaticamente prevedibile, con Nicholson che fa l’arrabbiato e il matto (come al solito), mentre a Freeman (migliore del compare che si “diverte” un po’ troppo) è cucito addosso un personaggio decisamente più flemmatico e riflessivo. La storia ha alti e bassi e vorrebbe mirare dritto al cuore, anche se mancano momenti realmente commoventi e l’intero progetto sa troppo di pensato a tavolino per sfruttare le caratteristiche dei due attori. Qualche perplessità la lascia anche il modo con il quale è raccontata l’imminenza della morte, laddove altri film mostrano contemporaneamente l’amarezza e l’ineluttabilità del momento, Non è mai troppo tardi la prende come mero spunto per permettere ai due protagonisti di farsi una scampagnata in giro per il mondo senza nemmeno troppi patemi. Rainer ha fatto decisamente di meglio, quanto alla coppia di divi, beh, meglio ricordarli per altre pellicole… Un stella in più del dovuto alla storia cinematografica di entrambi.
Un film di Anthony Mann. Con Robert Taylor, Louis Calhern, Paula Raymond Titolo originale Devil’s Doorway. Western, b/n durata 84 min. – USA 1950. MYMONETRO Il passo del diavolo valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un regista considerato uno dei grandi del western racconta di un pellerossa che cerca di vivere in pace coi visi pallidi intraprendendo la vita dell’agricoltore. Sarà costretto a una disperata e inutile resistenza quando gli toglieranno la terra con sottigliezze legali.
Empatico e folle, Bun è un investigatore in pensione che rientra in servizio per risolvere un misterioso caso di omicidio. Lasciato dalla moglie e in fuga dalle cure psichiatriche dettategli dallo psicanalista, l’investigatore stregone (come da traduzione italiana) utilizza metodi poco convenzionali per giungere alla soluzione degli intricati delitti cui si trova a far fronte. La necessità di immedesimarsi con le vittime per provarne le ultime sensazioni, lo porta a rotolare chiuso in una valigia per una rampa di scale oppure a farsi seppellire vivo in un bosco. Ed è per questo motivo che è stato prematuramente cacciato dalle forze di polizia, soprattutto dopo essersi tagliato un orecchio per omaggiare l’incorruttibilità di un superiore sul viale del tramonto. Grande cinema targato Hong Kong e Milkyway – l’inseparabile casa di produzione di Johnny To – per una gangster story originale e non priva di fascino. Un detective che riesce a vedere i demoni del male che governano gli esseri umani intorno a lui, un poliziotto corrotto e un intreccio dai mille volti che rimanda direttamente al genio di Orson Welles e alla sua “Lady from Shangai”, in un gioco di specchi che entusiasmerà i cinefili del sol levante: pazzi per le triadi mafiose raccontate da uno dei più prolifici registi orientali. Film d’essai che difficilmente troverà spazio, però, all’interno dei circuiti ufficiali. Non tanto per le scene di violenza di cui si nutre, ma per una difficile decodifica da parte di un pubblico poco avvezzo ai simbolismi orientali, con i suoi riconoscibili codici e le sue affascinanti peculiarità. Prendere o lasciare, questo è in fondo il cinema di Johnny To.
Ma’ Rosa Reyes e il marito Nestor gestiscono un minuscolo alimentari negli slums di Manila. Tra i dolciumi e le sigarette nascondono la droga, metanfetamina in cristalli, che spacciano nel quartiere. La soffiata di un ragazzino, una sera, li fa arrestare. Mentre scorrono le ore, con i due bloccati in un seminterrato della centrale di polizia, in balia di un manipolo di poliziotti corrotti, i loro quattro figli si dividono per la città, per cercare di raccogliere la somma che serve a liberarli, ognuno facendo o offrendo quel che può.
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