Anarchico e precario, il 28enne Amadei era andato in Iraq nel 2003 per lavorare da aiuto regista alla preparazione di un film. Pur gravemente ferito, fu l’unico sopravvissuto alla strage di Nassirya dove morirono 19 italiani. Ne cavò un libro scritto con Francesco Trento, poi collaboratore alla sceneggiatura del film. Nell’ospedale Celio di Roma sfilano politici, militari, giornalisti che visitano l'”eroe per caso”, ma lui non ci sta a essere oggetto di compatimento e celebrazione. Film di denuncia delle “missioni di pace” italiane all’estero, è una fiction girata come un documentario, ricca di momenti emozionanti e di abissi onirici con molte concessioni al pathos e al didascalico.
La storia, tratta da un romanzo di Clinton Twiss, si impernia sui disastri in serie cui va incontro una coppia, non più giovanissima, che decide di comprare un’enorme roulotte per farci il viaggio di nozze. Mica comoda la vita on the road. Frivola, deliziosa, buffissima commedia che, sotto le apparenze della farsa (l’unica nella carriera di Minnelli), nasconde i suoi veleni satirici. Una critica impietosa della classe media americana. Da vedere.
Dal romanzo di Henry James. Daisy Miller è una ragazza americana tutta cuore e simpatia che si stabilisce con il suo ricco entourage a Roma alla fine del XIX secolo. Ci mette un po’ a capire qual è il suo amore vero (un introverso coetaneo e connazionale). Quando lo capisce muore di una malattia contratta in una taverna sul Tevere. Raffinata ricerca del tempo perduto con una protagonista non sempre all’altezza della parte.
Conquistato dal fascino della statua della Venere d’Anatolia, splendida e altera seppur inanimata, il vetrinista Eddie (Robert Walker) la bacia e assiste sgomento alla sua trasformazione in una donna bellissima e sensuale (Ava Gardner). Da quel momento la sua vita diventa un continuo susseguirsi di contrattempi, di avventure ed equivoci provocati, suo malgrado, proprio dalla Dea dell’Amore…
Lindy è stata una bambina molto difficile, per via di un particolare disturbo della personalità definita “esplosiva intermittente”. Basta poco per farla arrabbiare fino a farle perdere il controllo, cosa che la rende fortissima e veloce. Nel tentativo di dare uno sfogo a questa ira e placarla ha anche avuto vari addestramenti militari e marziali, che la rendono una donna pericolosissima. Per fortuna uno psichiatra ha realizzato un prototipo che le permette di riprendere il controllo quando sente la rabbia salire, dandosi una scossa attraverso una sorta di esoscheletro toracico elettrificato che porta sotto i vestiti. Le cose nella vita di Lindy sembrano cambiare per il meglio inizia una relazione con Justin, che presto però viene stravolta scatenando la sua rabbia…
Sono tre anni che il telefono di una nota star hollywoodiana non squilla, tre anni che attende invano di tornare sotto i riflettori. L’occasione arriva con un film indipendente a basso budget ambientato in un supermercato. L’artista in disarmo, indeciso se accettare o meno la parte, fa un sopralluogo per osservare da vicino i comportamenti del personale e degli acquirenti. Colpito dal carattere determinato di Scarlet, una cassiera latina che occupa e “presidia” la “cassa amica” (massimo dieci pezzi), l’attore è deciso a farne una “protagonista”. Trucco, costume, portamento e recitazione sono alcune delle cose che Scarlet imparerà per superare un colloquio di lavoro e la paura di non essere all’altezza della vita.
Nel suo 2° film García, figlio di Gabriel García Márquez, prende quasi alla lettera il titolo inglese del precedente Le cose che so di lei per raccontare nove vite di donna ” just by looking at her “, cioè soltanto guardandole, condensando il suo sguardo in 9 piani-sequenza (10-12 minuti filmati in steady-cam) che impegnano assai sia lui sceneggiatore-regista sia le sue interpreti. 9 racconti, e 20 ritratti, interamente calati nel presente che è, però, deformato dal passato e spesso dalle figure maschili o negative o incapaci di dare conforto, protezione, sicurezza. Alla varietà dei sentimenti, stati d’animo, rapporti con minimo comun denominatore della sofferenza corrisponde la diversità dei luoghi (prigione, supermercato, casa abbandonata, casa non abitata, casa paterna, motel, camera mortuaria, ospedale, cimitero) con l’esclusione della propria casa di donne adulte. Si è ai limiti di un esercizio monocorde di stile e gli stereotipi non mancano, ma il risultato complessivo ha un linguaggio, una struttura, un’intensità coerente. Pardo d’oro a Locarno 2005 e premio al collettivo delle attrici.
Un film ad altissima carica sensuale girato con la tecnica e i tempi del videoclip: Mickey e Kim si incontrano, si piacciono, si sbizzarriscono in frenetiche acrobazie erotiche per un periodo, appunto, di nove settimane e mezzo. Poi, per entrambi, il rientro nella normalità. Un film patinato, raffinato e furbetto, da gustare e rivivere a casa: sono entrate nella leggenda, ormai, le sequenze del ghiaccio, delle ciliegie, del miele e dello spogliarello di Kim Basinger in contro luce al suono della voce roca di Joe Cocker. Perfettamente in ruolo i due protagonisti, ottima la scelta delle musiche che ne ritmano e sottolineano le fatiche, splendida (e un po’ ruffiana) la fotografia.
La preoccupazione delle operaie di un’azienda tessile per l’acquisto da parte di una multinazionale francese sembra svanire quando la nuova proprietà dichiara che non verranno effettuati licenziamenti, ma a patto che le donne rinuncino a 7 minuti della loro già esigua pausa pranzo. Quella che sembra essere una clausola insignificante, e che trova tutte d’accordo di fronte alla sicurezza di mantenere il posto di lavoro, diventa in realtà uno spietato confronto tra le 11 donne appartenenti al consiglio di fabbrica. Testo di chiara derivazione teatrale (da una pièce – 2005 – di Stefano Massini, ispirata a una storia vera accaduta in Francia) contrappone una interpretazione adeguata a una sceneggiatura (di Massini-Placido-Toni Trupia) che difetta spesso in potenza – soprattutto dove non sa argomentare con efficacia e convinzione le due tesi contrapposte – a favore della dimensione intimista delle protagoniste, meno interessante. Bravissima la Angiolini.
Nell’estate del 1976 quattro dirottatori, due estremisti tedeschi e due combattenti palestinesi, si impossessano di un aereo della Air France in viaggio tra Tel Aviv e Parigi, prendendo in ostaggio i 248 passeggeri a bordo. Mentre a Gerusalemme il primo ministro Yitzhak Rabin si scontra con il ministro della difesa Shimon Peres sull’opportunità di negoziare con i terroristi, l’aereo, con la complicità del feroce dittatore Idi Amin, atterra a Entebbe in Uganda. La richiesta dei terroristi a Israele è di 5 milioni di dollari e il rilascio di 50 prigionieri palestinesi: Rabin ha sette giorni per decidere se intervenire o dialogare con loro.
Il maresciallo Grucheau della gendarmeria di Saint-Tropez e cinque suoi commilitoni non vogliono andare in pensione. Così, indossate di frodo le divise dei poliziotti, tentano un nostalgico ritorno ai bei tempi. I sei “nonnetti” piovono in un collegio maschile da cui sono spariti cinque allievi modello: riusciranno a ritrovarli, intenti a preparare addirittura una bomba atomica.
Un film di Norman Tokar. Con Dean Jones, Suzanne Pleshette, Charlie Ruggles Titolo originale The Ugly Dachshund. Commedia, durata 93 min. – USA 1966. MYMONETRO Quattro bassotti per un danese valutazione media: 3,05 su 9 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Due coniugi posseggono cinque cani: lei preferisce i quattro bassotti, lui il danese, e perciò spesso litigano. Un giorno il danese vince un concorso per cani, mentre un bassotto della donna si piazza agli ultimi posti.
Tre amici che non navigano nell’oro decidono di mettere insieme i pochi soldi che hanno e di acquistare un biglietto della lotteria nazionale rumena. Nel momento in cui scoprono di avere vinto una cifra astronomica, quello di loro che aveva in custodia il biglietto pensa che gli sia stato sottratto da due malviventi incontrati per caso. È ora necessario scoprire chi sono per poterlo recuperare.
Gravemente ferito alla testa da una granata, un giovane ufficiale inglese della prima guerra mondiale torna a casa completamente privo di memoria. Ad attenderlo e a cercare di guarirlo ci sono tre donne; la moglie Kitty, altezzosa e formale, la cugina Jenny, zitella ma non priva di una certa dolcezza, e Margareth, il primo amore. Soltanto attraverso il dolore, il reduce potrà riconquistare i suoi ricordi.
Non ho trovato nè una versione in ita nè i sottotitoli
Una coppia di ballerini entra in crisi quando lei decide di diventare attrice drammatica. Dieci anni dopo il film sui Castle, Fred torna a far coppia con Ginger (che sostituì Judy Garland) e fa rivivere l’antica magia anche se le gambe di entrambi sono un po’ arrugginite. L’eleganza della regia riscatta la storia un po’ risaputa.
Nella Russia sovietica non esiste il crimine e l’ordine è mantenuto dalla MGB, polizia segreta e paranoica che sospetta tutti e arresta soltanto innocenti. Leo Demidov è un ufficiale efficiente agli ordini del Maggiore Kuzmin che ha deciso di archiviare come incidente la morte di un ragazzino violato e strangolato da uno psicopatico. Perplesso ma adempiente, Leo esegue il suo dovere e il volere del suo superiore. Ma un secondo caso lo convince presto a indagare, trasformandolo da predatore in preda. Le cose a casa non vanno meglio, Raïssa, moglie e insegnante, lo ha sposato per paura e lo disprezza per i suoi metodi. In un clima di terrore crescente, in cui indisturbato agisce un omicida seriale di bambini, Leo e Raïssa scopriranno le falle del Sistema e troveranno un nuovo equilibrio sentimentale. Trasposizione del romanzo omonimo di Tom Rob Smith, Child 44 è un thriller paranoico che combina con efficacia storia e cronaca. Da una parte la Russia socialista a un passo dalla morte di Stalin, dall’esecuzione di Bérija, capo della polizia segreta sovietica, e dall’investitura di Nikita Chrušcëv, dall’altra, dislocati negli anni Cinquanta, gli efferati delitti del “mostro di Rostov”, che tra il 1978 e il 1992 assassinò cinquantadue persone. Duro e realistico, Child 44 fiuta le tracce, esplora le correlazioni, ‘unisce i puntini’ e frequenta i bassi fondi del regime totalitario sovietico, impegnato in superficie a dare una bella immagine di sé, un’immagine rassicurante. Interdetto sugli schermi russi per “alterazione dei fatti storici”, Child 44 condivide con lo spettatore il terrore di un popolo governato da un sistema retto sulla menzogna e sulla mistificazione ideologica. Delazione, arresti arbitrari, torture, esecuzioni sommarie, propaganda antioccidentale, spionaggio, non manca davvero nulla nel film di Daniel Espinosa, che elegge a protagonista un ufficiale compromesso con la dittatura stalinista per risolvere un intrigo che è insieme criminale e politico. A ragione di questo il film non apre sul rinvenimento di un corpo o su uno degli elementi dell’inchiesta ma ripercorre la scalata al potere di Leo Demidov, personaggio cruciale che lega differenti archi narrativi: il contesto socio-politico, l’investigazione poliziesca e la biografia dell’eroe. Il film è svolto lungo un percorso lineare, ma mai prevedibile, che mescola e converge nell’epilogo ‘infangato’ i tre soggetti. Senza digressioni, il treno di Espinosa procede rapido, producendo una suspense implacabile da cui è possibile scampare solo saltando in corsa alla maniera di Tom Hardy e Noomi Rapace. Affiancati da Vincent Cassel, Jason Clarke e Gary Oldman, che nell’esilio del suo ufficiale crea ancora una volta un personaggio che si fa ricordare per come è abile nel non farsi notare, Tom Hardy e Noomi Rapace confermano la faccia di cuoio, la potenza fisica e le cicatrici interiori. Improntate le rispettive carriere sul gesto virile, lo gratificano attraverso l’azione e lo innescano dentro un mondo dominato dal sospetto e dal complotto, dove ogni sguardo cela una minaccia e ogni sorriso un’insidia. Un mondo manicheo, ma in apparenza, perché poi scopriamo che i buoni lavorano per i cattivi e viceversa che qualche cattivo finisce per collaborare coi buoni. Non ci si può fidare di nessuno, mai. E in questa atmosfera fredda e opprimente, in questa società a fiducia zero, opaca e piena di angoli bui, si muovono un killer seriale e la sua nemesi, pieni di soprassalti, dubbi, sussulti. Come se per l’uno fosse l’unica possibile, come se per l’altro non fosse più possibile.
Un film di Brian Gibson. Con Laurence Fishburne, Angela Bassett, Tina Turner, Vanessa Bell Calloway Titolo originale What’s Love got to do with it. Drammatico, durata 122 min. – USA 1993. MYMONETRO Tina – What’s Love Got to Do With It valutazione media: 2,92 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
È la vera tormentata storia della cantante rock Tina Turner. Tratto dalla sua autobiografia, il film prende le mosse da quando Tina comincia a cantare nel coro della chiesa. Il suo spirito originale e ribelle la rende ben presto una cantante di successo al fianco di Ike, che diventa suo marito. La vita coniugale però non è delle migliori. La colonna sonora contiene il meglio della discografia del duo Ike & Tina e anche molte canzoni della carriera solista della Turner. La regia è diligente, ottimi i due interpreti principali: Angela Bassett e Laurence Fishburne, candidati entrambi all’Oscar.
Emily Taylor è una giovane donna, esaurita dalla depressione. Ora che il marito Martin è finalmente fuori di prigione, dovrebbe lasciarsi il buio alle spalle ma il suo stato emotivo peggiora invece ulteriormente, fino a spingerla sull’orlo del suicidio. Inizia così il rapporto con il dottor Banks, psichiatra di successo, con le pillole e i loro effetti collaterali, blackout compresi. Un giorno, Martin viene trovato esanime in casa, pugnalato a morte. Le tracce conducono alla moglie ma lei non ricorda nulla. Più passa il tempo e s’impilano i suoi film, nella memoria e nella storia del cinema, più due aspetti s’impongono con evidenza riguardo a Steven Soderbergh: innanzitutto, la stretta continuità tematica, sotto la multiforme declinazione formale che le sue produzioni assumono di volta in volta, e, in secondo luogo, la riuscita del contorno più e meglio che del piatto principale. Side Effects non fa differenza: simile per molti aspetti al precedente Contagion, anche ma non solo per l’utilizzo di Jude Law nella posizione di chi è costretto ad inventarsi mezzi non sempre leciti per il bene della verità (e dunque eroe ma non senza ombre, personaggio sempre un po’ scomodo e ambiguo, specie in materia di insider trading), il film esordisce in maniera superbamente accattivante per poi non riuscire a mantenere lo stesso livello di interesse e adagiarsi su percorsi a dir poco scontati. Eppure non c’è dubbio che Soderbergh sappia dov’è la piaga e sappia come muovere il dito (ovvero la macchina da presa) al suo interno. Pochi come lui riescono ad avere una visione macro della società e micro del virus che circola in essa e sanno restituire entrambi i piani, magistralmente amalgamati, nel contesto di un film narrativo cosiddetto tradizionale. Pochi come lui, ancora, sanno assortire cast così oculati, anch’essi trasudanti uno spirito del tempo, in bilico tra aderenza allo show business e critica allo stesso. Probabilmente, è proprio la formula narrativa obbligata a stare stretta al regista, sembra infatti che lui per primo perda interesse nella chiusura del film e si affidi per svolgere questo compito alla via più rodata, per quanto prevedibile. In fondo, ciò che gli premeva fare a quel punto l’ha già fatto, perché il suo è un cinema che pone le domande, che scandaglia le questioni, che -soprattutto- le approccia (spesso per primo) in termini squisitamente filmici. Side Effects , da questo punto di vista, parla chiaro: non è il cinema che si fa giornalismo d’inchiesta, denunciando i complotti e gli affari dietro le cure del bene più fragile e insondabile, e cioè l’anima, ma, all’esatto contrario, è la perversione della società e della cronaca che si offre al cinema come occasione perfetta, sfaccettata ed intrigante quanto basta per costituire una sfida allettante per un regista come Soderbergh.
Johnny guida un team composto dai fidati Gene e Max in un’indagine pericolosa quanto ardua su una frode di inside trading. Notti trascorse a spiare il lusso e il vizio e a combattere la tentazione di farsi contaminare dal sottile fascino del denaro facile. Avevamo lasciato Louis Koo in Accident, cuffie alle orecchie e perennemente in ascolto, e così lo ritroviamo in Overheard; ma da genio della messinscena e artista del crimine, diviene qui un agente anti-frode così disgraziato che la sua famiglia pare quella del conte Mascetti di Amici miei. A capo del team un’icona del cinema anni ’90 di Hong Kong, Lau Ching-wan, al suo fianco l’onnipresente e duttile Daniel Wu. Un terzetto di star, qui amici-colleghi-complici, che regala grandi momenti di cameratismo e un pizzico di sentimentalismo in un meccanismo a orologeria che concede poco alle ragioni del cuore.Overheard nasce infatti dalla mente di Alan Mak e Felix Chong – già alle spalle di diversi capisaldi del cinema dell’ex-colonia, ma soprattutto di Infernal Affairs – e, a costo di sfiorare la maniera, aderisce integralmente alla loro idea di cinema, fatta di trame fittissime, menzogne, doppi giochi e marciume nascosto proprio dove sembra luccicare l’oro. La fotografia è stilosa e i toni sontuosi, tra il solenne e l’enfatico, per raccontare l’ennesima parabola sulla farina del diavolo che se ne va in crusca: money money money, root of all evil. E se su vendetta e contrappasso aveva già detto tutto o quasi John Woo nel capolavoro A Bullet in the Head, Mak e Chong rielaborano con tutt’altra estetica e mescolando i generi con sapienza. I loro personaggi sono sempre piccoli uomini del Machiavelli, pieni di difetti e portati quasi naturalmente al male, anche quando la loro indole sembrerebbe andare in direzione contraria. Ognuno ha i suoi segreti, ognuno i suoi piccoli o grandi vizi, ma di per sé non è quest’ambiguità morale a condannarli; a quello ci pensa il postino del Fato, quello che suona due volte. Un’architettura mirabile, quindi, in cui però non tutto fila liscio, a partire dalle sottotrame fragili, abbandonate un po’ bruscamente (quando non sono palesemente pleonastiche), per lasciare spazio agli stravolgimenti dell’intreccio principale. Ma il mestiere salva tutto, unito alla nonchalance, tutta hongkonghese, con cui sono ritratti il dolore e la morte, osservati con cruda quanto veridica ferocia. Impressionante in questo senso la sequenza dell’ospedale, culmine di un blockbuster che restituisce fiducia a due dei più ispirati creativi del cinema di Hong Kong.
La ricerca scientifica della NASA riesce a trovare le prove dell’esistenza di altre forme di vita. Una navicella spaziale piena di campioni ha un incidente durante la fase di atterraggio: le creature dello spazio cominciano a stabilirsi sulla terra, moltiplicandosi e diffondendo terrore. La zona contaminata, tra il Messico e gli Stati Uniti, diventa così un parco abitato da giganteschi polpi distruttori di città e vite umane, tenuti a bada da un esercito militare violento e impreparato. Un fotoreporter e una giovane turista decidono di viaggiare insieme per raggiungere i territori sicuri oltre il confine della quarantena ma la strada da percorrere sarà ricca di imprevisti. Sembra che i mostri non amino molto la compagnia degli uomini. Gareth Edwards è un giovane regista inglese dotato di talento e sfacciataggine. In barba alle grandi produzioni americane, ha realizzato, con un budget ridottissimo, uno dei più interessanti film di fantascienza di questi ultimi tempi. Ha creato da solo i ritocchi grafici e gli inserti digitali, si è affidato alla collaborazione dei due attori protagonisti e di pochi aiutanti tecnici. Il risultato? Un piccolo e onesto manifesto di amore per il cinema. Chi adora il gusto del racconto, delle immagini in movimento e di tutti quei trucchi dietro le quinte che permettono di costruire una realtà diversa dalla nostra, sa bene che non servono né miracoli né tanti soldi per fare un buon film. Monsters conferma e supporta una visione romantica della settima arte. Se all’inizio del Novecento Méliès era capace di portarci sulla luna ‘imbrogliandoci’ con giochi di prestigio e illusioni ottiche, Edwards ci accompagna in un ipotetico futuro sfruttando le potenzialità del computer. Cambiano i modi ma non l’inventiva. L’operazione ha il merito di coniugare impegno e creatività in modo apprezzabile, sia dal punto di vista della sceneggiatura che della regia. E malgrado il plot non sia del tutto innovativo (difficile non pensare a District 9 o ad alcune scene di Jurassic Park), il film riesce ad approfondire l’atavico dilemma del confronto con gli Altri, fuggendo dalla mediocrità di una rappresentazione rigida di bene e male. Il concetto di mediazione/integrazione non vale solo per il rapporto tra umani e mostri. Anche i due protagonisti, donna e uomo, si conoscono piano piano, si odiano per poi riavvicinarsi nuovamente, si addomesticano a vicenda. Tutti i mostri, in fondo, ad osservarli bene, non sono mai così mostruosi.
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