Kyoko è un’artista eccentrica che mette la sessualità al centro delle sue opere e maltratta i propri assistenti. Ma forse Kyoko è solo il personaggio di un film e l’attrice che la interpreta ne è l’esatto opposto, timida e complessata per una serie di traumi adolescenziali. O forse ancora…
In un villaggio normanno, vicino a Evreux, un orticoltore che ha molte ragioni per odiare la moglie, una megera, consulta un avvocato penalista, confessandogli di averla uccisa, e poi, seguendo i suoi consigli, la uccide. Grazie a lui, sarà assolto. Il primo, il migliore e il più misogino film del terzo Guitry postbellico, non di origine teatrale. Nel ritratto di un inferno coniugale e nella descrizione della provincia rurale l’umorismo caustico della storia sconfina talvolta in una ferocia che non manca di lucidità. Rapido come una schioppettata. Un Simon impareggiabile. Girato in 11 giorni. Rifatto nel 2001 con Omicidio in paradiso .
Ambientato in Marocco all’indomani della guerra 1914-18, contrappone Arabi e soldati della Legione Straniera, gli uni in difesa dei propri diritti, gli altri impegnati a osservare il loro codice d’onore. Un incidente di percorso nell’itinerario di Richards che ha voluto rivisitare il sottogenere della Legione Straniera. Poiché del film è anche produttore e soggettista, lo sbaglio è senza attenuanti.
Nel Texas del 1979, lo scalcinato produttore Wayne intende girare un porno film con cui riassestare le sue problematiche finanze. Con lui, nel furgoncino diretto al luogo prescelto per le riprese, c’è un altrettanto scalcinato gruppetto: le attrici Maxine (fidanzata di Wayne) e Bobby-Lynne, l’attore ex marine Jackson, il regista RJ (che non nasconde le sue velleità autoriali) e la sua timida fidanzatina Lorraine, che gli fa da assistente. Il viaggio termina nell’isolata fattoria dell’anziano e scorbutico Howard, da cui Wayne ha affittato una dependance piuttosto malmessa che, all’insaputa dell’anziano, sarà il set del porno, intitolato The Farmer’s Daughters. Tutto sembra perfetto e l’entusiasmo nella troupe non manca, mentre iniziano le riprese. Ma l’anziana moglie di Howard vigila e ha delle strane idee.
Un film di Hideo Gosha. Con Tetsuro Tamba, Tatsuya Nakadai, Yoko Tsukasa Titolo originale Goyokin. Drammatico, durata 90 min. – Giappone 1974. MYMONETRO Là dove volano i corvi valutazione media: 3,00 su 1 recensione.
Recitato come un classico del teatro Kabuki, questo film racconta la storia di un cavaliere coraggioso e leale che combatte le violenze e i soprusi dei potenti.
La qualità della versione in italiano è veramente bassa, consiglio versione in lingua originale.
Sheffield, Yorkshire del Sud, 1995. Un vecchio deposito delle ferrovie britanniche è privatizzato. Una squadra di navigators – operai addetti alla manutenzione – che lavorano insieme da anni è suddivisa tra varie società: cassa integrazione, flessibilità nei licenziamenti, lavoro precario, ferie non retribuite, incentivi salariali di produttività. La generosità, la coerenza, l’insistenza sulla tematica della classe lavoratrice di K. Loach sono ripetitive soltanto in apparenza. Come mostra anche il tragico epilogo, qui il tono è più dolente e amaro. Grazie alla rinuncia agli effetti più emotivamente coinvolgenti, lo spettatore è lasciato libero di trarre conclusioni e giudizi. Al sobrio servizio di una sceneggiatura competente e precisa (scritta da Rob Dawber, ex “navigatore”, morto di cancro prima della fine delle riprese), Loach racconta la fase conclusiva dello sfaldamento sociale operato dai governi conservatori e consolidato da quello del laburista Tony Blair.
Due cowboy, uno anziano e uno giovanissimo, stanchi del loro duro lavoro, tentano una rapina e fuggono verso il Messico col bottino, ma verranno uccisi dai loro spietati inseguitori.
Abe Lucas, professore di filosofia ormai privo di qualsiasi interesse per la vita, si trasferisce nell’Università di una cittadina. Preceduto da una fama di seduttore incontra la collega Rita Richards che cerca di attrarlo a sé per mettersi alle spalle un matrimonio fallito. C’è però anche la migliore studentessa del corso, Jill Pollard, che subisce il suo fascino e progressivamente gli si avvicina. Un giorno i due ascoltano, del tutto casualmente, la disperata lamentela di una madre che si è vista togliere la tutela di un figlio da parte di un giudice totalmente insensibile a qualsiasi esigenza umanitaria. Abe, in quel preciso momento, sente di poter fare qualcosa per quella donna e, con questo, di poter ridare un senso alla propria vita.
Ottimo film di controinformazione storica con radici nel passato remoto: dal XIII sec. l’Irlanda fu la prima colonia inglese. Fallita l’insurrezione armata nel 1916, nel 1920 reparti mal armati dell’IRA (Irish Republican Army) appoggiati dal partito di Sinn Fein, cominciano azioni di guerriglia contro le truppe britanniche e i Black and Tans (polizia ausiliaria) che reagiscono con una feroce repressione sui civili. Il 6-12-1921, grazie a Michael Collins, si firma un trattato che concede l’indipendenza e una sovranità limitata per 26 delle 32 contee dell’isola. Scritto da Paul Laverty, da 10 anni collaboratore di Loach, il racconto affronta la spaccatura tra riformisti e rivoluzionari (nel film: utopisti e realisti) che si condensa nel conflitto letale tra i fratelli Damien e Teddy O’Donovan. Evidenti sono le qualità che gli valsero la Palma d’oro a Cannes. Come in ogni opera valida del passato, ha palesi agganci col presente. Coniuga l’energia del cinema d’azione con l’approfondimento psicologico dei personaggi. Tutti bravi gli attori con Murphy/Damien primus inter pares . Restituisce l’aria del tempo (costumi di Eimer Ni Mhaoldomhnaigh) e riassume con efficacia l’intricato retroterra sociopolitico. Sposa l’emozione con la lucidità, il pessimismo con la volontà di lotta. Infine ha una qualità rara, una dimensione drammatica: nella 2ª parte diventa una tragedia moderna in cui la storia sostituisce il fato. Tra i due fratelli chi è Abele e chi Caino? Entrambi sono l’uno e l’altro. Loach e Laverty lasciano libero lo spettatore di scegliere e di schierarsi, se ci riesce. Titolo preso dal poeta irlandese Robert Dwyer Joyce.
Sedicenne che sogna la vita del cowboy s’aggrega a una spedizione di bestiame. Dopo disavventure, sparatorie, soprusi e un massacro conclusivo, getta disgustato la pistola. Apprezzabile opera prima di un ex fotografo e pubblicitario che si è proposto fin troppo programmaticamente di illustrare realisticamente la durezza, la fatica, la sporcizia e la violenza della transumanza, cioè della vita del cowboy. Eccellente fotografia modellata sui dagherrotipi e i quadri di Russell, Remington e C.
Il film narra la storia di Santa Maria Goretti, la fanciulla dell’agro pontino che venne uccisa da un bruto. La chiesa cattolica l’ha elevata agli altari. Il suo assassino era il figlio maggiore di una famiglia del luogo e cercò di abusare di lei approfittando dell’assenza della madre. Maria morì all’ospedale perdonando il suo assassino.
Dopo aver dedicato trent’anni alla sua squadra di provincia che gioca in serie A sempre in bilico sulla retrocessione, un direttore tecnico viene messo da parte da un nuovo padrone rampante. Non s’è mai fatto in Italia un bel film sul calcio; questa dolceamara commedia con la sordina ha il merito di raccontare l’ambiente calcistico e i suoi retroscena con un minimo di realismo critico: mostra quel che la TV non fa mai vedere. U. Tognazzi ci mette l’anima, e l’amarezza. Scritto dai fratelli Pupi e Antonio Avati con Italo Cucci e Michele Plastino, giornalisti sportivi. Nastro d’argento e David di Donatello alle musiche di Riz Ortolani. David anche al suono di Raffaele De Luca.
Critico rock e aspirante attrice s’incontrano dallo psicanalista e nasce tra i due un’amicizia solidale. Si rincontrano a Londra e in Cornovaglia e il loro rapporto nevrotico si trasforma in amore. Una struttura narrativa ben congegnata nelle simmetrie, nei bisticci, nei colpi di scena; un’efficace direzione di attori; un’armoniosa somma di contributi tecnici (tra cui le canzoni di Jimi Hendrix nei momenti giusti) fanno approdare Verdone a una comicità agrodolce che, nonostante la lieta fine, ha uno sguardo critico e problematico sul rapporto tra i due sessi. Scritto dal regista con Francesca Marciano. 2 David di Donatello a Verdone (regia, attore).
Da un romanzo di Kenneth Fearing, sceneggiato da Jonathan Latimer. Jannoth (Laughton), magnate della stampa, uccide per gelosia la propria amante e incarica uno dei giornalisti più brillanti (Milland) del “Crimeway Magazine” di scoprire il colpevole. L’investigatore scopre una serie di indizi che sono tutti a suo carico. Vispo thriller la cui ingegnosa vicenda criminale fa perno su un simbolico grande orologio, metafora del potere malefico di Jannoth. Notevole il personaggio eccentrico di E. Lanchester. “È uno dei thriller più vicini alla perfezione che io conosca” (Joe Dante). Rifatto con Senza via di scampo (1987).
Samira ha tanti anni e un dolore grande: ha perso sua figlia, uccisa dal cancro e da una vita tribolata nella periferia di Palermo. Da sette anni la ritrova in un cimitero assolato e desolato, dove sfama cani e cuccioli prima di riprendere la strada di casa alla guida della sua Punto e a fianco di un genero ostile. Rosa ha una madre da lasciare andare e un passato da dimenticare a Palermo, dove accompagna Clara, la donna amata, al matrimonio di un comune amico. Inquieta e infastidita da una città da cui è fuggita anni prima, infila via Castellana Bandiera, un strada stretta e senza senso di marcia. In direzione ostinata e contraria arriva Samira e chiede il passo per raggiungere la sua casa a pochi metri dall’impasse. Contrariata e altrettanto risoluta, Rosa è decisa a mantenere la posizione. Irriducibili sotto il sole tenace di Palermo, Samira e Rosa si affronteranno in un duello che non contempla resa e retromarcia. Di un uomo caduto morto in un duello non si penserà che “abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista”, scrive Cormac McCarthy in “Meridiano di sangue”. Allo stesso modo Emma Dante, regista teatrale che debutta al cinema, elude ‘giustificazioni’ o allineamenti, decidendo per il dicotomico senza stabilire una vittoria di una parte sull’altra o affermare quello che è giusto su quello che invece è avvertito come inopportuno. Rosa e Samira sono opposti che si osservano e si affrontano a una distanza limite. Figlia di un’altra madre e madre di un’altra figlia, sono selvagge votate alla distruzione vicendevole, corpi in stretto rapporto e dotati dello stesso corredo di dolore. La natura identica e testarda origina allora la tragedia, riflettendole geometricamente e impedendole a praticare la tolleranza e l’integrazione emotiva dell’altro. Calate in un clima ‘pagano’, che mette in scena le incomprensioni e le follie di una comunità, le protagoniste (si) ingombrano la strada del titolo e lasciano fuori campo il buco, un vuoto, uno strappo, una ferita ‘non filmabile’. Oggetto di spettacolo diventa perciò la loro ostinazione all’immobilità. Schierate l’una di fronte all’altra come in un western classico veicolano pulsioni dissidenti e negative, infilando con via Castellana Bandiera il punto di non ritorno. Il duello, celebrazione dell’ordine sulle eventualità disgregative del disordine, nel dramma di Emma Dante genera al contrario una forza distruttiva che diventa espressione fondante della pulsione di morte dei suoi personaggi. Nessuno escluso. Non ci sono regole da stabilire (e da rispettare) in via Castellana Bandiera. Dove la forza produce un diritto e la gente abita lo stesso numero civico, c’è piuttosto da scommettere sul cavallo vincente. Acme del racconto, il duello made in Italy tra una Punto e una Multipla non risolve le tensioni create dalla narrazione ma le provoca definendo geometrie che si dispongono nella profondità delle protagoniste e da lì ripartono contaminando parenti, vicini, curiosi, avventori. Disagio e inesorabilità si distribuiscono frontalmente e si incarnano in donne incapaci di qualsiasi ricognizione, di qualsiasi compassione, di qualsiasi ripresa. Interpretato dalle efficacissime Elena Cotta e Emma Dante, ‘affiancata’ dalla Clara di Alba Rohrwacher, Via Castellana Bandiera è un film a imbuto che trascina idealmente e concretamente in un gorgo di smarrimento infinito i suoi personaggi. Confronto tragico e lontano da qualsiasi purezza eroica, l’opera prima di Emma Dante ci lascia testimoni muti e agghiacciati. Impossibilitati a intervenire inserendo la retromarcia per evitare la deriva e liberare la strada a un ‘paese’ bloccato e incapace di ripartire. Se non in direzione della collisione e del suo esito sciagurato.
Un film di William A. Wellman. Con James Cagney, Jean Harlow, Edward Woods, Beryl Mercer, Donald Cook. Titolo originale The Public Enemy. Drammatico, b/n durata 84 min. – USA 1931. MYMONETRO Nemico pubblico [1] valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nell’America del 1909, alle soglie del proibizionismo, il ritratto senza reticenze dell’ascesa e della caduta di un gangster, Tom Powers (James Cagney), dall’infanzia trascorsa nelle strade di un quartiere povero di New York alle prime imprese criminose insieme con il fido amico Matt Doyle (Edward Woods), dagli amori travagliati con la fidanzata Kitty e la bellissima Gwen Allen (Jean Harlow) alla tragica fine per mano di una banda rivale. Interpretato da un vibrante James Cagney, capace perfino di far assumere al personaggio dimensioni eroiche nonostante la sua totale negatività, è insieme a Piccolo Cesare e Scarface il film che meglio rappresenta il genere ‘gangster movie’. La serratissima regia di William Wellman si esalta in alcune sequenze chiave come il laconico finale con l’abbandono del cadavere di Cagney davanti alla casa della sua famiglia.
Un’organizzazione contrabbanda la droga in modo semplice ed efficace. La nasconde in piccoli oggetti di persone del tutto ignare. Una volta a destinazione c’è chi recupera la “roba”. L’addetto a questa operazione è un assassino fin troppo crudele: uccide sistematicamente gli inconsapevoli corrieri e arriva persino ad ammazzare durante una lite il gran capo in persona. La polizia però è sulle sue tracce. Inseguimento in macchina per le vie di New York, sparatoria e punizione finale.
film di Ken Annakin. Con John Mills, Dorothy McGuire, James MacArthur Titolo originale Swiss Family Robinson. Avventura, durata 128′ min. – USA 1960. MYMONETRO Robinson nell’isola dei corsari valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Antesignana dei verdi ecologisti, una famiglia svizzera naufraga sulla rotta per la Nuova Guinea, approda in un’isola e la trasforma in un delizioso e un po’ noioso paradiso elvetico. Dal romanzo The Swiss Family Robinson di J.D. Wyss, filmato nel 1940 e poi per la TV nel 1975. Piacevole, didattico, per ragazzi.
Un film di Mervyn LeRoy. Con James Mason, Barbara Stanwyck, Van Heflin, Cyd Charisse. Titolo originale East Side, West Side. Drammatico, Ratings: Kids+13, b/n durata 108′ min. – USA 1949. MYMONETRO I marciapiedi di New York [1] valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nell’alta società di New York un riccone galante coniugato riavvampa per una ex amante più giovane e trascura la moglie che si consola con un corteggiatore. Quando l’amante viene uccisa, il riccone rischia di essere incriminato. Melodramma targato M-G-M, imbattibile nel presentare in confezione di lusso materiale sostanzialmente poco interessante. Conta per il cast: B. Stanwyck (1907) e A. Gardner (1922) rivali in amore, ma sono in partita anche C. Charisse e N. Davis, futura signora Ronald Reagan.
Un film del genere “yakuza”, cioè il “nero” giapponese, e un quadro sulla violenza insita nei giovani che cercano di arrivare ai loro scopi con troppa facilità. Mako, una giovane, viene molestata da un uomo di mezza età. Un ragazzo la salva. Poi quest’ultimo si rivela un sadico. Uno dei primi film di Oshima, realistico e spietato.
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