Nella comunità ebraica di Montréal 1948 l’arrampicata sociale del giovane Duddy Kravitz che s’inventa imprenditore, speculatore finanziario, produttore cinematografico per realizzare il suo sogno di radicamento, integrazione e ricchezza, sacrificandogli parentele, amicizie, amori. Da un romanzo (1959) del canadese Mordechai Richler che ha brio e ritmo, quasi per intero costruito sui dialoghi, adattato dall’autore. Con American Graffiti , lanciò un bravissimo R. Dreyfuss, ma lo sono altrettanto D. Elliott come regista e R. Quaid, innocente sempliciotto. La riduzione privilegia la dimensione comica del romanzo, mettendo la sordina ai suoi significati sociali. Orso d’oro a Berlino 1974.
Due agenti della Buoncostume di Los Angeles, piuttosto anticonformisti, sono incaricati di un’indagine su una squillo d’alto bordo e su un night-club dove si spaccia droga. 1° film di Hyams che veniva dal giornalismo televisivo. È un poliziesco svelto, vivace, divertente, ma convenzionale, di livello medio. Fu criticato negli ambienti gay perché mette in caricatura gli omosessuali.
Con poca voglia ma parecchia obbedienza alla madre, Giulio entra in un collegio prestigioso per rampolli benestanti. Dalle sembianze asburgiche, la struttura è una nota palestra per la futura classe dirigente, rigida e spietata. Il ragazzo è immediatamente attratto da Edo, dalla personalità a lui opposta, anticonformista e incline alla ribellione. In complicità si oppongono al bullismo imperante e in totale segretezza, iniziano a trascorrere nottate in un locale di prostitute. Gli effetti attesi non tarderanno a presentarsi.
Dalla tragedia (431 a.C.) di Euripide: abbandonata da Giasone, Medea, regina barbara della Colchide, ricorre alle arti magiche per far morire la rivale Glauce e completa la vendetta, uccidendo i due figli avuti dall’argonauta. È il 4° e ultimo film tragico e mitico di Pasolini, “mescolanza un po’ mostruosa di un racconto filosofico e di un intrigo d’amore” (P.P.P.) e occasione per affrontare il tema del passaggio dal vecchio mondo religioso-metafisico al nuovo mondo laico-pragmatico. Una metafora sul Terzo Mondo affidata alla disponibilità tragica (e insoddisfacente) della Callas. L’eclettismo figurativo e il gusto della contaminazione di Pasolini rivelano qui i loro limiti: è, forse, il più manieristico, squilibrato, algido dei suoi film, sicuramente il più ideologico.
Regista teatrale in crisi esistenziale e ossessionato dalle malattie e dall’idea della morte, Caden è circondato da un esercito di donne: la moglie Adele, pittrice che parte per Berlino con la figlioletta, Maria la (presunta?) amante di Adele, la sua psicanalista preoccupata solo dai suoi libri, la bella Hazel. Dopo una carriera di sceneggiatore Kaufman passa alla regia e sembra voler infilare in un solo film tutto quello che ha visto e imparato in una vita: il risultato è prolisso e ripetitivo. Ripescato dopo 6 anni, in seguito alla morte di Hoffman.
Un uomo, costretto all’immobilità da un grave disturbo, è persuaso che la moglie lo tradisca con un ex innamorato. Per vendicarsi spedisce al procuratore distrettuale una lettera nella quale accusa la moglie di volerlo assassinare con la complicità dell’amante.
Antonio Sernesi, detto Bob, è un giovane meccanico che fa il gallo. Corteggia cinque ragazze contemporaneamente. Vivace esordio di V. Zurlini che ricrea con garbo, brio e freschezza l’atmosfera pittoresca e i personaggi coloriti della Firenze del romanzo (1952) di Pratolini. Ottima direzione di attori. Sceneggiato da L. Benvenuti e P. De Bernardi. L’attrice M. Mariani morì nel 1956 in un incidente aereo sul Terminillo. Aveva partecipato ad altri 6 film tra cui Senso .
Serge Tanneur, stimato attore, si è ritirato in campagna dove vive come un eremita. Va a trovarlo Gauthier Valence, amico e collega, acclamato divo di una serie TV, che gli propone di rimettere in scena insieme Il misantropo di Molière, alternandosi nelle parti del protagonista Alceste e di quella di Philinte. Serge è scettico. Poi gli propone di fermarsi per fare insieme le prove dell’esperimento. La presenza inattesa di Francesca, una vicina italiana in partenza, seduce Serge. Dal “come” i 2 protagonisti si divertono a improvvisare la parodia dei modi di declamare i versi alessandrini, risulta che si parla anche di una specie di fantasia di potere. Quello della lotta per il potere è un tema serio espresso in modi leggeri. Quando Gauthier gli restituisce la gioia di vivere, Serge passa dalla misantropia vendicativa dell’inizio a un nobile distacco, finché nel finale si riconcilia con sé stesso. In qualche modo i 2 finiscono per farsi del bene l’un l’altro. Attori bravissimi, specialmente Luchini.
Louis ha trent’anni, una figlia e una compagna che lascia per un’altra. Attore di teatro, a cui piace flirtare e fare lunghe passeggiate, Louis è ‘definitivamente’ innamorato di Claudia, un’attrice che adora Majakovskij e da alcuni anni ha appeso la ‘maschera’ al chiodo. Gelosa e imprevedibile, Claudia ama Louis di un amore libero che ‘giace’ con amanti occasionali. Insofferente alla vita domestica e a un appartamento troppo piccolo per il suo ego, Claudia trova lavoro come archivista nello studio di un architetto che diventa molto presto il suo amante. Ignaro Louis le dichiara ogni giorno il suo amore, camminando per parchi e per ore con lei e la figlioletta, a cui lo lega un amore tenero e infinito.
A Midwich, un giorno, il tempo sembra fermarsi per qualche ora: ogni comunicazione con il resto dell’Inghilterra è improvvisamente interrotta e gli abitanti del paese cadono in un sonno mortale nel pieno delle loro occupazioni quotidiane … poi, tutto sembra tornare come prima. Nessuno sa spiegarsi il fenomeno, ma qualcosa realmente è accaduto. Qualche settimana dopo, infatti, alcune giovani donne del paese scoprono di essere incinte, quasi fossero state fecondate a loro insaputa. I bambini che nasceranno – somiglianti l’uno all’altro come gocce d’acqua – saranno creature incredibilmente intelligenti, prive di sorriso e terribilmente ostili agli uomini. Il fisico Gordon Zellaby scoprirà che essi comunicano tra loro telepaticamente e che costituiscono una seria minaccia per l’umanità.
Scritto dal regista con Umberto Contarello, liberamente tratto dal romanzo La dismissione (2002) di Ermanno Rea. Convinto che nell’altoforno di una acciaieria dismessa, venduta ai cinesi, esista un difetto cui lui solo può rimediare, Vincenzo Buonavolontà (in Rea: Buonocore), operaio manutentore, vola a Shangai e attraversa la Cina fino in Mongolia a sue spese per consegnare la centralina che ha fabbricato. Gli è compagna e guida la ventenne Liu Hua, incontrata in Italia come interprete, che forse è un’altra, inconscia ragione del suo viaggio. Pur nella sua lineare semplicità, appare un film difficile e non privo di difetti, almeno sul piano della verosimiglianza, il che spiega perché abbia diviso pubblico e critici. Non è un po’ folle la spinta al viaggio nel Paese più indecifrabile del mondo di questo Buonavolontà, idealmente apparentato con i personaggi del Primo Levi di La chiave a stella che portano dentro un senso antico e ormai anacronistico della dignità del lavoro ben fatto? Una volta tanto, lo sguardo di Amelio coincide con quello del suo protagonista. È un viaggio pieno di ostacoli alla ricerca di sé stesso, “un percorso che lo libera e lo consola” (G. Amelio) e che forse lo farà rinascere grazie all’incontro con Liu Hua. Soltanto chi non sa captare l’importanza di questa dolente ragazza madre (“Mio figlio non sa nemmeno che sono nata”) e non capisce che Buonavolontà è un sognatore, ma accorto e coraggioso, può parlare di film “freddo”. Quando alla fine s’incontrano nella stazioncina, i due sono “nati due volte” e parlano la stessa lingua. Tristi, ma pronti a ricominciare. Fotografia: Luca Bigazzi. Musica: Franco Piersanti.
Pur di non scendere a compromessi, architetto geniale e anticonformista fa l’operaio finché trova un alleato nel direttore di un quotidiano di New York la cui moglie, giornalista ambiziosa, è innamorata di lui. Quando un suo grande progetto subisce gravi modifiche, fa saltare in aria gli edifici e chiede un pubblico processo per sostenere le sue idee. Sceneggiato da Ayn Rand, che adattò il suo primo filosofeggiante romanzo, e ispirato alla vita dell’architetto Frank Lloyd Wright, è il più bizzarro film nella carriera di Vidor e in quella di Cooper: una magniloquente allegoria, più metafisica che etica, sull’individualismo, un inno all’autonomia dell’artista integro cheè utile alla comunità più che le forze del denaro, degli affari e della politica che la sfruttano e l’asserviscono. Ciascuno dei personaggi principali incarna un valore o un disvalore. Sono astrazioni così com’è astratta e disincarnata la passione che lega i due protagonisti. Prodotto dalla Warner. Titolo francese: Le Rebelle.
Dal romanzo omonimo di Malcom Lowry. L’ex console britannico in Messico (Finney) è preda di manie autodistruttive da quando la moglie (Bisset) lo ha abbandonato. Pesantemente dedito all’alcol, continua a cercare ostinatamente la fine anche quando la moglie ritorna da lui. Film amaro e visionario, costruito sulla recitazione di uno strepitoso Finney. Nonostante qualche inaspettata caduta di tono, resta comunque l’opera di un grande maestro.
I subita della versione 1080p sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Maniaco assassino decapita per vendetta a Minneapolis una mezza dozzina di persone, portandosi via le teste in ricordo. Risolvono il caso un giovanotto intrepido e un ragazzetto miope e impiccione. Nonostante la terribilità truculenta dei misfatti, è anche una storia di amore e di guarigione, qua e là innervata di fili argentei d’ironia e di mordace umorismo. Bravina come anoressica Asia, figlia del regista. C’è anche, mimetizzato e inquietante, Frederic Forrest.
Non c’era un marito buono per Gertrude Bell in tutta l’Inghilterra. Troppo sveglia, curiosa, acculturata, intelligente e troppo poco disposta a nascondere queste qualità per accasarsi. Solo fuori dai confini del suo paese, nei deserti dell’impero Ottomano in disfacimento, ha cominciato a vivere. Non solo popoli, persone, immensità e luoghi da conoscere ma anche esseri umani che ne apprezzassero la forza intellettuale. Tra un amore civile e uno selvaggio nella sabbia, Bell, cavalcando con tre cammelli e due aiutanti, ha conosciuto, esplorato e preso contatto con luoghi e popoli a cui nemmeno l’intelligence britannica aveva accesso, diventando, di fatto, il loro braccio e la loro spia principale. Tanto che nel 1920 fu lei a dividere l’impero Ottomano, segnando i confini dei nuovi stati e assegnandone il comando. Ancora una volta nel cinema di Werner Herzog il teatro di tutta l’azione, nonchè lo specchio della portata epica delle intenzioni dei personaggi, è un’immensità riempita da una natura incontaminata, nella quale la vita ha il medesimo sapore della morte e in cui l’uomo sembra un ospite indesiderato della fauna. Al centro dell’epopea di Gertrude Bell secondo Herzog (che, come sempre, quando può, scarta volentieri dai fatti veri) c’è, per l’appunto, il deserto. La definizione delle imprese di questa donna, che il regista guarda con la precisa volontà di scalzare Lawrence d’Arabia dal suo trono (Pattinson è così fuori parte che sembra quasi fatto apposta), si misura con l’immensità che attraversa ed esplora. Di luogo inaccessibile in luogo inaccessibile la sua Bell sfida se stessa attraverso la natura (come tutti gli eroi herzoghiani), in imprese che gli altri ritengono impossibili. Nonostante non sia un uomo quindi, la Gertrud Bell di Nicole Kidman si presenta come una delle migliori personificazioni dello spirito dell’eroe per Werner Herzog: una persona dalla tenacia fisica alimentata dalla forza morale (tanto da resistere ad uno sparo nel braccio) e la cui audacia è sostenuta da un desiderio profondissimo, che per Bell è conoscere e vedere, per poi fare da mediatrice politica.
Un giovane, che ha ucciso per legittima difesa, viene perseguitato dal testimone che ha fotografato l’omicidio. La sua cameriera viene ammazzata e la moglie se ne va. L’investigatore assunto dall’uomo viene assassinato, e anche una ragazza che gli è rimasta vicina subisce la stessa sorte. Alla fine, a un pelo dalla morte, il giovanotto scopre chi è l’assassino.
Un film di Robert Siodmak. Con Olivia De Havilland, Thomas Mitchell, Lew Ayers Titolo originale The Dark Mirror. Poliziesco, Ratings: Kids+16, b/n durata 85′ min. – USA 1946. MYMONETRO Lo specchio scuro valutazione media: 3,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un medico deve scoprire, parallelamente alle indagini della polizia su un efferato delitto, quale di due sorelle gemelle è una psicopatica assassina. È un piccolo classico del cinema nero degli anni ’40. Partendo da una solida e aguzza sceneggiatura di Nunnally Johnson, da un soggetto di Vladimir Pozner, R. Siodmak lavora bene di chiaroscuro. Esercizio di bravura di O. de Havilland in 2 parti. Rifatto per la TV come Lo specchio nero.
Un film di John Woo. Con Chow Yun-Fat, Anthony Wong Titolo originale Lashou Shentan. Poliziesco, durata 125 min. – Hong Kong 1992. MYMONETRO Hard Boiled valutazione media: 3,17su 5 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Durante un’azione di polizia in una sala da tè, perde la vita un agente amico di Tequila (Chow Yun-fat). La sete di vendetta di quest’ultimo lo porterà involontariamente a ostacolare i piani dell’agente Alan (Tony Leung), infiltrato nell’organizzazione del sadico trafficante d’armi Johnny (Anthony Wong). The Killer rappresenta il lirismo dello heroic bloodshed, A Better Tomorrow la componente più melò ed essoterica,A Bullet in the Head il lato più politico e nel contempo personale; ma se si cerca la summa del cinema d’azione duro e puro secondo John Woo occorre rivolgersi a Hard Boiled. Nonostante le ingenuità di sceneggiatura e gli eccessi, è evidente sin dalla prima di una lunga serie di coreografie action, la sparatoria nella sala da tè, che Hard Boiled rappresenti una sfida lanciata da Woo a se stesso, per verificare fin dove è possibile alzare l’asticella dell’action movie, aggiornando la lezione di Siegel e Peckinpah alle esigenze, in termini di sangue ed energia cinetica, di fine millennio. La balistica dei proiettili e le evoluzioni aeree dei contendenti sono esaltate da coreografie impensabili (la morgue o una sala da tè usati come corpi cinematografici funzionali allo shoot-out, immobili in un contesto in cui uomini e macchina da presa sono acrobati in perenne movimento), che portano alle estreme conseguenze l’invincibilità di eroi e malvagi e la sostanziale inesauribilità dei proiettili. Se i villain sono autentiche caricature, con Philip Kwok nei panni del killer spietato e infallibile e l’eclettico Anthony Wong in quelli del boss psicopatico Johnny, è il lavoro sugli eroi a esaltare la concezione del mondo e dei rapporti umani secondo John Woo. Tequila è uno dei personaggi più emblematici di Chow Yun-fat, nel contempo umile sergente che preferisce l’arte (il clarinetto) e il disimpegno (nelle relazioni) alla carriera, ma che è immediatamente disposto a sacrificare la vita per assicurare i criminali alla giustizia o per vendicare un amico; impagabili i siparietti con un barista ex-poliziotto interpretato da Woo stesso e che – ovviamente – incarna alla perfezione gli ideali del regista. Ma ancor più suggestivo di Tequila è il personaggio di Tony Leung Chiu-wai, il cui approccio minimalista contrasta con la recitazione sopra le righe di Chow e Wong; è dal contrasto stridente tra gli stili recitativi che viene evidenziata la peculiarità di una psiche complessa (o comunque più complessa della media Woo) come quella di Alan, scissa tra personalità multiple e contrastanti: oggi killer implacabile delle triadi e domani poliziotto pronto a tutto pur di mettere fine al racket di Johnny. Un anticipo del tema sull’identità su cui Alan Mak costruirà la trilogia intera di Infernal Affairs. Metafore come il richiamo a Shakespeare – quintessenza del dubbio – sono semplici e dirette, ma è il linguaggio che Woo meglio conosce per esporre la propria etica. Quando ricorre alle parole, naturalmente; per il resto c’è pur sempre il piombo.
Un barbiere esce di prigione dopo aver scontato 22 anni per aver ucciso il presunto amante della moglie. Viste le ingiustizie e gli egoismi della società, preferisce rientrare in carcere. Con La macchina ammazzacattivi (1948), è uno dei due tentativi di Rossellini di cimentarsi nella commedia di costume. Sostanzialmente non riuscito, quest’apologo sull’ingiustizia e sulla libertà è, comunque, interessante. Girato nel 1952, uscito nel 1954 dopo essere stato manipolato dai produttori Ponti e De Laurentiis. Alcune sequenze girate da M. Monicelli.
Il protagonista è l’uomo di fiducia di una cosca mafiosa. Dopo anni di fedeltà alla “famiglia”, però, sembra che lo vogliano defenestrare. Lui se ne accorge quando lo tagliano fuori da un grosso affare. Difatti, poco dopo, gli mandano il killer.
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