Don Salvatore Anastasia, un ingenuo prete italiano, va in America a trovare il fratello Alberto, ignorando che questi è il temuto capo dell’Anonima Omicidi. E continua a volerlo ignorare anche quando Alberto è imprigionato dalla commissione Kefauver e poi ammazzato in un negozio di barbiere. Ritorna in Italia e scrive un libro innocentista.
Benjamin Button nasce il giorno della fine della prima guerra mondiale, è un bimbo in fasce ma ha la salute di un novantenne: artrite, cataratta, sordità. Dovrebbe morire il giorno dopo e invece più passa il tempo più ringiovanisce. La sua è una vita al contrario che attraversa il Novecento americano sempre alla ricerca del primo e unico amore, una donna molto più emancipata, libera e in linea con il suo tempo di lui. L’unico momento in cui si potranno trovare sarà all’incrociarsi delle loro età: “Mi amerai ancora quando sarò vecchia?”, chiede lei. “E tu mi amerai ancora quando avrò l’acne?” risponde lui. Fincher sceglie di narrare una storia con un espediente classico: a partire dalla modernità, attraverso le memorie di un diario letto alla protagonista ormai anziana e in punto di morte. Fotografa tutto virando verso il seppia e opta per la calligrafia spinta, cosa che ovatta il racconto con l’indulgenza e il fascino di cui sono dotati i ricordi. Il risultato è un’agiografia del passato che vince sul presente (New Orleans ieri e oggi con Katrina alle porte), una prospettiva a ritroso indulgente e favolistica sugli Stati Uniti che non affronta nessun tema davvero e che, cosa bene più grave, manca di emozionare con sincerità. Benjamin Button ringiovanisce invece di invecchiare ma questo non ha nessun effetto sulla trama nè tantomeno serve a dare una visione particolare degli eventi in cui è coinvolto o della società in cui è inserito, come avveniva invece con la stupidità di Forrest Gump (il paragone inaffrontabile con l’opera di Zemeckis sorge spontaneo data la sostanziale identità della struttura della storia). Il curioso caso di Benjamin Button sembra chiedersi unicamente “Come si comporterebbe un vecchio con la testa di un bambino? E come un giovane con l’esperienza di un vecchio?”, tentando di conseguenza una riflessione sulla morte e sulle possibilità di sfruttare al massimo la propria vita. “Non sai mai cosa c’è in serbo per te” ripete a Benjamin la madre adottiva, evitando accuratamente di citare scatole di cioccolatini. Gigantesco il lavoro fatto sull’invecchiamento e il ringiovanimento digitali di Brad Pitt, entrambi ottenuti sperimentando una tecnica innovativa di motion capture. Il risultato è evidente: in ogni caso il personaggio è sempre lui, Brad Pitt, anche quando gli somiglia veramente poco. Meno celebrata invece Cate Blanchett che, invecchiata e ringiovanita anch’essa per esigenze di copione, supplisce alla frequente mancanza di digitale con la solita prestazione fuori da ogni ordinarietà.
3 episodi (più “L’università”, semidocumentario): “La bomba alla televisione” (con V. Gassman come regista anarchico); “Concerto a tre pifferi” (ritratto di un industriale); “Il prete” (A. Sordi parroco di campagna che vorrebbe sposarsi). Scritto da Benvenuti & De Bernardi, non è all’altezza del tema. Il migliore scritto da R. Sonego, è l’ultimo con Sordi in gran forma, mentre Gassman istrioneggia a ruota libera. In mezzo c’è il grande M. Simon che riesce a ridurre N. Manfredi a spalla.
Separato dalla moglie (Masina), il commendatore Tullio Conforti passa la settimana pascolando con le sue amanti, una al giorno. La domenica, sul suo yacht, si concede un meritato riposo. Ma continua a dichiararsi contro il divorzio. Ispirato al progetto di legge Fortuna (che fu approvato nel 1970), il 2° film diretto da A. Sordi è stato scritto con Sergio Amidei. L’attore sopperisce alle carenze della regia. Grande successo.
Cencio, rampollo di una famiglia di ladri di borgata, è assecondato dalla bella Cesira, finché prende di mira un commerciante di cui lei s’innamora. Vicenda disarticolata resa credibile e omogenea dalla bravura di Sordi.
In una domenica a Roma negli anni Cinquanta, in un grande condominio, si intrecciano le vicende di alcune domestiche. È mattina. Le ragazze, affacciate alle finestre, si scambiano confidenze pregustando le ore di libertà che le attendono quel giorno. Caterina è in servizio presso una signora che la crede bugiarda nonostante lei si sforzi di raccontarle la verità. Angela aspetta da tempo notizie dal fidanzato e lavora per una donna le cui uniche attenzioni sono rivolte ai suoi cani. La provocante e ingenua Giulietta rende i suoi servigi alla famiglia Tanzi, e al pomeriggio ha un appuntamento con Luciano. Antonietta, matura servente che si vede con Bepi, finto cleptomane, ha organizzato un pomeriggio molto culturale per lei e il suo impenitente ladruncolo. Queste e altre storie si snodano nello stabile sotto gli occhi attentissimi di Antonio, portiere a sua volta guardato a vista da una vecchia moglie gelosa. Commedia semplice, basata su un’ottima sceneggiatura, la pellicola di Bruno Paolinelli ritrae piccole storie di donne immerse in una quotidianità dolce e a tratti amara. Divertente spaccato dell’Italia prima del boom, il film si struttura attraverso dialoghi serrati, situazioni spiritose, macchiette variopinte e vitalizzate dalla recitazione di grandi attori.
Un ladro incurabile che ruba i bottoni dalla giacca del portiere, le macchinine dei bambini e le targhette sulle porte con la stessa noncuranza; il dottor Tanzi che approfitta della giovane Giulietta e inscena uno scambio di battute esilarante e senza respiro con il portiere che non vuole andarsene (irresistibili Alberto Sordi e Aldo Fabrizi); la domestica Caterina che vede involontariamente le parole sulla sua bocca trasformarsi sempre in bugie tanto che, alla fine dovrà paradossalmente mentire prima di essere creduta. E poi Angelina, disperata per amore, che viene salvata dopo aver tentato in casa il suicidio. Come l’incantevole Shirley MacLaine, qualche anno più tardi, in L’Appartamento di Billy Wilder.
Un alieno, che si nutre di droga e di una misteriosa sostanza che l’uomo produce durante il rapporto sessuale, trova una perfetta “sistemazione” a casa di due sbandate cocainomani. Da quel momento ogni uomo che va a letto con le ragazze muore.
Nerone tenta in ogni modo di far uccidere la madre Agrippina, unica persona che riesca a tenergli testa complicandogli la vita con continue sollecitudini alla guerra. Anche Seneca e Poppea si danno da fare per eliminare la vecchia imperatrice, che però sembra avere cento vite. Alla fine Nerone ce la fa, e insieme alla madre fa uccidere tutti quelli che lo hanno aiutato e che gli sono venuti a noia, moglie compresa.
Ricchissimo e potente consulente finanziario (M. Douglas) a San Francisco riceve in regalo dal fratello (S. Penn), alla vigilia del suo 48° compleanno, la tessera d’iscrizione a un club che organizza giochi personalizzati per animare esistenze monotone. Si mette in contatto con il club e si trova a vivere un incubo, una vita a rischio continuo. Il “gioco” ( game ) è riuscito: suspense, intensità, mistero, sorprese, disavventure ansiogene, invenzioni di regia. Ma riuscito il film non lo è: c’è un eccesso di ingegnosità di intrigo che diventa stravaganza gratuita, senza contare la madornale sproporzione tra i mezzi e il fine. Il difetto, insomma, è nel manico, nella sceneggiatura di John Brancato e Michael Ferris. Tutto è truccato in questa metafora del cinema.
Nel 1898 ai tempi della corsa all’oro, nello Yukon, un cowboy accompagnato da un amico conduce una mandria per gli affamati minatori, ma un prepotente vorrebbe fargli pagare un esoso pedaggio. Dopo alterne vicende il nostro eroe riuscirà vincitore e sposerà una ragazza del luogo.
È il miglior film di Polanski nella sua vecchiaia. Robert Harris riconosce che, almeno per la struttura, il film è superiore al suo romanzo (2007), da lui adattato col regista. Adam Lang, ex premier britannico, ha scritto un libro di memorie che, giudicandolo noioso, l’editore ha affidato a un “negro” che muore annegato: incidente? suicidio? Gli subentra un altro ghost writer (senza nome) che diventa subito un sopravvissuto con la morte alle calcagna, coinvolto in un inconoscibile complotto alla Hitchcock. L’azione del film si svolge in un’isola sulla costa orientale degli USA, dove l’ex premier risiede con la moglie, la segretaria-amante e un agguerrito servizio di sicurezza. In un thriller politico intessuto di inganni e tradimenti a ogni livello emergono 3 temi polanskiani: la diffidenza per ogni potere pubblico, l’isolamento e l’acqua, da lui associata alla minaccia, alla morte, al male. Ritornano la sua predilezione per i perdenti, il gusto per le atmosfere psicologiche, la capacità di far scaturire dalla realtà l’ambiguità inquietante, l’infallibile direzione degli attori: McGregor e Brosnan non hanno mai avuto personaggi così “importanti”. E la Williams non è mai stata così espressiva. Fotografia: il polacco P. Edelman. Orso d’argento a Berlino 2010 per la regia.
Dal romanzo omonimo (1973) di James G. Ballard. Ossessionato dagli incidenti d’auto, Vaughan esplora le possibilità di un soddisfacente rapporto erotico tra il pericolo, la macchina e il corpo umano, rimodellandone la sessualità attraverso la tecnologia. James Ballard e sua moglie Catherine imparano da lui, come fa Helen, rimasta vedova dopo un incidente automobilistico. Variazione futuribile sul connubio tra sesso e morte, il libro di Ballard, “1° romanzo pornografico basato sulla tecnologia”, non poteva non stimolare un regista che fa dal 1966 un cinema dell’horror biologico, fondato sul polimorfismo della sessualità e sulla trasformazione del corpo attraverso le macchine. Frutto di un’inconfondibile cifra stilistica e di un immedicabile pessimismo, Crash celebra la morte del sentimento e allunga la lista dei film catastrofici del Novecento al suo epilogo. Forse è già un film del 3° millennio.
Alla ricerca dell’uccisore della sua fidanzata, cowboy capita al “Mulino d’oro”, quartier generale di una banda capeggiata da un giocatore di professione e dalla cantante Ambra. Girato a basso costo, fondali ed esterni di cartapesta esibiti nella loro falsità, rozzo Technicolor RKO, è uno dei più fascinosi film del Lang americano, impregnato di un romanticismo struggente sui temi della ruota, del destino, della colpa, intorno alla figura mitica di Marlene. Western barocco da mettere vicino a Johnny Guitar (1953). Scritto da Daniel Taradash.
Tunisi, 1942, durante l’occupazione della Wehrmacht tedesca. La musulmana Nour e l’ebrea sefardita Myriam sono cresciute insieme, vicine di casa e amiche. Nour è promessa sposa al cugino Khaled, ma deve rimandare le nozze. Myriam è spinta dalla madre (la stessa regista, ebrea e algerina) a un matrimonio d’interesse con un ricco e maturo medico per aiutare la famiglia, costretta dalle leggi razziali a pagare grosse multe. Il canto accompagna tre momenti del loro rapporto: la canzone delle due che giocano a fare le adulte, il canto femminile di rito durante la preparazione del matrimonio di Myriam e quello finale e disperato delle due, ormai donne, in un rifugio sotterraneo durante un bombardamento, sintesi emotiva dei vari fili del racconto. Come nel precedente La petite Jerusalem (2005), la Albou svolge la sua complessa tematica sul riscatto femminile in una società dominata dal potere maschilista con intensa e sensibile semplicità, non senza qualche schematismo, quasi inevitabile in un simile contesto. Musiche: François-Eudes Chanfrault. Presentato al Torino Film Festival 2008 e al 3° Filmfestival del Garda 2009.
Dave, un 19enne dell’Indiana, sarebbe un adolescente americano qualsiasi se non fosse affetto, sull’onda di una passione per la bicicletta, da un’acuta italofilia. Il suo eroe è Felice Gimondi, il suo gatto si chiama Fellini, mangia cibi italiani, ascolta dischi di Rossini e Donizetti. Con tre amici s’iscrive a una corsa in linea a squadre. Vi partecipa un quartetto italiano della Cinzano che lo sbatte fuori di strada. È il crollo di un mito. Deliziosa e briosa commedia animata da un affiatato gruppo di interpreti, ben serviti da un’ottima sceneggiatura dello iugoslavo Steve Tesich che, su 6 nomination, ebbe l’Oscar e nel 1985 fu consulente di una miniserie TV intitolata L’America in bicicletta .
Laura ha acquistato con il marito il vecchio orfanotrofio in cui è cresciuta per trasformarlo in un accogliente istituto per bambini bisognosi di cure, come Simon, malato di HIV, che ha adottato e che non ha molto da vivere. Il ragazzino, solitario e introverso, si è creato degli amici immaginari con i quali gioca e che terrorizzano Laura perché lasciano segni e impronte fin troppo reali. Durante la festa d’inaugurazione dell’istituto Simon scompare. Le ricerche dei genitori aiutati poi anche dalla polizia sono vane. Sergio G. Sanchez scrive, Guillermo Del Toro produce e affida la regia – con successo: 25 milioni di euro e 7 Goya (gli Oscar spagnoli) – all’esordiente Bayona che supera i limiti di un horror d’atmosfera. Come? Preferendo l’indagine psicologica, il dolore, l’analisi degli affetti rubati e delle ferite ancora aperte. Ottima interpretazione della Rueda, volto interessante, segnato e preservato da scempi di chirurgia estetica o botulino. Inquietante la presenza della scheletrica Chaplin.
L’ultranazionalista generale Radchenko, leader di un gruppo di militari ostili alla svolta democratica intrapresa in Russia dopo il crollo del regime comunista, occupa una base missilistica con l’intenzione di ricattare il governo, minacciando, al tempo stesso, azioni di rappresaglia se l’Occidente oserà interferire nei suoi piani. La Casa Bianca si risolve ad affidare al veterano Ramsey, comandante del sottomarino atomico Alabama, il compito di effettuare, in caso di estrema necessità, un attacco preventivo contro i ribelli. Quando le informazioni via satellite sembrano confermare che Radchenko sta passando dalle parole ai fatti, Ramsey si prepara ad agire secondo gli ordini ricevuti anche se prima di rimanere isolato a causa di un’aggressione nemica, l’Alabama ha captato in maniera incompleta un altro messaggio da parte dell’Ammiragliato. Il secondo ufficiale Ron Hunter consiglia di sospendere l’operazione in attesa di verificare le reali intenzioni del Presidente degli Stati Uniti, ma Ramsey, per il quale ormai ogni minuto è prezioso, non intende temporeggiare. Tra i due ufficiali è scontro aperto e a bordo la tensione scivola verso l’ammutinamento…
Confezione di lusso per un thiller fantapolitico che dopo un avvio convincente si incarta nel discutibile sforzo di giustificare entrambi i protagonisti, riconoscendo valore alla strategia di Ramsey ed esaltando la prudenza di Hunter: una soluzione di compromesso, che salva l’immagine divistica dedli ottimi Hackman e Washington presso il grande pubblico, ma scontenta – per opposte ragioni – tanto i “falchi” quanto le “colombe”. Un film spettacolare e di grande successo commerciale, in concorso all’Oscar 1996, ma intrinsecamente vuoto e ambiguo, molto distante dalle coraggiose tesi antimilitaristiche di due film sulla guerra fredda come L’ultima spiaggia e A prova di errore.
Sciagurato esempio di come non realizzare un thriller erotico, In The Cut, basato sul romanzo best seller di Susanna Moore, rappresenta il nadir delle produzioni cinematografiche, di quello che, si può affermare con certezza, essere il peggior Natale filmico degli ultimi anni. Privo di trama, costruzione dei personaggi e spessore drammaturgico, il film sembra montato ad arte solo per creare un risibile effetto di attesa per la prova di Meg Ryan, finalmente, anzi, troppo tardi, slegata al cliché di commediante romantica e sognatrice. Purtroppo mai come in questo caso, l’espressione “tanto rumore per nulla”, è veritiera. La tanto strombazzata performance “hard” di Meg Ryan si riduce ad una squallida scena in penombra, durante la quale l’attrice mostra le sue grazie al bovino e pelossisimo Ruffalo, altra macchietta inventata da una critica compiacente.
Due sergenti, Clay e Slaughter, organizzano piccoli traffici per rendere l’addestramento militare del campo un po’ più piacevole. La morte di Slaughter spingerà Clay a mettere la testa a posto e a restare seriamente nell’esercito. Bizzarro film tragicomico di ambiente militare che ha in J. Gleason la sua carta vincente. Sceneggiatura di Blake Edwards e Maurice Richlin da un romanzo di William Goldman.
Durante la prima guerra mondiale, la canzonettista Lili è una spia al servizio dei tedeschi. Innamoratasi di un ufficiale americano di cui doveva spiare i movimenti, Lili ammette la sua attività alle autorità alleate per scagionare l’uomo da ogni sospetto. Il servizio segreto tedesco la condanna ma…
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