Bologna, 1938. Il prof. Michele Casali, docente al Liceo “Galvani”, ama in modo assoluto la figlia Giovanna, bruttina e con problemi psicologici. La ama al punto di estraniarsi la moglie e non cessa di amarla quando lei uccide per gelosia una bella compagna di scuola. Abbandona casa e lavoro per starle vicino quando è richiusa nel manicomio criminale di Reggio Emilia dal quale esce nel 1945. È il film più “russo” di Avati, regista/produttore di lungo corso: in 40 anni 36 regie di cui 31 per il cinema. Oltre ad amare la natia Bologna, Avati ama i suoi personaggi: buoni, cattivi, ambigui, spesso impotenti e perdenti. E sa dirigere gli interpreti anche quando li usa in modo insolito o li recupera (dal passato come fa qui con la Grandi o dalla TV come Greggio). Mette in luce una giovane attrice emergente (la fiorentina Rohrwacher che ha vinto 1 David di Donatello) in un personaggio non facile che passa dai 17 ai 24 anni e impegna il veterano Orlando in un ruolo che è complesso più che ambiguo, visto che risulta negativo come padre, proprio nella misura in cui stravede per la figlia. È un personaggio estremo come, meglio di molti critici, ha capito la giuria internazionale di Venezia 2008 che l’ha premiato con la Coppa Volpi.
Un attore disoccupato accetta di occupare la casa di un collega durante la sua assenza. Dalla finestra osserva una splendida donna che, una notte, viene assassinata. Con l’aiuto di una pornostar cerca di risolvere il caso. Assai ben ambientato nel mondo californiano della pornografia, è un thriller pieno di suspense basato sugli ingredienti più tipici del bravo De Palma: claustrofobia, perversioni, terrore, deviazioni di personalità. “È un film sul cinema come trucco, inganno, falso, manipolazione” (C. Bisoni). Body double indica, in gergo, una particolare controfigura usata per girare le scene di nudo.
Vesna arriva in autobus a Trieste da un villaggio della Repubblica Ceca e non riparte. Per mantenersi si prostituisce finché a Rimini conosce un caposquadra muratore che, dopo essere stato suo cliente, le si avvicina come persona, amico, amante. Ma lei gli sfugge. Si può vendere il corpo, salvando l’anima? Mazzacurati prova a dirlo con attenzione, pudore, rispetto, senza la pretesa di penetrare nel mistero di un essere umano e di spiegarlo allo spettatore. Da una sceneggiatura che deve essere stata laboriosa (scritta dal regista, Rulli e Petragli, Umberto Contarello, Claudio Piersanti) è uscito un film sensibile, ma diseguale con molti vuoti d’aria che, cercando la corda della poesia lirica, diventa liricizzante. Vi fa macchia, comunque, il personaggio di Albanese.
John Knox è un killer a contratto con due dottorati di ricerca (letteratura inglese e Storia degli Stati Uniti) a cui è stata diagnosticata una forma di demenza chiamata ‘malattia di Creutzfeldt-Jakob che non si può curare e che gli sta facendo perdere rapidamente la memoria. Prende accordi per incassare gli ultimi soldi prima di ritirarsi dall’attività e decide di portare a termine un ultimo lavoro con il suo partner Thomas Muncie. Ma qualcosa va storto.
Modesto cassiere di un supermercato lui, ‘eccellente’ avvocato lei, Ernest e Angela cenano insieme quasi per caso. Lui vorrebbe rivederla, lei no. Ma il destino decide altrimenti. Fermati dalla polizia lungo una strada deserta di Cleveland, un controllo di routine degenera.
Benzinaro italiano attraversa l’Atlantico con rosee prospettive di ricchezza. Finirà come in Italia a una pompa di benzina del profondo Sud, dopo una lunga trasferta da New York alla California. Il simpatico tono parodistico-caricaturale che impregna la prima parte si stempera a poco a poco in divagazioni patetico-descrittive. De Sica e Sordi in forma.
Lago di Como, un luogo che “se ci butti una cosa se la prende”. Un addetto alla raccolta dei rifiuti colleziona spazzatura perché “la spazzatura non mente”. Alla sera fa il giro dei locali notturni, nascosto dietro un parrucchino e un paio di baffi finti, e adesca prostitute, tutte bionde e tutte over 60. Una voce maschile da dietro una porta verde gli dice quello che deve fare: compreso punirsi ogni volta che ha sbagliato. Una madre cerca di proteggere le donne del luogo dalla violenza maschile e ogni tanto rivede l’ex marito, un insegnante che vorrebbe che lei lasciasse la loro ex casa coniugale. Una tredicenne con un ciuffo viola ha un rapporto conflittuale con “un padre d’acciaio e una madre distratta”, e rischia di cadere nelle maglie insidiose della Rete. Questi personaggi finiranno per portare a compimento un complicato disegno del destino, che parte dall’assunto che “il Male è un cerchio”.
Un regista di Taiwan sta per girare la storia di Salomè all’interno del Museo del Louvre. Non conosce le lingue ma vuole assolutamente che il ruolo di Erode venga assunto dall’attore Jean-Pierre Léaud. Perché il film possa trovare una distribuzione la produzione affida il ruolo di Salomè a una nota top model. I problemi però aumentano quando la madre del regista muore. La produttrice deve volare a Taipei per i funerali mentre il regista cade in un sonno profondo in cui lo spirito materno sembra non voler abbandonare l’appartamento in cui la donna ha vissuto. Alla produttrice non resta che attendere che il film riparta mentre i protagonisti si aggirano nei sotterranei del Museo.
Quattro apologhi sulla degradazione del matrimonio: “Prime nozze”, “Il dovere coniugale”, “Igiene coniugale”, “La famiglia felice”. Si parte da uno scherzo per arrivare a una beffarda anticipazione avveniristica. Quasi un compendio del primo Ferreri, sceneggiato con Diego Fabbri e Rafael Azcona, intento a descrivere con feroce precisione le aberrazioni causate dall’uso rituale e strumentale di un istituto, come il matrimonio, di cui non si sanno più perseguire i fini. Ridotto alla durata attuale dalla censura che impose 8 minuti di tagli.
Uno scapolo impenitente affitta per le scappatelle di tre amici sposati un appartamento nel quale s’installa una bella sociologa che si fa passare per donnina di facili costumi e, tenendoli a bada, li studia. Commedia che vorrebbe essere pepata e cerca in affanno di diventare maliziosa senza riuscirci per colpa di un’inerte e prolissa sceneggiatura contro la quale gli interpreti lottano invano.
Dopo il successo e l’Oscar di Mediterraneo Salvatores dirige un film surreale, disimpegnato ma non troppo. Più vicino a Turné, il suo film più riuscito, Puerto Escondido parte da un omicidio. La trama gialla è comunque solo un pretesto. Lo stile rimanda un po’ al cinema di Aki Kaurismaki. Il protagonista conduce una vita da perfetto integrato nella società, conformista e apparentemente pieno di certezze. Deve però fuggire in Messico per colpa della morbosa amicizia di un poliziotto che ha commesso due delitti davanti a lui. Dopo aver conosciuto due disperati che si barcamenano tra combattimenti di galli e spaccio di droghe leggere trova una dimensione diversa rispetto alla sua esistenza precedente. Per un cambiamento reale però dovrà compiere un atto estremo, da fuorilegge, e assumerne la responsabilità. Il viaggio e la fuga nel cinema di Salvatores sono al capolinea. Buona prova di Abatantuono, un ruolo molto maschile per la Golino e uno azzeccato per Bisio. A coronare il tutto l’indiscutibile bravura di Antonio Catania e le musiche di Mauro Pagani.
Laura è una fotografa professionista e ha poteri straordinari che le permettono di assistere anche da lontano ad alcuni delitti. “Vede” dunque uccidere molte persone (una scrittrice e tre bellissime modelle). Si offre allora di aiutare la polizia.
Con interpreti non professionisti. Film a due diritti con due autori in contrasto, girato a Ladispoli e nella campagna romana circostante nell’estate ’42 in una situazione produttiva precaria, salvata dall’ENIC. Da una parte Asvero Gravelli, noto scrittore e giornalista fascista, che ne scrisse il soggetto e figura come supervisore: doveva esaltare in chiave anticomunista l’ARMIR (Armata italiana in Russia) e la morte eroica del cappellano militare Reginaldo Giuliani. La vicenda si concentra su un casolare dove si rifugiano un cappellano e un commissario politico sovietico, donne, bambini, contadini russi, mentre infuria una battaglia. “Religione e politica, patriottismo e retorica si mescolano” (G. Rondolino). Dall’altra parte c’è Rossellini che “si rivela nelle piccole cose… nei momenti di quiete, di attesa”, probabilmente improvvisando senza badare alla sceneggiatura. Distribuito soltanto nel giugno 1943. Accoglienza tiepida. Ritirato dopo il 25 luglio.
Un’organizzazione segreta, specializzata in assassinii politici, si occupa di un caso che la CIA vorrebbe tenere nascosto. Il suo killer n. 1, che sta scoprendo troppo, viene reso invalido dal suo compagno e decide di vendicarsi. Si fa aiutare da un maestro in arti marziali. È uno dei film di Peckinpah dove è percettibile la linea di divisione tra l’autore e il regista esecutore: l’autore emerge nella 1ª parte che ha grinta, ritmo, estro; nella 2ª l’esecutore si adagia nelle convenzioni e negli stereotipi del genere. Ma la sequenza finale tra una flotta di navi in disuso non si dimentica.
In seguito a un incidente occorso al più noto cognato, Yann Kermadec prende parte alla Vandée Globe, regata in solitaria e senza assistenza intorno al globo terrestre, dalla Vandea francese verso il Capo di Buona Speranza, poi attraverso il Pacifico sfiorando l’Antartide per rientrare nell’Atlantico superando Capo Horn e poi risalire verso casa. Durante la sosta alle Canarie, un ragazzino in fuga dalla Mauritania sale a bordo clandestino sperando di giungere in Francia e non sapendo su che barca è salito. Solo dopo molte ore, Yann lo scopre e liberarsi di lui gli costerebbe l’espulsione. Non è solo la storia di un viaggio – splendide riprese in mare, con la velocità e la lentezza della barca, il vento, le onde, i tramonti -, non è solo la storia di una gara – la competizione tra personaggi ben resi senza inutili digressioni sentimental-familiari -, è anche la storia di una scelta, di un’umanità diversa, di un’etica che va al di là di una vittoria, perché davvero “ci sono molti modi per vincere”. Lucky Red distribuisce.
Un misterioso amuleto finisce tra le mani di un ragazzino che, preso da smania erotica, assale un gran numero di fanciulle. Dopo numerosi, grotteschi episodi arriva finalmente uno stregone, che inghiotte l’amuleto e finisce agli inferi.
Marco è un avvocato barese compagno della sudamericana Martina e padre di un bambino di sette anni, Mateo. Il rapporto di Marco con il figlio è improntato al gioco e alla tenerezza, quello con la compagna invece è fatto di silenzi, rancori e incomprensioni, ma l’uomo a malapena se ne accorge, fagocitato dalla sua professione e dalle incombenze quotidiane. Martina invece è alla frutta e la sofferenza le si legge in faccia: il suo unico desiderio è tornare nel suo Paese natale, portando con sé il piccolo Mateo. Quando Martina annuncia le sue intenzioni a Marco lui commette l’errore fatale (tanto comune nelle unioni infelici) di non prenderla sul serio, quando invece la disperazione (e la mancanza di un vero ascolto) rendono la donna assolutamente determinata a portare a termine il suo programma. Così Mateo si ritrova a 15mila chilometri dal padre, e Marco rimane a Bari da solo.
Chirurgo senza scrupoli raccoglie ragazza in fin di vita per un incidente in moto e le pratica un innesto cutaneo di nuovo tipo. Nell’ascella della ragazza si forma un pungiglione in forma di pene con cui perfora i disgraziati che incontra, succhiandogli il sangue e trasformandoli in vampiri. Il contagio si diffonde per tutta Montréal. Al suo 2° lungometraggio D. Cronenberg aggiorna e declina al femminile il tema del vampirismo, facendone un atto di accusa contro i soprusi della scienza che pretende di ricreare artificialmente l’uomo. Anche a livello stilistico il film “assomiglia a un melodramma più che a un horror tradizionale” (G. Canova). È diventato un film di culto anche per la presenza della pornostar canadese M. Chambers, imposta al regista dal produttore Ivan Reitman, non ancora passato a Hollywood.
Tira e molla di sentimenti a Napoli tra Cecilia, libraia, e Tommaso, proprietario di un ristorante. Intorno a loro, altri personaggi in crisi. È il più ambizioso ma anche il meno riuscito dei film di M. Troisi che dà il meglio di sé nei lunghi monologhi. Brava e bella F. Neri, tutti bravi i comprimari cui, caso raro, Troisi concede il giusto spazio. Film d’amore, sull’amore, intorno e dentro l’amore, ha avuto i suoi sostenitori: “Piccolo piccolo e anarchico… uniforme e imprendibile, fluidissimo e singhiozzante, febbricitante e dolcissimo” (Gariazzo & Chiacchiari).
Venezia, 1763. Lorenzo Da Ponte è un ebreo convertito, battezzato a dieci anni perché il padre potesse passare a nuove nozze con una cristiana. Assunto il cognome del vescovo che gli impartì il sacramento, ordinato sacerdote ma cresciuto a immagine e somiglianza di Giacomo Casanova, Lorenzo compone versi contro la Chiesa, dissipa i denari al gioco e i sentimenti nell’adulterio. Denunciato da un tipografo viene giudicato dall’Inquisizione veneziana e condannato a quindici anni di esilio. Casanova, persuaso del talento letterario e amatorio del suo protetto, lo raccomanda a Vienna ad Antonio Salieri. Nella città della musica, Lorenzo incontrerà Mozart, inesauribile compositore, provato dalla malattia e dai debiti. Diviso tra la passione di un insidioso soprano e l’amore di una giovinetta virtuosa, Lorenzo scriverà il libretto del Don Giovanni, sposando le note di Mozart e precipitando all’inferno il suo passato libertino.
La figura di Don Giovanni nel cinema è davvero considerevole. Fedelmente o liberamente interpretato, il suo mito è stato spesso ridimensionato, parodiato o trasformato in inerte materia avventurosa da una straordinaria messe di titoli. Considerevole eccezione è stato (ieri) l’impassibile e glaciale Don Giovanni diretto da Joseph Losey e interpretato da Ruggero Raimondi, apprezzabile è (oggi) la traduzione cinematografica del libertino di Carlos Saura, già autore nel 1983 dell’adattamento per lo schermo dell’opera di Bizet (Carmen Story). Consumatore di giovinezza e di bellezza, il dissoluto licenzioso ringiovanisce ad ogni convivio d’amore e ritrova levatura e gigantismo nelle immagini di Carlos Saura e nella luce di Vittorio Storaro. Il punto di vista del regista spagnolo è quello di Lorenzo Da Ponte, poeta e librettista che si inserì nell’illustre schiera di letterati attratti dalla storia esemplare di Don Giovanni. Sovrapponendo il mito del seduttore con tre figure storiche, Da Ponte, Mozart e Casanova, Saura intreccia e converge il personaggio con la persona, l’azione fantastica con la cronaca di quell’azione. Lorenzo Da Ponte, emulo e amico di Casanova, e più modestamente lo stesso Mozart, conoscevano bene le raffinate strategie dei sensi, e da uomini del loro tempo sentivano e sapevano che i giochi stavano per finire e che l’impavido farfallone amoroso avrebbe suo malgrado ceduto il passo al “convenuto di pietra”, ai Commendatori accasati e padri di famiglia. L’autore è preciso e istruito nel cogliere attraverso i suoi personaggi il crepuscolo del Settecento e le derivanti evoluzioni morali. La classe sociale e l’anarchico modello di vita di Don Giovanni, come pure di Da Ponte e Casanova, erano destinate a soccombere sotto l’onda rivoluzionaria della morale borghese. Se Don Giovanni canterà nell’opera il gran rifiuto di rinnegare le proprie gesta persino alle soglie dell’inferno, Da Ponte, meno eroicamente e meno ostinatamente, si accompagnerà con una consorte fino a New York, dove si spegnerà quasi novantenne. Io, Don Giovanni solleva ancora una volta la questione dell’opera lirica sullo schermo e risponde con un film impegnato parimenti sugli aspetti musicali e su quelli cinematografici. L’impatto e l’espressività del canto trovano un adeguato corrispettivo nella recitazione e nella fisicità degli attori cinematografici. Replicando la doppia natura, comica e tragica, del soggetto di Da Ponte, Saura differenzia lo spazio teatrale da quello cinematografico, disponendo dietro al primo piano il palcoscenico su cui dipanare l’intreccio ed esibire l’empio materialismo del mito erotico settecentesco. La costruzione dello spazio scenico poi permette di rinvenire le specificità del mezzo: ogni “voce” vive in scena e in schermo mantenendo la propria squisita individualità. Contrappunto inedito che prova a conciliare immagine, musica e parola.
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