Nel recarsi a un’udienza papale in Vaticano quattordici cattolici di ambo i sessi, religiosi e laici, rimangono chiusi in un ascensore in un tragitto all’infinito verso l’alto dei cieli.
Dopo 30 minuti di garbo pungente in cadenze leggere, frana nella virulenza polemica e rivela nel suo autore una distorta conoscenza del cattolicesimo in generale e dei cattolici italiani in particolare. Come Petri in Todo modo e altri intellettuali della sinistra italiana alle prese con questi temi, Agosti appare in preda al complesso del toro: carica a testa bassa e sbaglia il bersaglio. Prodotto con formula cooperativistica.
L’8° lungometraggio del milanese Soldini – e il 4° prodotto da Lumière & Co. di Lionello Cerri – ha molti meriti e un problema. È la storia di un adulterio passionale tra Anna, impiegata, e Domenico, cuoco. La relazione si regge su un equilibrio precario. Lui ha moglie e 2 figli piccoli; lei vive col compagno, col mutuo da pagare, è più libera. A un titolo preso da Lucio Battisti si oppone, nel finale, “Que sera sera”. Scritto con Doriana Leondeff e il giovane Angelo Carbone, conferma il coerente talento di Soldini: ritmo narrativo sciolto, attenzione ai particolari, cinepresa addosso agli attori, disegno preciso dei personaggi secondari. C’è anche una Milano come raramente si vede al cinema. Musiche rockeggianti e originali di Giovanni Venosta. E il problema? È il tema dell’adulterio: limitato se non banale. Per esporlo “in modo naturale”, senza ipocrisie si ricorre a 2 scene di sesso in cerca dell’immedesimazione più che dell’erotismo (assente).
Un film di Arthur Hill. Con James Coburn, James Garner, Julie Andrews, Liz Fraser Titolo originale The Americanization of Emily. Commedia, b/n durata 117′ min. – USA 1964. MYMONETRO Tempo di guerra, tempo d’amore valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Alla vigilia dello sbarco in Normandia una vedova inglese di guerra s’innamora di un ufficiale americano imboscato e fannullone che non esita a far l’elogio della codardia in guerra, ma che sarà scelto come uno dei primi da sbarcare a Omaha Beach dove, per sbaglio, viene dato morto da eroe. Basato su un romanzo di William Bradford Huie e sceneggiato con molto sale nei dialoghi da Paddy Chayevsky, è uno dei più divertenti film antimilitaristi usciti da Hollywood. Bella fotografia di Philip Lathrop.
1973. 2 eccentrici ricercatori del Progetto Monarch vogliono organizzare una spedizione su un’isoletta sperduta nel Pacifico e immersa nelle nuvole per scoprire le cause delle misteriose sparizioni di navi e aerei. Finanziati dal governo USA – che li fa accompagnare da truppe che stavano in Vietnam – partono con un colonnello in stress post-traumatico, un fascinoso avventuriero a far da guida e una impavida reporter. Scoprono subito che l’isola, oltre che da vari mostri di dimensioni spropositate, è abitata e dominata da un gigantesco gorilla che reagisce male a bombe, gas letali, mitragliatrici, napalm e compagnia bella. Versione ricca (oltre 200 milioni di dollari) e umoristica (sceneggiatura di Dan Gilroy) dei film giapponesi sui grandi mostri degli anni d’oro, con aggiunta di militarismo da barzelletta, qualche citazione, effetti di ogni genere, habitat affascinante, personaggi tagliati con l’accetta. Distribuisce con successo Warner Bros Italia.
Da qualche parte nell’Inghilterra vittoriana c’è un muro di mattoni che separa il villaggio reale di Wall da Stormhold, una città fantastica governata da un re malvagio e abitata da streghe e creature magiche. Al di qua del muro vive Tristan, un giovane garzone che sogna l’avventura e il grande amore. Figlio di una principessa del regno di Stormhold e di un inglese, il ragazzo decide di attraversare il muro per donare una stella alla ritrosa Victoria. La stella, Yvaine, è una fanciulla luminosa precipitata dal cielo alla morte del sovrano. Il suo cuore immacolato è bramato da Lamia, una strega crudele che vorrebbe strapparlo e divorarlo per riconquistare la giovinezza. Sul petto di Yvaine batte il rubino che permetterebbe ai sette principi, rivali e litigiosi, di regnare su Stormhold. Braccata dai desideri dei malvagi, spetterà a Tristan proteggere lo splendore di Yvaine. Tratto dal romanzo illustrato di Neil Gaiman e Charles Vess, pubblicato per la prima volta nel 1998, “Stardust” è la favola che tutti vorrebbero leggere e, adesso, vedere. La versione cinematografica di Matthew Vaughn non delude le attese del pubblico grazie alla perfezione delle immagini, alla tecnologia sbalorditiva impiegata per gli effetti speciali e all’efficacia della recitazione. Il regista inglese crea sullo schermo un mondo fantastico dove si ragiona in termini supremi: la lotta tra il Bene e il Male, il senso insaziabile dell’uomo per la ricerca di una stella, dell’amore vero, della casa e del destino ultimo. Come ogni eroe, Tristan varcherà la soglia, il muro di Wall, e affronterà l’ignoto e l’incanto dell’avventura: volare con un pirata frivolo che imprigiona i fulmini o scontrarsi con una strega nomade che trasforma una principessa in un fringuello. Un soggetto da rito di passaggio su come un “garzone” riesca a riconciliarsi con le umiliazioni subite e a scoprire le proprie incredibili possibilità. La “polvere cosmica” di Vaughn ha dalla sua (anche) la qualità superiore di tutte le interpretazioni, con punte massime nell’autenticità degli “adolescenti”, Claire Danes e Charlie Cox, pieni di stupore e di angoscia nello stare al gioco di se stessi. Si aggiungono i numeri accattivanti di Michelle Pfeiffer, strega radiosa che Vaughn magnifica in straordinari primi piani, e Robert De Niro, filibustiere vezzoso col vizio del travestitismo.
Verso la fine del secolo scorso la proprietaria di un night-club di Parigi è incriminata per attentato alla pubblica decenza a causa di un nuovo e audace ballo, il can-can. Tolta la celebre “I love Paris”, questo musical di Cole Porter non splendeva nemmeno a teatro. L’adattamento l’ha reso più fiacco. Buone le coreografie di Hermes Pan, attori simpatici. Piacevole ma tiepido. Scandalizzò Krusciov in visita negli USA.
La mummia, l’uomo lupo, il mostro della laguna nera e Frankenstein tornano nella propria città in cerca di un amuleto vitale per loro. Li fronteggiano ragazzini svegli e appassionati di horror. Riuscendo a regredire all’età mentale di 12 anni, ci si diverte.
Nella Swinging London degli anni ’60, i gemelli Reggie e Ronnie Kray sono a capo di un impero costruito con droga, gioco d’azzardo, omicidi, rapimenti e ricatti. Dall’East End la loro organizzazione criminale si ramifica fino alle stanze della politica, alle alleanze con il jet set londinese (Ronnie e Reggie erano così famosi da essere fotografati perfino da David Bailey), agli affari con la mafia americana. La storia dei leggendari gangster – nel libro The Profession of Violence (2015) di John Pearson – è raccontata fuori campo da Frances Shea, infelice moglie di Reggie e unico elemento di disturbo nel rapporto tra lui e Ronnie, omosessuale dichiarato, con schizofrenia diagnosticata, capace di esplodere in una violenza brutale. A dare un senso al film è l’ottima, sfaccettata, doppia performance di Hardy nel ruolo dei gemelli. Il regista, premio Oscar per la sceneggiatura di L.A. Confidential , dirige un bio-pic troppo patinato. La sceneggiatura – scritta dal regista con Pearson – calibra bene la 1ª parte, tra gangster movie e commedia, mentre la 2ª perde mordente, dando troppo spazio alla storia d’amore tra Reggie e la moglie.
Uscito dal carcere, uccide l’uomo che l’aveva tradito, perdona la sua donna che s’è sposata a un boss della malavita, è ricattato, reagisce. Sulla scia del cinema americano di azione violenta S. Sòllima non va al di là di un robusto mestiere, ma il sapore del surrogato è inconfondibile.
Noto attore di cinema, Luca Florio è colto da un grave malore. Ricoverato, riceve le visite di parenti, amici, colleghi e si rende conto che quell’ambiente non gli basta più. Sente il bisogno di ricongiungersi con la terra d’origine e la sua cultura del Sud. Un Rubini 8½ ? 7½, semmai, e con una marcata connotazione teatrale. La malattia come occasione di autoanalisi e di bilancio, ma anche di una possibile svolta. Rimane da stabilire non quanto sia autobiografico, ma se la sua sia un’autocritica personale o abbia anche un significato collettivo. Il fatto che S. Rubini si sia sdoppiato in F. Bentivoglio, suo evidente alter ego, riservando a sé stesso la parte dell’amico medico, farebbe propendere alla seconda ipotesi. Come il solito, comunque, tutti recitano con garbo intelligente. Scritto con Domenico Starnone e Carla Cavalluzzi, è probabilmente il suo film più maturo, sicuramente il più sincero. Nastro d’argento a G. Mezzogiorno non protagonista.
Dolorosa istoria della dodicenne sicula Rosa, figlia di un maniscalco alcolista: violentata da un gerarca fascista, finisce in riformatorio; maggiorenne, ritrova la madre fedifraga, la “vipera” del titolo, e forse il figlio che le fu tolto di forza e che fa il cantastorie. Il più anomalo e marginale dei cineasti italiani ha fatto il suo film più freak e meno consolatorio con 2 novità: l’ambientazione siciliana ai tempi di un’Italia ormai dimenticata, ma storicamente connotata e asse portante della nerissima favola, la maternità. La 1ª parte – la migliore – coincide con un soggetto ( La pietà di una cosa ) pubblicato nel 1989; nella 2ª si ha “l’impressione di assistere a un discorso privato, che segue una logica sua, lasciando in campo solo simboli che faticano a comunicare” (A. Pezzotta). Nemmeno l’esperta mano del cosceneggiatore V. Cerami v’ha posto rimedio. Melli, la “vipera”, è anche produttrice.
Prima di entrare nell’Aldilà, i morti stanno in un limbo dal quale si dipartono solo quando, tra i vivi, non c’è più nessuno che li ricordi. Scritta con David Grieco e Vincenzo Cerami, è una collana di storie cui fa da mastice il trucido, affabile, cinico custode del cimitero Gassman che fa il verso a un samurai povero. La Melato in una doppia parte briosa ed energica.
In un ristorante dove si incontrano per decidere le vacanze dei figli, i separati Gaetano e Delia ricostruiscono in flashback la loro storia. Si parte da quando lei, giovanissima e afflitta da problemi con il cibo, lui assetato di affermazione, s’incontrano e nasce una grande passione. Matrimonio, figli e, dopo una prima fase di affievolirsi dei rispettivi disturbi, l’esplosione di tutto in un inesorabile peggioramento individuale e di coppia. Che cosa è rimasto? Rancore, rabbia più o meno repressa, insofferenza: lei rigida, aggressivamente sulla difensiva; lui più accomodante, ma incapace di autocritica. Sarà la loro ultima cena o c’è la possibilità di ricominciare? Castellitto dirige, sua moglie Margaret Mazzantini adatta il proprio romanzo in questo melodramma molto gridato, ricco di luoghi comuni anche se veritieri, povero di approfondimento psicologico ma capace di portare lo spettatore a identificarsi ora nell’uno ora nell’altra, nessuno simpatico, nessuno dalla parte della ragione. Il meglio? Roberto Vecchioni nei panni del saggio vicino di tavolo.
Yusuf è un bambino solitario che vive con i genitori in una zona isolata di un bosco di montagna. Il padre alleva api e il bambino prova una grande ammirazion e per lui con il quale condivide segreti. Yusuf, che a casa sa leggere correntemente, a scuola si blocca e non riesce ad ottenere la targhetta rossa che il maestro dà in premio a chi legge bene. Il diminuire della presenza delle appi costringe i genitore a cercare di porre le arnie in luoghi più lontani e ad altezze più elevate. Un giorno l’uomo non farà ritorno e mentre la moglie si metterà alla sua ricerca il bambino si sentirà spinto a sperare in una sua prossima riapparizione da una lettura sacra. Il cinema di Semih Kaplanoglu non appartiene alla categoria di quelli destinati ad attarre il grande pubblico. Il regista turco procede, sostenuto dal consenso ottenuto in importanti festival internazionali, nel suo percorso autoriale con il terzo capitolo della storia del suo protagonista Yusuf. Dopo averlo presentato nel suo periodo di studi universitari in Milk e seguito in quello dell’età adulta in Egg ora il regista ce ne presenta l’infanzia. Il miele del titolo è quello delle api che costituiscono l’elemento che consente la vita della famiglia ma diverranno anche l’occasione della sua disgrazia. Il film procede con grande lentezza facendoci percepire il tempo dilatato che avvolge la vita del bambino modificato solo dalla vita scolastica alla quale però partecipa con fatica e dolore senza inserirsi nei giochi dei compagni. Va quindi rispettato il lavoro di ricerca che il regista compie su aspetti di vita appartati della realtà sociale turca. Resta però il dubbio di un eccesso di compiacimento nei confronti di un estetismo che in più di un’inquadratura prolungata finisce con il risultare fine a se stesso indebolendo così la tenuta complessiva di un film che ha nella straordinaria bravura del piccolo protagonista un elemento di indubbia forza.
Jesse Hellman è un appassionato di musica metal e anche nella sua professione di pittore si definisce metal. La figlia adolescente Zooey lo segue totalmente nei gusti metal, mentre la moglie Astrid è più tranquilla, ma tollera di buon grado i gusti un po’ estremi dei familiari. Jesse conduce la sua famigliola nella nuova casa che intende comperare in Texas: una grande casa dei primi del ‘900, solitaria. L’agente immobiliare precisa che la legge gli impone di rivelare che ci sono state due morti in quella casa: un’anziana signora morta accidentalmente e suo marito che non ha potuto vivere senza di lei. Astrid è un po’ perplessa per questi decessi, ma la casa è bella e il prezzo è basso, per cui l’affare viene concluso. Astrid è preoccupata anche per la loro precaria situazione economica, ma Jesse le spiega che farà delle concessioni al suo spirito artistico per essere più convenzionale e vendibile: per cominciare sta realizzando un grande quadro per una banca, con tante leggiadre farfalle. Intanto, Ray, uno strano omone, suona la chitarra elettrica a volume altissimo nella stanza di un motel, tanto da richiedere l’intervento dello sceriffo a causa del rumore molesto. Le strane voci cantilenanti che si sentono in sottofondo mentre Ray parla con lo sceriffo sono le stesse che Jesse sente quando torna a casa dopo aver accompagnato Zooey a scuola. Sotto l’influenza di quei suoni, Jesse lascia perdere le farfalle della banca e dipinge invece una croce rovesciata. Poi Ray suona all’improvviso alla porta di casa Hellman dicendo d’aver bisogno di tornare a casa: quella casa, la casa di mamma e papà. Infatti, Ray viveva lì e le persone morte citate dall’agente immobiliare sono i suoi genitori. Jesse costringe Ray ad andarsene, ma le cose invece di semplificarsi si complicano parecchio.
Londra non è solo pioggia e toni cupi ma ha anche un lato solare e colorato, quello rappresentato alla perfezione da Pauline, una giovane maestra elementare che solo a guardarla mette allegria. Poppy, così la chiamano tutti, è uno spirito libero, ama i vestiti kitsch e vive con l’amica del cuore, anche lei insegnante, in un piccolo delizioso appartamento nel nord della città.Passa le sue giornate preoccupandosi più del presente che del futuro e tra lezioni a scuola, lezioni di guida e lezioni di flamenco, Poppy ha raggiunto il perfetto equilibrio con se stessa e con gli altri. Non vive nelle fiabe ma tiene i piedi saldamente per terra senza mai perdere di vista la realtà, affrontando la vita quotidiana con un pizzico di ottimismo, con autoironia e spontaneità. Si sa, cuor leggero, Dio l’aiuta.
Reduce da numerosi lutti e da un periodo di depressione, con tanto di ingrassamento, Thor, il figlio di Odino, ha ritrovato la forma e ha cercato la serenità nello spazio, insieme ai Guardiani della Galassia. Così viene a sapere che Gorr il macellatore degli dèi sta scatenando il panico su diversi mondi, uno dei quali è difeso dalla compagna asgardiana Sif. Thor lascia i Guardiani e, insieme a Korg e a due capre giganti avute in dono da una razza aliena, corre in soccorso di Sif
Rokas e la sua ragazza Inga viaggiano dalla Lituania all’Ucraina per portare viveri ai militari ucraini al fronte. Lungo il tragitto si fermano a un party organizzato dall’amico Andrei in Polonia e in altri luoghi sperduti degli stati ex sovietici. Dopo aver creato un profilo autoriale basato sui suoi lunghi e suggestivi silenzi (Lontano da Dio e dagli uomini), il lituano Sharunas Bartas ha gradualmente mescolato le carte, risultando meno prevedibile nel suo stile, ma più indeterminato. Frost vive di questa inquietudine tendente alla dispersione, sospeso tra l’urgenza di cogliere l’attimo in cui la storia si sta scrivendo e il racconto di due vite esemplari dello smarrimento che attraversa un popolo. Al centro c’è ancora la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il girovagare senza un fine di chi ne è rimasto orfano, uccidendo il padre ma non sapendo come sostituirlo. Lituania e Ucraina sono accomunate da questo legame invisibile, che Rokas e Inga, con il loro viaggio, intendono approfondire.
Genia è un delinquente di origine lituana che dai porti della Francia fa da corriere della droga per la mafia russa. Rimasto senza denaro, decide di recarsi a Mosca per recuperare dei soldi dai suoi boss e di lasciare a Parigi la fidanzata Gabrielle, che nel frattempo per bisogno di denaro si concede a un altro uomo conosciuto in un club. Giusto a est, Genia riprende contatto con una vecchia fiamma, la prostituta Sasha e, dopo aver ucciso uno dei boss mafiosi per sottrargli il denaro, intraprende con lei una fuga precipitosa per fare rientro in Francia.
Affidato alle cure di una zia dottoressa, rampollo degenere di una famiglia di industriali veneti la coinvolge nella propria nevrosi. Più che al sesso punta alla morte. La propria. Esordio del padovano Samperi sulla scia di Pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio, in linea con Escalation di Roberto Faenza uscito nello stesso anno. “Incerto e poco efficace nella prima parte… prende quota nel procedere dei rapporti tra zia e nipote” (T. Kezich). Furbetto.
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