Il Mandingo è un nero che un ricco proprietario dell’Alabama compra con l’intento di farlo accoppiare. Sua moglie, che egli disprezza perché ha avuto altri uomini, per vendetta ci va a letto e ne rimane incinta.
Un film di Roy Boulting. Con Trevor Howard, Richard Widmark, Jane Greer Titolo originale Run for the Sun. Avventura, durata 99 min. – USA 1956. MYMONETRO La preda umana valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Una coppia di americani precipita con l’aereo nella giungla messicana. Se la cavano, ma finiscono prigionieri di tre sadici criminali di guerra nazisti che li obbligano a partecipare a una partita di caccia in cui loro due avranno funzione di preda. Dopo molti pericoli riusciranno a cavarsela.
Per rubare una preziosa scultura cinese ci si mettono in tre: un avventuriero, uno scultore e una donnina allegra. Sorpresa finale. Un meccanismo molto scorrevole sui toni comico-giallo-rosa. Una S. MacLaine eurasiatica non si era mai vista.
Da un romanzo di Ray Gaulden. Uno dei cinque bara a poker, gli altri lo impiccano. Pistolero, fratello dell’ucciso, lo vendica. È probabilmente il peggior western di Hathaway, nonostante Mitchum. Il meccanismo della suspense (chi è l’assassino?) non funziona. Musiche enfatiche di M. Jarre.
Ingiustamente prepensionato, colonnello recluta sette ex ufficiali e prepara con sistemi militari l’assalto a un furgone blindato. Uno spunto originale, raccontato con minuziosa precisione, ritmo alacre, efficace suspense, puntuto umorismo. La sceneggiatura è di B. Forbes, uno degli interpreti, tra i quali si nota anche il ventenne Oliver Reed come ballerino classico.
Diplomatico vedovo con figli piccoli assume Cinzia come governante. La vedovanza gli pesa, la governante è attraente. Sit-com al servizio della Loren giunta di fresco a Hollywood. Sdolcinata e prevedibile, ma dialogata con brio. Scritto dal regista con Jack Rose, anche produttore per Paramount.
A causa di esperimenti nucleari americani e russi ai due poli, la Terra esce dalla sua orbita e comincia ad avvicinarsi pericolosamente al sole. Urge un’attiva solidarietà tra tutte le nazioni con l’accordo tra politici e scienziati. In un quotidiano di Londra si preparano due titoli: “Il mondo è condannato” e “Il mondo è salvo”. Prolifico regista inglese, famoso per la serie del dr. Quatermass, Guest si è impegnato più del solito in questo film pacifista di SF, scritto con Wolf Mankowitz, girato in uno spiccio e nervoso stile semidocumentaristico, in bianconero con filtri e Dyaliscope. Effetti speciali poveri, ma personaggi schizzati con efficacia. Il vigile che dirige il traffico è Michael Caine.
Un nuovo virus tiene in scacco l’Europa. Decisamente peggiore dell’influenza aviaria e di tutte le altre pandemie che hanno allarmato le organizzazioni sanitarie mondiali, il morbo di Gerber è una malattia a metà tra un’influenza e l’Aids. Scoperto in Germania nel 2008 e ormai diffuso in tutto il mondo, si contrae entrando in contatto con sangue o saliva infetti e si manifesta con una febbre molto alta e aggressiva. Ma ben presto la sindrome di Gerber rende gli esseri umani simili a zombie. Il virus si sta diffondendo a macchia d’olio, perché gli infetti perdono il controllo e tendono a essere violenti, attaccando chiunque capiti loro a tiro. Una volta contagiati, non c’è scampo. Il terzo stadio della malattia conduce, infatti, alla morte. Ecco perché è stato istituito un centro sanitario dedicato, il CS, in cui i malati vengono messi in quarantena e allontanati definitivamente dalla società. Una troupe televisiva decide di realizzare un documentario su questo nuovo e temibile virus, seguendo il lavoro di Luigi, un ventitreenne addetto alla sicurezza, incaricato di intercettare gli infetti segnalati e portarli al CS, e quello di un medico in prima linea, il dottor Ricardi, che si sta occupando del difficile caso di Melissa, una ragazza contagiata accidentalmente. Non è certo nuova la trovata di delineare una vicenda di finzione come se si trattasse di un evento reale. Girato nel 1965, The war game di Peter Watkins ha fatto scuola, raccontando in stile documentaristico un attacco nucleare alla Gran Bretagna. Da quel momento i mockumentary, o falsi documentari, hanno preso piede nel cinema mondiale, soprattutto statunitense, ma con esempi anche in casa nostra, basti pensare a Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato. Nel tempo, questo genere così ibrido si è sempre più legato all’horror, come mostra il caso del film The Blair Witch Project o il rilancio recente del mockumentary a opera di Rec, che è servito da spunto a tutta una serie di saghe dell’orrore basate sull’espediente del found footage, come Paranormal Activity. Proprio a Rec si richiama da vicino The Gerber Syndrome: Il contagio, un esperimento a metà tra un falso documentario e uno zombie movie. Niente di innovativo, quindi, se non per il fatto che a cimentarsi con questo cinema di genere sia una produzione italiana low budget, che ha avuto l’intelligenza di sfruttare le ristrettezze produttive a proprio favore. Il risultato dell’esperimento è un film dalle fattezze artigianali, girato come se si trattasse del documentario di una troupe televisiva, a cui generalmente si perdonano ingenuità e difetti di stile, fotografia, regia e montaggio, per concentrarsi piuttosto sull’impatto del racconto della realtà in presa diretta. Il regista Maxi Dejoie, al suo esordio nel lungometraggio, gioca con questi limiti, seppur vistosi e a tratti grossolani, e si assicura così la presa e il coinvolgimento emotivo dello spettatore, che non può fare a meno di chiedersi cosa accadrebbe se il morbo di Gerber fosse reale e colpisse le persone a noi care, precipitando in un’autentica spirale di angoscia di fronte alla terribile vicenda di una famiglia come tante, nella cui vita ordinaria irrompe una malattia straordinaria, con tutta la serie di decisioni dolorose che questa comporta. Tanto più che il Dejoie sceneggiatore chiama in causa dilemmi etici di difficile risoluzione, come quelli legati alla necessità di limitare la libertà personale per tutelare la salute collettiva. Il regista ha gioco facile nel fare leva sulle paure più irrazionali che albergano nel nostro animo, anche grazie all’interpretazione naturale degli attori, che rendono credibili e verosimili situazioni che si spera di non vivere mai. Interessanti appaiono poi le reazioni di alcuni gruppi, che rispondono alla totale mancanza di controllo provocata dal virus con feroci tentativi di farsi giustizia da soli, lanciandosi in azioni di “pulizia” che rendono sempre più labili i confini tra l’essere umano e la bestia.
Interessante più di quanto ci si possa aspettare da una commedia hollywoodiana che ha ottenuto incassi record negli Stati Uniti. Per scappare dall’esistenza stressante cittadina, tre amici, dopo un’esperienza fallita in Spagna, decidono di andare nel West e vivere un’avventura diversa. Trasportano una mandria di vacche lungo un tragitto faticoso e al termine scopriranno con amarezza che le bestie sono destinate al mercato. “Povere vacche, e pensare che si fidavano di noi!”, è il commento di Billy Crystal, e non è l’unica citazione da Balla coi lupi. Viene altresì citato Fiume rosso di Howard Hawks e a noi italici ricorda Noi uomini duri di Ponzi. Crystal, ormai esperto della commedia, dopo i risultati di Harry ti presento Sally, lo ha interpretato e prodotto. Breve ma importantissima la partecipazione di Jack Palance, dal volto scolpito nella roccia, che gli è valsa un Oscar.
Una giovane attrice si innamora di un misterioso uomo che veste sempre di nero. Quando scopre che si tratta di un pericoloso delinquente, corre il rischio di rimetterci la pelle.
Un film di Dan O’Bannon. Con Clu Gulager, James Karen, Don Calfa, Thom Mathews, Beverly Randolph, Linnea Quigley. Titolo originale The Return of the Living Dead.Horror, durata 85 min. – USA 1985. – VM 18 – MYMONETRO Il ritorno dei morti viventi valutazione media: 2,75 su 12 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
La Uneeda Medical Supply di Louisville conserva, per conto dell’esercito, in un magazzino top secret, misteriosi cadaveri emeticamente chiusi in speciali contenitori. Frank, il guardiano dello stabilimento, spiega al nuovo inserviente Freddie che si tratta dei corpi che anni prima ripresero temporaneamente vita a causa della terribile “diossina 204” fuoriuscita da un grosso centro industriale di Pittsburg, episodio dal quale – aggiunge – Romero trasse un celebre film… A conferma di quanto racconta, Freddie mostra al giovanotto uno dei contenitori e, per rassicurarlo che il corpo ivi racchiuso è ben protetto, vi picchia sopra: naturalmente, il contenitore si spacca e i due sono investiti da un soffio di gas che mentre li tramortisce fa risvegliare altri cadaveri. Tornati coscienti, e avvertito l’amministratore Wilson, Frank e Freddie fronteggiano uno degli zombi e, dopo averlo catturato, riescono a distruggerlo nel forno crematorio di Ernie, l’imbalsamatore tedesco che ha una ditta lì vicino. Il fuoco sembra l’unica arma per distruggere i mostri, ma le loro ceneri, passate per il camino e disperse nell’aria cadono, a causa di un improvviso acquazzone, sulle tombe di un piccolo cimitero resuscitando altri morti. Orde di zombi si riversano nei campi ed assediano il magazzino massacrando operai, infermieri e poliziotti. Wilson, dopo vari tentativi, riesce a mettersi in contatto con i comandi dell’esercito ma quando è convinto ormai di essere in salvo, una terribile esplosione si abbatte su Louisville: i militari per distruggere gli zombi hanno pensato bene di sganciare un’atomica sulla città. Fra gli innumerevoli film nati sulla scia della Notte dei morti viventi (qui esplicitamente citato in segno di ironica filiazione e, insieme, di divertito distacco), Il ritorno dei morti viventi è uno dei più originali e immeritatamente (in Italia) sottovalutati. Il regista O’Bannon – esperto sceneggiatore che ha all’attivo due capolavori come Dark Star ed Alien – sviluppa la macabra vicenda secondo il meccanismo di un gioco al massacro, avanzando, con l’arma della satira, serie perplessità sull’efficienza dei sistemi di sicurezza americani preposti alla salute pubblica e sulla rozza strategia del potere che mentre fronteggia i danni ne provoca altri maggiori.Il pretesto fantascientifico si riallaccia, qui, al filone catastrofico delle alterazioni ambientali, convenientemente tenute segrete al grosso pubblico, provocate da illeciti esperimenti militari o scientifici. Le situazioni orrorifiche si susseguono con buon ritmo senza smorzare lo spirito goliardico che pervade la storia. Tra una carneficina e l’altra O’Bannon trova anche il tempo di mostrarci lo spogliarello della splendida Linnea Quigley, nella parte di Trash, la ragazza punk che allieta i suoi compagni durante una “festicciola” al fatidico cimitero. Originariamente progettato in 3D per la regia di Tobe Hopper.
Jonathan Demme si confronta con John Frankenheimer nel remake di Và e uccidi (in originale The Manchurian Candidate) del 1962, per affrontare il tema caldo delle elezioni presidenziali. Il Capitano dell’esercito degli Stati Uniti Bennet Marco, viene salvato dal Sergente Raymond Shaw da un’imboscata durante la guerra del Golfo in cui perdono la vita due uomini. Shaw, eroe di guerra, prosegue la sua ascesa fino ad arrivare a candidarsi per la vicepresidenza degli Stati Uniti, ma nella mente di Marco, ci sono dei punti oscuri. Lentamente i dubbi affiorano e si delineano le certezze. Complotto? Costruito con un climax drammatico, come se fosse una bomba a orologeria, il film di Demme soffre per la lunghezza e per l’approfondimento dei dettagli della storia (presumibilmente per dare alla critica al sistema un valore reale). Denzel Washington nel ruolo che era di Sinatra, si muove bene e interpreta il dramma di un uomo che vede i valori in cui crede ciecamente disintegrarsi davanti agli occhi; Meryl Streep, madre del candidato, è perfida al punto giusto da risultare uno dei “da vedere” del film. Una citazione per il montaggio serrato della sequenza finale. Incessante, denso di tensione, un vero “countdown”. Il momento migliore di un solido e attuale film.
Una donna divorziata con due figli adolescenti si stabilisce nella casa del padre in un villaggio della California apparentemente tranquillo. In realtà è infestato da una banda di vampiri. Il figlio maggiore si innamora di una bella vampiretta (però suscettibile di normalizzazione), la madre addirittura del capo vampiro.
Un film di Richard Fleischer. Con Richard Attenborough, Judy Geeson, John Hurt Titolo originale 10 Rillington Place. Drammatico, durata 111′ min. – Gran Bretagna 1971. MYMONETRO L’assassino di Rillington Place N. 10 valutazione media: 2,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Da un libro di Ludovic Kennedy. La vera storia, che sconvolse Londra negli anni ’40, di John Reginald Christie, che avvicinava le donne, le uccideva e le seppelliva in giardino. Accurata ricostruzione dell’ambiente, intensa interpretazione, seppur teatraleggiante, di Attenborough, ma poco soddisfacente l’approfondimento psicologico.
Stregato da una bella zingara, il caporale José uccide due uomini per lei, diventa brigante, ma viene abbandonato per un torero. Allora uccide anche lei. Non è certamente uno dei film migliori ispirati all’immortale personaggio di Merimée, ma Rita tiene svegli. Bella fotografia, regia efficace.
Con baffi, barbetta, occhiali, travestito in varie guise, il poliziotto Da Silva (Stallone), insieme a un collega di colore, va a caccia di un pericoloso terrorista per i quartieri malfamati di New York. Prodotto di serie senza infamia e senza lode. Le sequenze di inseguimento, pur con qualche prolissità, hanno nerbo.
Un commando britannico, formato da ex detenuti, nell’Africa occidentale ha l’ordine di distruggere un deposito di carburante tedesco situato 400 miglia dietro le linee nemiche. “Quella sporca dozzina” su scala ridotta con qualche risvolto di umorismo inglese. Niente di nuovo, ma corretto, efficace con un’ambientazione convincente, un buon rimbombo di sparatorie.
Nel III secolo a.C. l’ateniese Dario è in vacanza a Rodi dove cresce il malcontento popolare contro re Serse, costruttore del famoso colosso. Aiutati da un traditore, i Fenici invadono la città, ma scoppia un terremoto. 1° film di S. Leone, indeciso se prendere sul serio la storia o puntare sull’ironia. Le briscole sono giocate nel 2° tempo: la grossa macchina del colosso e il terremoto conclusivo. Forte senso dello spettacolo.
Dal romanzo (1956 – 20 milioni di copie vendute in USA) di Grace Metalious, sceneggiato da John Michael Hayes per le Fox: in una cittadina del New England tra un picnic e l’altro si pecca accanitamente sotto la vernice della rispettabilità. Da un best seller librario a un longseller audiovisivo: fu seguito da Ritorno a Peyton Place (1961), da una serie TV (dal 1964 al 1969) e da 2 film TV (1977 e 1985). Già purgato dall’editore per alleggerirne la drammatica carica di denuncia sociale, il film evira il romanzo con un metodico conformismo censorio di inconfondibile ipocrisia hollywoodiana. I fatti (omicidio, suicidio, violenza carnale incestuosa, aborto ecc.) rimangono, ma le cause sono omesse, vanificando il margine critico dell’ipocrisia e della falsità borghese e puritana con cui l’aveva scritto l’autrice. Dura quasi 3 ore. Sprecate. Lo scandalo funzionò anche da noi. Ebbe 9 nomination (5 agli attori) e nemmeno 1 Oscar.
Con base a Roma, la CIA sta per compiere un attentato politico in un paese africano. Qualcuno si è intanto asserragliato in una terrazza dell’Hilton con l’ambasciatore USA e un fucile di precisione. Senza troppe pretese, un film italiano sulla CIA che tende più al thriller che al film-denuncia. Tratto da un Segretissimo Mondadori (Sulla pelle di lui, di Francis Clifford). Il migliore del gruppo è J. Steiner.
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