Provincia toscana, anni ’30. Giovanni (Stefano Accorsi), impiegato di banca e padre di famiglia, ritrova Maria (Maya Sansa), suo vecchio amore: tra i due rinasce la passione. Sull’esile traccia di un triste romanzo di Carlo Cassola (Una relazione, 1969), Carlo Mazzacurati tira fuori senza troppi sforzi un film altrettanto esile e triste. Se gia’ il romanzo appariva ai suoi tempi nostalgico e datato, il film arriva sicuramente fuori tempo massimo, con una forza comunicativa prossima allo zero. In teoria, si potrebbe fare grande cinema anche narrando piccole vicende, mettendo in scena personaggi poveri, rievocando ambienti lontani nel tempo. Tuttavia Mazzacurati adegua anche la sua regia al minimalismo della storia, si affida ai bei paesaggi tirrenici, spreca il talento di due tra i nostri migliori attori, che ci fissano dallo schermo con espressioni sorprendentemente piatte e intorpidite, quasi a disagio.
Prodotto dalla casa indipendente fondata dallo stesso regista Park Chul-Soo, Green Chair ha partecipato al Sundance ed al festival di Berlino per poi approdare al Far East di Udine, senza ancora aver trovato una distribuzione in Corea, colpevole un concorso di censura e presunta inadeguatezza alle richieste di mercato. Quest’opera pare ripercorrere la strada segnata da tanti titoli coreani snobbati o rifiutati in patria, primo su tutti Lies di Jang Sun-Woo, costretti a fare la giostra tra i festival internazionali prima di trovare finanziatori disposti a sfruttarne la fama così acquisita. Mun-Hee, trentenne divorziata, viene arrestata perché colpevole di aver fatto sesso con un minorenne, Hyun. Una volta uscita di prigione, la donna incontrerà nuovamente il ragazzo e i due passeranno diversi giorni in un albergo fuori mano. Colta da insicurezza Mun-Hee tenterà di troncare la relazione, ma la determinazione di Hyun decreterà un ulteriore sviluppo del rapporto.
Sang -hyun, un sacerdote devoto e rispettato, decide di sottoporsi volontario ad un esperimento che mira a trovare un vaccino per il nuovo e terribile Emmanuel virus, ma viene infettato dal virus stesso e muore. Una trasfusione di sangue di provenienza ignota, però, lo riporta in vita come vampiro. Si sparge la voce che faccia miracoli e i bisognosi accorrono al suo letto d’ospedale.
All’inizio degli anni Venti un soldato dell’Armata Rossa è ingiustamente accusato di aver fatto la spia ai rapinatori che hanno assaltato un treno carico d’oro. Il presunto traditore lascia i suoi, si aggrega ai banditi, recupera l’oro, scopre la vera spia. 1° film lungo del regista (anche interprete del capo dei banditi) che, tenendo d’occhio la lezione del western americano, straripa di trappole, svolte, ribaltamenti, romantica energia. I versi della ballata che apre il film sono di Natalija Kon&9 alovskaja, madre di Michalkov.
Vedova con tre figli sfollata in campagna ospita aviatore americano. Tra i due nasce un tenero idillio. Avati è un piccolo poeta della vacanza che si muove sulla Carta del Tenero. Contano le sfumature, le annotazioni apparentemente marginali, il pudore dei sentimenti, la sciolta leggerezza dei passaggi narrativi e descrittivi. Cinema anomalo che si sottrae ai modelli italiani, lontano dai canoni della commedia italiana. Esiste un’edizione TV di 180′.
Rinchiuso con i suoi Apaches Chiricahua nella riserva di Turkey Creek, a causa di numerosi soprusi, nel 1885 Geronimo (Studi) si ribella e riprende le armi. La guerra indiana ricomincia ai confini col Messico.
2° western di Hill, cineasta urbano, dopo I cavalieri dalle lunghe ombre. Circoscritto al biennio 1885-86, è la storia di una sconfitta che celebra il vinto e vitupera il vincitore. Non a caso si chiude con le dimissioni dall’esercito del narratore (Damon). Ma l’aspetto più interessante del film sul piano narrativo _ la sua dimensione critica e didattica _ finisce col coincidere con il suo limite. Scritto da John Milius e Larry Gross.
È la notte di Halloween e tre ragazzini incuriositi da una tetra casa al di là del viale, decidono di avventurarsi nella sinistra dimora alla ricerca dei mostri che la abitano.
Kyoto, anni ’70 e ’80. Figlia di uno scrittore calligrafo (Ogata), Nagiko (Wu), continua il piacere paterno della scrittura sul corpo. A diciotto anni è indotta a sposare il nipote (Mitsubishi) dell’editore (Oida) che pubblica gli scritti del padre in cambio di prestazioni sessuali. Ossessionata da I racconti del cuscino , scritti dalla cortigiana Sei Shonagon nel XI secolo, Nagiko lascia il marito e va a Hong Kong in cerca di amanti disposti a scrivere sul suo corpo. S’innamora, ricambiata, di un traduttore inglese (McGregor) che diventa a sua volta amante dell’editore del padre. Dopo il suo suicidio scopre di esserne incinta e innesca una spirale di mortale vendetta. “Greenaway continua imperterrito a utilizzare il corpo umano come strumento di metafora. Testo e sesso sono visti come analoghi dispensatori di piacere. Il corpo è visto come un libro e la letteratura come atto sessuale” (F. Liberti). Attraverso la cultura giapponese dove l’ideogramma è parola e arte visiva ritorna a Ejzenštejn che scoprì per primo il cinema come ideogramma con un film sperimentale, continuando il suo processo di distruzione delle regole narrative: schermo frantumato in immagini multiple, inquadrature che cambiano formato (fotografia di Sacha Vierny), colonna sonora che mescola canti tradizionali giapponesi con musica leggera occidentale. Intriga, affascina, ipnotizza, turba, respinge.
Un’americana sposata trascorre qualche settimana di vacanza a Roma. Qui si innamora di un professore e ne diventa l’amante. Un giorno, dopo una telefonata da casa, la donna decide di partire. A nulla valgono i tentativi dell’uomo per trattenerla: la paura dello scandalo è più forte di lei, benché giuri allo spasimante che lo amerà per sempre.
Un film di Roger Corman. Con Ray Milland, Hazel Court, Richard Ney Titolo originale The Premature Burial. Horror, durata 81′ min. – USA 1961. MYMONETRO Sepolto vivo valutazione media: 2,71 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Terrorizzato dall’idea di essere sepolto vivo si fa costruire una bara speciale. Quando gli succede davvero, ne esce e si vendica. 3° dei 5 film di Corman ispirati ai racconti di E.A. Poe, unico in cui R. Milland sostituisce Vincent Price. Scritto da Charles Beaumont e Ray Russel e, come gli altri, affidato a Floyd Vrosby (fotografia) e Daniel Haller (scene). Ha il torto di avere un’azione statica e, dunque, un’atmosfera gotica che talvolta sembra fine a sé stessa invece di essere un veicolo di suspense e paura. Come il solito, emerge qua e là una vena di umorismo ironico. Milland efficace nelle scene oniriche.
1940, a Sorman, oasi nel deserto libico dov’è accampato il 3° Reparto della 31ª Sezione Sanità, in un clima indolente di vacanza esotica anche se c’è qualcuno che si preoccupa di soccorrere la popolazione locale. Un’offensiva dell’esercito britannico rovescia drammticamente la situazione. Scritto dal regista con Alessandro Bencivenni e Domenico Saverni, dal diario di guerra II deserto della Libia (l95l) di Mario Tobino e dal racconto II soldato Sanna in Guerra d’Albania di Giancarlo Fusco. Fotografia: Saverio Guarna. Girato a budget ridotto tra maggio e giugno in Tunisia, il 65° film del novantunenne Monicelli (85° come sceneggiatore) è all’insegna della precarietà, interna ed esterna, narrativa e produttiva. È uno dei rari registi al mondo che sanno raccontare la morte, rispettandola, in cadenze di commedia e di rappresentare una tipologia di italiani in divisa e in guerra, brava gente stracciona, con un cinismo affettuoso, qui più che mai affettuoso, tirando fuori le unghie satiriche soltanto per la stupidità pomposa (il generale di T. Sanguineti) di chi li comanda. “Il film c’è, qua e là raffazzonato, esorbitante o insufficiente. Ma c’è.” (A. G. Mancino). E’ una guerra raccontata da una prospettiva “dal basso” ma, nel suo squallore, in modi realistici e veritieri. Come i suoi personaggi, i soliti militi ignoti.
Una banda di delinquenti a gestione familiare (quattro fratelli con a capo la madre) decide di chiudere la carriera in bellezza con un sequestro di persona e poi ritirarsi a vita privata. La storia dei Barker è stata portata al cinema decine di volte.
Mentre le forze alleate stanno sferrando il loro attacco alla Germania lo storico dell’arte Frank Stokes ottiene l’autorizzazione da Roosevelt in persona per mettere insieme un gruppo di esperti che cerchi di recuperare le opera d’arte che Hitler ha fatto portare via e nascondere in previsione della costruzione del mastodontico Museo del Fuhrer. In caso di sconfitta del Reich l’ordine è di distruggerle. Si viene così a creare una compagnia formata da due storici e un esperto d’arte, un architetto, uno scultore, un mercante, un pilota britannico e un soldato ebreo tedesco per le traduzioni. Escluso quest’ultimo i componenti del gruppo non hanno certo l’età dei combattenti ma la loro missione non è priva di pericoli. Chi cerca in questo film il Clooney regista di Good Night, & Good Luck. e di Le Idi di marzo rimarrà deluso mentre chi ricorda l’acuto e divertito rivisitatore di generi di In amore niente regole avrà l’occasione per godere di un film che non si vuole limitare però alla ricostruzione filologica innervata da riferimenti alla realtà storica. Perché la memoria corre a Il treno di John Frankenheimer ma anche, per la struttura di un gruppo costituito da personalità molto diverse tra di loro, a film che hanno ne La grande fuga il loro vertice. Clooney però ha un obiettivo diverso in questi tempi di omologazione di massa: ci vuole ricordare il valore dell’arte come elemento che va oltre le generazioni ed alimenta la stessa esistenza di ognuno di noi. Anche di coloro che ne sono ignari. Per questo sorge il sospetto che alcuni interventi di Stokes (che in realtà era il conservatore di Harvard Gerorge Stout) risultino didascalici ma siano finalizzati a fornire qualche elemento di base a spettatori a cui la scuola non li ha offerti. La scuola americana in primis ma non solo se, come ci ricordano Lodoli e Piccioni in Il rosso e il bluci sono studenti che chiedono se Piero della Francesca fosse un uomo o una donna (e non è una battuta di sceneggiatura). La pattuglia di uomini inadatti alla guerra ma pronti a rischiare la vita per delle opere d’arte non è formata da attempati Indiana Jones (anche se non mancano i carrelli della miniera e la Madonna di Bruges e il polittico di Ghent prendono il posto dell’Arca dell’Alleanza). Sono uomini (e una donna bollata dal marchio del collaborazionismo) che Clooney ci presenta nella loro umanità pur non rinunciando a qualche stereotipizzazione di troppo. L’onestà del regista e sceneggiatore emerge comunque sin dall’apertura quando Stokes mostra una diapositiva dell’Abbazia di Montecassino distrutta da un bombardamento. Che non fu opera dei nazisti ma delle forze alleate. In quel preciso momento riemergono nella mente le immagini del Museo Archeologico di Bagdad saccheggiato senza che nessuno degli occupanti facesse nulla per impedirlo. La storia si ripeteva. Film come questo ci invitano a riflettere. Non rinunciando allo spettacolo.
Da un libro di Patricia Highsmith. Un disegnatore parigino arriva in provincia e fa innamorare una ragazza. Ma la cosa suscita l’ira del fidanzato della giovane, che aggredisce il rivale. Un giorno il fidanzato scompare e la polizia sospetta il parigino di omicidio. Chabrol è sempre bravo, ma fa una fatica dannata a non scivolare in effetti di farsa (con quel protagonista menagramo all’ennesima potenza).
È il primo novembre 1975 a Roma ed è l’ultimo giorno di Pier Paolo Pasolini. Il suo mattino comincia col bacio di sua madre. Susanna lo richiama dal sonno e lo ritrova dopo un viaggio a Stoccolma, dove si è occupato della traduzione del volume, “Le ceneri di Gramsci”. Incalzato dalla censura per Salò o le 120 giornate di Sodoma, intervistato “sulla situazione” e per La Stampa da Furio Colombo e avviato “Petrolio”, un romanzo che insegue nella sua testa due personaggi-narratori (Carlo, ingegnere della borghesia torinese, e Andrea Fago, unico sopravvissuto a un incidente aereo), Pier Paolo fa colazione con caffè e Corriere (della Sera). Più avanti nella giornata pranza con Nico Naldini e Laura Betti, che ha appena prestato la voce ‘demoniaca’ a Linda Blair (L’esorcista) e quella orgiastica a Hélène Surgère (Salò o le 120 giornate di Sodoma). Congedati gli ospiti scrive a Eduardo De Filippo di Re Magi e Messia e infila la sua Alfa Romeo e la notte romana, dove incontra Nunzio, l’angelo custode di Epifanio e di un film che rincorre la cometa ma che non vedrà mai la luce (Porno-Teo-Kolossal). Perché Pier Paolo sprofonderà negli occhi neri di Pino Pelosi e nel buio di Ostia, muta davanti al massacro di un poeta. Alla maniera di “Petrolio”, romanzo incompiuto di Pierpaolo Pasolini, Pasolini è un film che non si può raccontare, perché nulla si svolge al suo interno eppure accade in continuazione qualcosa. L’impossibilità di narrazione non appartiene al film ma ad Abel Ferrara, che ‘ammette’ l’incapacità di restituire il vissuto del poeta. Perché ci sono cose, come sosteneva Pasolini e sostiene il suo doppio sullo schermo, che si vivono solo attraverso il corpo. Per quanto ci accaniamo a ricostruirle, immaginarle o interpretarle non sono più le stesse vissute attraverso un altro corpo. Ferrara denuncia subito lo scarto, la distanza che lo separa dal corpo reale del poeta friulano ed espone con pudore la difficoltà che ha incontrato. Un pudore commovente che dice bene del mistero, del mistero che è morto con Pasolini, di una continuità che si è interrotta con la sua morte. Se è vero che solo Pasolini poteva significare se stesso, nondimeno il regista lo mette in scena in un atto unico, aperto ai sensi e scaraventato dentro alla memoria e alle sue visioni personali. Lo afferra a intermittenza nei tratti spigolosi di Willem Dafoe e ricorrendo a frammenti, a visioni parziali del suo corpo nel teatro del delitto, alla sovraimpressione, alle immagini che non esistono mai isolate ma sempre in rapporto con le altre. Non immagini uniche ma dipendenti in cui si muovono i testimoni, i ‘partecipanti’ indispensabili a rendere leggibile il poeta. La madre Susanna, Graziella, Laura Betti, Furio Colombo, Nico Naldini, Pino Pelosi sono allora il momento in cui Pasolini si mostra e si fa percepire. Dentro una struttura circolare, che apre l’ultima giornata di un uomo col sorriso di sua madre e la chiude con una contrazione di inconsolabile dolore materno, Pasolini è la morte al lavoro, come sempre nel cinema di Abel Ferrara. La morte intesa come atto estremo, che monta retrospettivamente la vita di un uomo proprio come il montaggio fa con un film. Capace da sempre di farsi carico del male oscuro che ammorba le sue immagini e il mondo, l’autore americano imbocca i passaggi sotterranei dell’inconscio, che da tempo e molti film non struttura più come un linguaggio. La memoria delle ultime ore di un poeta manda in tilt il controllo razionale e torna sotto forma di visione. Come i suoi killer, i suoi vampiri, i suoi gangster, il Pasolini di Willem Dafoe scende all’inferno e vaga negli anfratti bui e fatiscenti alla ricerca di qualcosa di desiderato e irraggiungibile. Nel modo di Epifanio, interpretato da Ninetto Davoli, il protagonista insegue una cometa che lo conduce all’Idroscalo e gli nega il Paradiso. Forse perché ha considerato la sua degradazione profondamente morale “e per di più l’ha considerata un suo diritto”. A ragione di questo, Ferrara esibisce l’esibizionismo di Pasolini, l’intenzione massima di apparire che non è mai visibilità del corpo ma unica possibilità per il suo protagonista di esistere nel testo filmico. Ardente, tragico e scombinato, Pasolini combina il sogno col reale, interrogandosi sul poeta e la forma con cui egli crea, sulla storia di un uomo e su quella del suo corpo, su Pier e su Paolo, agiti sotto la cupola ribadita della Basilica ‘omonima’ dell’Eur, sdoppiati e fatti altri da sé nei territori della poesia e dell’incubo, dove da sempre cadono gli angeli ribelli, si uccidono i poeti e ci si scopre assassini.
Nick Charles va in vacanza nella cittadina dei genitori, ma la morte violenta di un operaio ladro e disonesto lo obbliga a rimandare l’agognato riposo, tanto più che l’omicidio non è il primo. Dov’è il marcio? 5° film della serie “Thin Man”. Thorpe sostituisce alla regia lo svelto Van Dyke, morto nel 1943 a 54 anni. La differenza di mano si fa sentire, anche se la responsabilità del calo è soprattutto degli sceneggiatori. Seguito da Il canto dell’uomo ombra.
Romano è un uomo che, dopo aver mentito una volta, non può più fermarsi. Quando gli arriva l’occasione in cui la felicità dipende solo dalla sua capacità di aver fiducia nel prossimo, non può farlo e la felicità gli sfugge. È una commedia divertente ma anche commovente, malinconica, ironica. Come dev’essere Čechov. Ammirevole per varietà di toni, ricchezza di invenzioni, direzione di attori. È l’ultimo film della Mangano. Squisita. Premio a Cannes per Mastroianni. Scritto dal regista con Alexander Adabascian (anche scenografo) e S. Cecchi D’Amico.
I Benedetti sono da sempre stati soprannominati “maledetti” rei di essersi tenuti l’oro dei francesi, sottratto a un giovane soldato. Costui viene di conseguenza fucilato dai suoi compatrioti. Fa però in tempo a innamorarsi, ricambiato, di una dei Benedetti, che rimane incinta. L’epoca è il Settecento. La storia è narrata da un discendente ai giorni nostri. Passiamo quindi attraverso il primo Novecento e la seconda guerra mondiale. Siamo nei pressi di una telenovela, ma col fiocchetto d’autore che però non è annodato stretto. Per tutte basta citare la sequenza ambientata durante la Resistenza che risulta di grande retorica se paragonata all’espressività de La notte di San Lorenzo.
Uno scrittore squattrinato accetta il lavoro propostogli da una vecchia e strana signora: riordinare le carte del marito, uno scrittore famoso quanto controverso. Nella vecchia casa conosce Aura, una bella ragazza che si dice nipote della signora. Ma l’abitazione sembra stregata.
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