Dean, un Lord inglese appassionato di archeologia, vuole recuperare un prezioso e leggendario scettro d’oro sepolto nei deserti della Cappadocia. La leggenda dice che chi lo possiede può dominare il mondo: per questo anche il violento emiro Abdullah lo vuole e fa seguire la spedizione di Dean.
Jenny sta per lasciare l’ambulatorio presso cui lavora in seguito alla interessante e remunerata offerta di lavoro che le hanno fatto. Una notte, dopo l’ora di chiusura, decide di non aprire a chi sta imperiosamente suonando. Il giorno successivo viene trovato il cadavere senza identità di una ragazza e il video di sorveglianza mostra che era la donna a cui non ha aperto. Jenny è ossessionata dal bisogno di scoprire chi era e che cosa è successo. È il senso di colpa che muove la dottoressa protagonista – personaggio di cui non si sa pressoché nulla – di un film raccontato e sviluppato come un thriller, sullo sfondo di una società sempre più arida e individualista, dove l’umanità è indifferente (quando non cattiva), assente, priva di solidarietà. Nonostante la brava Haenel, non è del tutto riuscito. Giustamente battuto da Loach a Cannes 2016.
Patrick Bateman incarna alla perfezione i ‘valori’ di riferimento degli arrivisti degli Anni Ottanta. I suoi abiti sono tutti firmati, frequenta i club e i ristoranti giusti e non dimentica le periodiche frequentazioni della palestra più ‘in’. Lavora a Wall Street e tiene tutti a distanza di sicurezza: “Non toccatemi il Rolex” è una frase che lo identifica. Dietro questa facciata è nascosto un mostro che di notte, strafatto di droghe, sgozza mendicanti e prostitute. Le donne che lo circondano (la fidanzata Evelyn, l’amante Courtney e la segretaria Jean) non sospettano nulla. Persino il detective Donald Kimball viene attratto e depistato dalla sua personalità. Finché Patrick non si imbatte nel suo sosia: Paul Allen. Tratto da un romanzo di Bret Easton Ellis, il film ha fatto discutere tutta l’America per la carica di violenza che contiene.
Disavventure e riti sessuali tra le tribù degli Arrapahos e dei Frocehiennes. I nomi delle tribù sono espliciti, in questa commedia comico-demenziale del noto gruppo Gli Squallors, per far capire il contenuto. Spazzatura.
Gummi e Kiddi sono due anziani fratelli islandesi che non si parlano da 40 anni. Al centro della loro rivalità c’è l’ingestibilità caratteriale di Kiddi, refrattario alle regole sociali e alla mera convivenza civile. Per questo i fratelli, pur abitando l’uno accanto all’altro nell’isolamento innevato di un isolotto all’estremo nord e pur svolgendo entrambi l’attività di pastori, comunicano solo attraverso il loro cane, che trasporta in bocca i rari messaggi fra i due. Quando un’epidemia ovina costringe i pastori a uccidere tutte le loro pecore, Gummi decide per la prima volta di fare qualcosa contro le regole: nascondere sette pecore e un montone nella cantina della propria casa, confidando in una ripresa del suo gregge al termine della quarantena imposta dallo Stato. È l’inizio di una possibile riconciliazione fra due fratelli che non hanno mai smesso di volersi bene ma non sono abituati, per natura e per cultura, a esprimere alcuna forma di affetto. Vincitore della sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2015 e rappresentante dell’Islanda ai premi Oscar per il miglior film straniero, Rams – Storia di due fratelli e otto pecore descrive con grande efficacia un mondo ridotto all’osso, in cui la pastorizia è l’unica fonte di sostentamento e le pecore sono al centro della vita (e degli affetti) di un’intera comunità. La regia spartana racconta una terra scarna abitata da personaggi di pochissime parole e pochi gesti legati alla sopravvivenza quotidiana. La nudità occasionale dei due fratelli, che si rivelerà una potente chiave di lettura dall’inizio alla fine della storia, diventa il simbolo di quell’essenzialità scoperta e vulnerabile che caratterizza le vite di entrambi, e la loro solitudine assoluta. I due attori protagonisti sono efficacissimi nel narrare attraverso espressioni minimali e una fisicità sofferta, levigata dalla fatica come dal vento del nord: in particolare Sigurður Sigurjónsson, attore comico e cabarettista nel suo Paese, è una sorpresa nei panni dello stoico Gummi. Purtroppo la trama di Rams – Storia di due fratelli e otto pecore è esageratamente minima e i tempi dilatati della narrazione, che hanno incontrato il favore del pubblico festivaliero, sono appunto troppo “da festival” per tener desta l’attenzione di un pubblico generalista, abituato a ritmi più sostenuti e a vicende più complesse. La linearità della storia è dunque da un lato la forza del film, poiché corrisponde esattamente alla natura laconica e rarefatta della vita che racconta, e la sua debolezza in termini di appeal cinematografico per lo spettatore medio.
In una bella casa sul mare vivono George, mezza età, e Nathalie, moglie giovane. Appare un precedente fidanzato di lei, che poi viene trovato morto. Chi sarà stato? Da quel momento tutto succede. Chi è buono? Chi è cattivo? Un parziale remake de La congiura degli innocenti di Hitchcock. Gli attori ci sono, ma il film presume troppo e alla fine delude.
2° capitolo delle avventure del personaggio che ha trasformato in campione d’incassi Jim Carrey. L’acchiappanimali deve ritrovare un raro esemplare di pipistrello bianco per evitare una guerra tra due tribù rivali. Non mancano le trovate comiche efficaci, specialmente nella 1ª parte. Edizione italiana scorciata.
Anna e Francesca sono due adolescenti, belle, irrequiete, amiche inseparabili. Vivono a Piombino. Pensano all’amore, alle vacanze. I maschi delle loro famiglie odiano e amano il lavoro per il quale si ammazzano all’acciaieria, sono gelosi e possessivi nei confronti delle 2 ragazzine. Le madri vogliono per loro un futuro diverso, ma non sono un modello per le figlie che, promettendosi amicizia eterna, giurano che non diventeranno mai come loro. Non succede nulla in questo poco realistico, patinato dramma operaio, dal libro di Silvia Avallone – che ha anche collaborato alla sceneggiatura con Mordini e Giulia Calenda. L’unico merito della versione cinematografica è la scelta delle due ragazze, spontanee, toscane veraci, facce interessanti. Se il romanzo ha superato il mezzo milione di copie vendute, il pubblico non ha dato il suo consenso al film. Produce Palomar con Rai Cinema.
Il viaggio apostolico del cardinale Guglielmo Massaia (1809-86) e la sua amicizia con il ras Menelik non sono graditi al capo della chiesa copta Atanasio. Presentato a Venezia nel 1939, ottenne la Coppa Mussolini. Decoroso film agiografico di propaganda alla politica fascista di espansione coloniale nell’Africa orientale. Intitolato anche Vendetta africana.
Elizabeth rompe con un compagno con cui è stata a lungo e si confida con Jeremy, il proprietario di un caffè che se ne innamora. Ma la ragazza lascia New York per un viaggio le cui tappe sono scandite dalla ricerca di un lavoro, il desiderio di poter acquistare un’auto e il bisogno di curare le ferite interiori. Incontrerà storie di individui che la faranno crescere e la porteranno a uno sguardo nuovo sul mondo. Forse più libero o forse ancor più legato a qualcuno e quindi positivamente ‘libero’. Ancora un viaggio nei sentimenti quello del regista cinese divenuto da tempo uno dei Maestri del cinema. Alla sua prima prova in lingua inglese Wong Kar Wai dichiara: “Talvolta la distanza tangibile tra due persone puo’ essere minima ma quella emotiva enorme. Il mio film vuole essere uno sguardo rivolto a quelle distanze sotto varie angolazioni”. Dopo il suo capolavoro In the Mood for Love sembrava essere divenuto prigioniero di un formalismo che rischiava (vedi 2046) di ottundere la sua capacità di narratore di emozioni spesso a rischio di implosione. In Un bacio romantico torna a produrre vibrazioni pur non rinunciando a una ricerca estetica estremamente raffinata ma nuovamente non fine a se stessa.
Un insegnante torna al suo paese natale e gli viene affidata una classe. A terrorizzarlo però ci sono, tra gli alunni, tre delinquenti ufficialmente morti sotto un treno. Costoro erano deceduti poco tempo dopo aver ucciso il fratello del docente. Tratto da un romanzo dell’onnipresente Stephen King, il film è adatto ai fans del genere e anche a chi non ama le scene truculente.
Un film di Norman Taurog. Con Elvis Presley, Nancy Sinatra, Bill Bixby, Gale Gordon Titolo originale Speedway. Musicale, durata 101 min. – USA 1968. MYMONETRO A tutto gas valutazione media: 2,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Formula 1, quattrini, fisco e amore conditi con molte canzoni.
Henry Whipple ha due figli e un impero agricolo. Vende semi geneticamente modificati nelle contee del suo stato, l’Iowa, in un regime di competizione serrata e senza sosta. Vorrebbe che i ragazzi ereditassero il suo lavoro, come è prassi nella sua famiglia da generazioni, ma il grande vuole vedere il mondo e il giovane, Dean, corre in macchina e sogna i circuiti professionali. Le preoccupazioni di Henry si aggravano quando si vede arrivare in azienda due ispettori, inviati da qualcuno per rovinarlo. Come spesso avviene, lo sguardo dello straniero (anche di seconda generazione) sulla terra di adozione è più sanguigno di quello autoctono e illumina con maggior limpidezza le contraddizioni sociali che guidano e minacciano l’umanità di un popolo. Per il suo quarto lungometraggio, Ramin Bahrani si addentra nel cuore dell’America rurale, divisa tra la soggezione ai dettami granitici di una tradizione patriarcale e calvinista e il dinamismo di un mercato che impone il rinnovamento perenne, almeno in sede tecnologica.
Un film di Edward Zwick. Con Rob Lowe, James Belushi, Demi Moore Titolo originale About Last Night. Commedia, Ratings: Kids+16, durata 113′ min. – USA 1986. – VM 18 – MYMONETRO A proposito della notte scorsa valutazione media: 2,50 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Debby e Denny, dopo un’ardente notte passata insieme, decidono di fare coppia fissa. Passati cinque mesi scoppia la crisi, rinasce la voglia di libertà. Tratto da un’opera teatrale di David Mamet, il film è tenero e carino. All’attivo ci sono Jim Belushi (fratello di John) e la frizzante Perkins.
Barnaba è un quasi quarantenne disoccupato che vive ancora con mamma e papà e va alla ricerca di un fantomatico bancomat erogatore di banconote anche a chi, come lui, ha un credito perennemente esaurito. Jacopo, ex compagno di scuola di Barnaba, è stato abbandonato in un cassonetto alla nascita e lasciato dalla fidanzata all’altare: ora alterna le sue giornate fra un lavoro ingrato all’anagrafe e innumerevoli maldestri tentativi di suicidio. Sonia è una neolaureata in arte e un’aspirante restauratrice che soffre della sindrome di Stendhal, e dunque sviene davanti alle opere che dovrebbe rimettere in sesto. Quando Sonia, dal Nord Italia, si trasferisce a Napoli con l’incarico di porre riparo a un San Sebastiano danneggiato presso una chiesa di quartiere le strade dei tre si incrociano, così come i loro destini. Il quarto personaggio è la città di Napoli, in bilico fra archetipo e stereotipo, popolata da un’umanità colorita che fa da controcanto alle vicende dei protagonisti.
Processata per omicidio preterintenzionale del coniuge Gino (G. Giannini), la proletaria Tina Candela (M. Vitti) fa la propria autodifesa, ascoltata con interesse da una giurata popolare (C. Cardinale), moglie in un ingegnere intrallazzatore (V. Gassman). Tutto si risolve con la ricomparsa di Gino. Scritta con Francesco Scardamaglia, la commedia è venata di grottesco ma, pur proponendosi di denunciare vizi e storture della società, si risolve in una compiaciuta e furbesca assoluzione. Conferma, comunque, l’interesse per la condizione femminile che il regista aveva espresso con maggiore sottigliezza in Certo, certissimo… anzi possibile. Uno dei successi della stagione 1975-76.
Dal romanzo I Am a Legend (1954) di Richard Matheson già portato sullo schermo con L’ultimo uomo della terra (1964). Nel 1977 una guerra batteriologica ha sterminato l’umanità. I pochi superstiti non tollerano la luce, costretti a vivere di notte e al buio. Solo uno scienziato si è immunizzato e crea un vaccino per salvare gli altri. Ma la città è in mano a bande di sterminatori notturni. È un thriller di SF con qualche efficace scena d’azione, ma non all’altezza del libro di Matheson. Spreco di effetti speciali macabri.
Marie lavora presso lo Justervesenet, l’ufficio norvegese dei pesi e delle misure, insieme al padre Ernst. Mentre è alle prese con le macerie della propria vita sentimentale, la trentacinquenne viene incaricata di recarsi a Parigi – portando con sé il prezioso campione del chilogrammo norvegese – per rappresentare il suo paese al seminario sull’esatta determinazione del peso. Nella capitale francese, tra i delegati di tutto il mondo, conoscerà Pi, un collega che forse la aiuterà ad assegnare le giuste misure alle cose della vita. Il cinema del norvegese Bent Hamer, non un Kaurismäki in minore come si scrive spesso, è abitato da personaggi incapaci di uscire dal proprio disagio esistenziale, fotografati nella loro inadeguatezza di rapportarsi col mondo e con il prossimo. Anche Kitchen Stories – Racconti di cucina, il film che l’ha rivelato dopo Eggs e En dag til i solen, orbitava sulla solitudine e la mancanza di scopo, a partire da un surreale esperimento pseudo-scientifico che aveva il fine di monitorare i movimenti quotidiani nello spazio delle cucine degli scapoli di una certa età. In 1001 grammi l’esperimento, per così dire, è quello che, in seguito ad alcuni eventi, porta avanti la solitaria e metodica Marie.
Se l’anima pesa 21 grammi, come le dice il padre Ernst, la scienziata norvegese comincia a voler sapere, nello specifico, qual è il peso di ciò che veramente conta nella vita di ognuno. In questo lavoro di Hamer, che visivamente riprende lo stile hopperiano a cui ci ha già abituato e i consueti toni ironico-raggelati, l’idea fulcro della misurazione non prende la via che imboccava il Mastroianni di Break-Up, non si trasforma in ossessione quanto in un modo attraverso il quale uscire dal guscio: ha dunque una valenza positiva, non negativa, portando alla vita e non alla morte. Più di cuore di un Kaurismäki, ma certamente meno geniale rispetto al collega finlandese, il regista norvegese non ritrova la pienezza espositiva dei suoi titoli migliori, come Il mondo di Horten o l’altrettanto riuscito Tornando a casa per Natale, azzeccando comunque il ritratto di una donna al bivio di una rinascita. Se 1001 grammi comprende a pieno l’anima di un modo particolarissimo di guardare alla realtà, ugualmente, sembra voler intercettare il consenso di un pubblico più vasto, così com’era accaduto con la trasposizione bukowskiana di Factotum. L’attenzione al dettaglio, l’emersione di una disperazione quieta e, anche per questo, più spaventosa, la creazione di un universo sospeso rimangono le stesse, ma con più di un’ombra di maniera. Come Kitchen Stories – Racconti di cucina e altri titoli del regista, anche 1001 grammi è un apologo sulle differenze culturali e sul loro incontro-scontro: cos’altro è il seminario francese? Triste e comicamente nordico, con sferzate di ironia intelligente capaci di alzare il tiro non poco, è un altro esempio di quel romanzo dello spaesamento fatto di figure geometriche e anime in cerca di riscatto che il regista scrive di film in film.
Ispirato ad una storia vera, 21 racconta le gesta di Ben Campbell, brillante studente del Mit che, per raggranellare i soldi necessari a pagarsi l’università, decide di unirsi a un gruppo scelto di cervelloni che ogni settimana, dotati di false identità, saccheggiano i casinò di Las Vegas grazie alla loro abilità nel gioco del Blackjack, guidati da Micky Rosa, un geniale e ben poco ortodosso professore, capace di elaborare un sistema infallibile per vincere, basato su segnali e conteggi matematico-probabilistici applicati al gioco. Le iniziali fortune fanno montare la testa a Ben che, invaghito della bella compagna di avventure Jill Taylor, si spinge sempre più in là, fino ad arrivare a superare il punto di rottura, rappresentato da Cole Williams, manager della security del casinò che non vede di buon occhio i continui successi di Ben… Il casinò è uno dei luoghi meglio frequentati dal cinema: è stato teatro di numerosi film di successo e promana sempre un fascino particolare. Nonostante sia ispirato ad una storia vera (sembra incredibile, eppure è così, e il romanzo “Bringing Down the House” è lì a ricordarcelo), 21 strizza l’occhio in maniera più o meno smaccata alla trilogia di Ocean’s, con al posto delle rinomate star guidate da Clooney, un gruppetto di giovani promesse con pochi soldi (nel film, ovviamente) e molto cervello. Il vero spettacolo però, prevedibilmente, si ha quando nell’arena scendono i sempre amabili Kevin Spacey (che si diverte come un matto) e Lawrence Fishburne che danno lezioni di stile e dimostrazione di consumato talento. Purtroppo, anche a causa di uno script abbastanza prevedibile, la regia di Luketic, più a suo agio nelle commedie che in film di questo tipo, non riesce a mantenere alto il ritmo del film, né a distinguerlo da classici del genere “truffe in grande stile” come La stangata e simili. Se a questo aggiungiamo una durata francamente eccessiva, almeno in relazione alla quantità di eventi e colpi scena presenti nella storia, quel che ne esce è un film leggero, senza pretese, che offre un piacevole intrattenimento, ma nulla di più.
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