Un’attrice che ha lasciato la famiglia per una vita indipendente torna a casa in occasione del diploma della figlia, per sostenere la parte di protagonista in uno spettacolino casalingo. La donna sente rinascere l’antico affetto di un ex innamorato che rischia di compromettere tutto.
Marina ha 23 anni e vive con il padre in una cittadina industriale della Grecia. La ragazza è poco interessata alla specie umana e praticamente per nulla al sesso anche se cerca di comprendere qualcosa grazie alle canzoni dei Suicide e ai documentari sulla Natura di Sir David Attenborough. C’è poi Bella, l’amica/rivale che le impartisce lezioni di educazione sessuale. Marina proverà ad applicarle con un forestiero arrivato in città per lavoro. Intanto suo padre si prepara a morire per tumore. Athina Rachel Tsangari è forse l’unica regista capace di imprimere un’impronta ‘nordica’ a un film mediterraneo. Perché Attenberg è un film algido così come appare il rapporto che Marina ha instaurato con il mondo. Accompagnando il padre alle sedute di chemioterapia gli rivela di averlo immaginato nudo e non sa nascondere la gelosia che prova nei confronti di Bella che non riesce a non assumere atteggiamenti seduttivi con chi la circonda. Marina è una sorta di etologa della razza umana che scruta e osserva così come Attenborough studia i gorilla nel lor habitat naturale. Con la differenza che la ragazza non può chiamarsi del tutto fuori dall’appartenenza all’umanità. Ne nasce così una tensione che la regista riesce a far percepire tra il desiderio di abbandonarsi alla scoperta della relazione tra i sessi e una quasi invincibile anaffettività. Se si fosse risparmiata i siparietti coreografico/musicali alla Tsai Ming Lian Tsangari avrebbe realizzato un’opera di assoluta originalità (compreso il finale con una curiosa soluzione per effettuare una cremazione non consentita).
Naufragio di uno yacht. Lord Filippo con la moglie Susanna e l’amico Henry (che corteggia Susanna) trovano rifugio su un’isola tropicale dove il Lord, molto pratico, costruisce una capannina per l’amico e una capanna per lui e la moglie.
Nel 1941 in Libia durante la ritirata da Tobruk un carro armato americano (con qualche inglese), al comando di un coraggioso comandante, è in difficoltà per la sete, ma fa molti danni alla Wehrmacht tedesca. Semplice, intenso, attendibile: un buon film bellico. Ebbe 2 candidature agli Oscar: fotografia di R. Maté e J. Carrol Naish attore non protagonista. Fu rifatto in chiave western con Nuvola nera.
Un film di David Miller. Con Anna Lee, John Wayne, John Carroll Titolo originale Flying Tigers. Guerra, b/n durata 102′ min. – USA 1942. MYMONETRO I falchi di Rangoon valutazione media: 2,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Nella guerra 1939-45 un gruppo di piloti americani combatte a fianco delle truppe di Ciang-Kai Shek contro i giapponesi. Uno dei 6 film interpretati da Wayne nel 1942. Pura routine. Avvincenti le scene di combattimenti aerei, realizzate coi modellini da Howard Lydecker. Altro titolo: Il comandante Jim.
Jack cova un terribile odio contro il padre che l’aveva abbandonato da piccolo. Quando i due si ritrovano, si riconciliano. 1° film a colori per Wayne, in un Technicolor (fotografia di Charles Lang Jr. e W. Howard Greene) che serve assai bene i paesaggi montagnosi degli Ozark. Tratto da un popolare romanzo di Harold Bell Wright, The Shepherd of the Hills fu filmato anche nel 1919, 1928, 1963.
Waleryan Borowczyk porta in cinema i poemi di Ovidio visti come un trattato sull’amore. Al centro della vicenda è la love story tra il giovane romano Cornelio e la bellissima Claudia.
Un film di Wong Kar-wai. Con Andy Lau, Jacky Cheung, Maggie Cheung Titolo originale Mongkok Carmen. Drammatico, durata 95 min. – Hong Kong 1988. MYMONETRO As Tears Go By valutazione media: 2,75 su 2 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Al suo primo film Wong Kar-wai non è ancora autore ma è già protagonista. As Tears Go By è un mix di stili contrastanti ma vibra di tutta la passione che solo il cinema di Hong Kong degli anni ’80 sapeva regalare. Sorta di remake sotto mentite spoglie del Mean Streets scorsesiano, è la storia di Wah, un gangster squattrinato, disilluso e per nulla ambizioso tentato dall’amore per una lontana cugina ma prigioniero di questioni d’onore e del bisogno di proteggere l’avventato Fly, dotato di una propensione rara per cacciarsi nei guai ad ogni occasione. Wong Kar-wai si mantiene nei limiti del cinema commerciale e di genere, con musiche ad effetto – colonna sonora comunque strepitosa, tra il jazz-rock di Teddy Robin Kwan e il remake di Take My Breath Away dei Berlin – e rispettando il canovaccio del noir con tutti i suoi cliché, ma è stilisticamente che reinventa il tutto. Luci al neon, step framing per sbalestrare lo sguardo durante le scene d’azione, inquadrature suggestive e figlie della nouvelle vague (alternate ad altre ancora molto grezze), ossia quelle che diverranno le stimmate di un autore memorabile e che in As Tears Go By si mescolano con effetto inebriante alla spensieratezza del cinema popolare.
Un padre dispotico si intromette negli affari sentimentali della figlia e le impedisce di sposarsi. Male per lui, perché la ragazza si vendica mettendo sul lastrico il genitore. Questi, malgrado tutto, ammira il coraggio della figliola e accetta l’elemosina che gli fa, ma qualcun altro si rifà vivo. Sorpresa.
Nella primavera del 1922, il giovane Nick Carraway si trasferisce a Long Island, in una villetta che confina con la villa delle meraviglie di Gatsby, un misterioso milionario che è solito organizzare feste memorabili e del quale si dice di tutto ma si sa molto poco. Cugino della bella e sofisticata Daisy Buchanan, moglie di un ex campione di polo, Nick viene a conoscenza del passato intercorso tra Daisy e Gatsby e si presta ad ospitare un incontro tra i due, a cinque anni di distanza. Travolto dal clima ruggente dell’età del jazz, da fiumi di alcol e dalla tragedia di un amore impossibile, Nick si scoprirà testimone, complice e disgustato, del tramonto del sogno americano. Tra la versione del 1974, sceneggiata da Coppola ma cinematograficamente poco consistente, e la rilettura odierna firmata Baz Luhrmann, che invece carica l’impianto visivo fino quasi a soffocare la voce amara e toccante del romanzo di Scott Fitzgerald, è lecito sognare una giusta temperatura di trasposizione, che resta ancora ideale, e rinnova la sfida ai cineasti a venire, com’è nella natura dei grandi classici di fare. Non c’è dubbio, infatti, che nel libro di Fitzgerald ci sia un corpo che domanda di essere tradotto esattamente con il linguaggio del cinema e della musica: è quello che parla della trasformazione fisica del protagonista, dei costumi che indossa, dell’architettura che abita, degli straordinari eventi che ospita; dell’epoca che incarna. E non è tanto su questo fronte, come verrebbe da pensare pregiudizialmente, che il film di Luhrmann è ridondante: il regista australiano sa animare come pochi altri una festa cinematografica e qui lo conferma a più riprese, sulle note di un r’n’b contemporaneo che aspira a giocare il ruolo inebriante che all’epoca giocava il jazz. Ma c’è anche un’anima, nel romanzo, autobiografica e disperata, che parla molto più in sordina di quanto non faccia il film di Luhrmann, che pecca in più riprese di un’eccessiva esplicitazione dei sentimenti in campo, si compiace rovinosamente nel finale, e di fatto non trova una via altrettanto personale, se non quella di ripetere modi e caratteri di Moulin Rouge. Tobey Maguire, nei panni di Nick Carraway, sembra infatti ricalcare la figura dello scrivano tragico di Ewan McGregor, al punto che il regista inventa per lui una cornice gemella e superflua, mentre il Gatsby di Leonardo Di Caprio, straordinario nella performance silenziosa e nella restituzione della solitudine del sognatore e dell’ambizioso (anche in virtù dei ruoli già indossati che si porta appresso), subisce suo malgrado la sorte del film a cui dà il nome, perdendo mistero e fascino man mano che l’orologio scorre e tentando invano di elevare la tensione alzando la voce. D’altronde, insistendo sul tema del guardare e dell’essere guardati, è il regista stesso a fornire un’indicazione per la lettura del suo lavoro. Nick è un osservatore della vita, un voyeur, Gatsby ha la fama di essere una spia e vive per raggiungere quella luce verde al di là dell’acqua che guarda senza posa, i due si tengono sotto controllo dalle rispettive finestre, mentre un paio di giganteschi occhi maschili (simili a quelli di donna dipinti da Francis Cugat, che Fitzgerald volle come copertina) scruta come un dio pagano il distretto operaio dove i ricchi sostano per il tempo dei loro sporchi comodi. Luhrmann, cioè, denuncia per primo e ribadisce ad oltranza il carattere eminentemente visivo del proprio operato, invitando il pubblico a godere dei fuochi d’artificio, dello “spettacolo spettacolare”, e dissuadendolo dal “pretendere troppo”, come impudentemente osa invece fare Gatsby.
Primo e Secondo Pilaggi, fratelli italiani emigrati sulla costa del New Jersey gestiscono un ristorante sull’orlo del fallimento. I due, per risollevare la situazione, decidono di organizzare una sontuosa cena nel loro locale, alla quale invitare il famoso musicista Luis Prime. Gustosa commedia-gastronomica ambientata negli anni Cinquanta.
Un film di Otto Preminger. Con Carol Lynley, Romy Schneider, Raf Vallone, John Huston. Titolo originale The Cardinal. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 175 min. – USA 1963. MYMONETRO Il cardinale valutazione media: 2,50 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Stephen Fermoyle è un sacerdote di Boston uscito dalla penna del romanziere Henry Morton Robinson. Trasponendo il libro sullo schermo, Preminger dà un quadro della vita della chiesa cattolica dalla prima guerra mondiale alla caduta del nazismo, attraverso le difficoltà pastorali, le tentazioni e i dubbi di questo pastore americano, che diventerà cardinale.
Strana ragazza illibata che ha la particolarità di dire le cose più sconvenienti nei momenti meno adatti fa giochi di equilibrio erotico tra un architetto scapolo (Holden) di buoni costumi e un maturo dongiovanni (Niven) pieno di milioni. Da una pièce (1951) di Hugh Herbert, interpretata con successo a Broadway da Barbara Bel Geddes, qui sostituita da M. McNamara, calcolatissima nella sua spontaneità. Prodotta in proprio da Preminger, fu messa al bando dall’associazione dei produttori perché, per la 1ª volta in un film nordamericano, si ricorreva nei dialoghi a parole oscene come virgin (vergine) e mistress (amante). Fu boicottata dalle autorità ecclesiastiche cattoliche con intervento personale del cardinale Spellman che la definì “un’occasione di peccato” e una violazione di ogni “regola di moralità e decenza”. Il film fu difeso dal produttore-regista sui mass media e in tribunale. La sua vittoria contribuì all’aggiornamento del Codice Hays. Quasi contemporaneamente la commedia di Herbert fu filmata in Germania: Die Jungfrau auf dem Dach con Johanna Matz, Hardy Kruger e Johannes Heersters.
Una ragazza madre va a scuola a riprendere la figlioletta, ma la bambina è scomparsa, anzi sembra quasi che non sia mai esistita. Da un giallo di Evelyn Piper (con finale diverso), un film insolito anche per i temi scabrosi (omosessualità, figli illegittimi, incesto) piuttosto rari all’epoca. Lo stile febbrile di Preminger gli dà intensità. Titoli di testa di Saul Bass. Olivier caratterizza con gusto.
Un comandante della marina americana affronta i giapponesi durante l’attacco a Pearl Harbor. Nonostante il suo coraggio, la nave riporta gravi danni. Più tardi il comandante tornerà in battaglia e compirà un’azione molto rischiosa: muoiono suo figlio e il suo secondo. Lui è gravemente ferito e gli viene amputata una gamba.
Un film di Robert Zemeckis. Titolo originale The Polar Express. Animazione, Ratings: Kids, durata 100 min. – USA 2004. uscita venerdì 3dicembre 2004. MYMONETRO Polar Express valutazione media: 2,94 su 37 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Chissà se Tom Hanks, abituato a correre, a vivere su un’isola deserta o a trascorrere le sue giornate in un aeroporto, avrebbe mai immaginato di trasformarsi in digitale e impersonare il capotreno del Polar Express? L’ultimo futuristico progetto di Robert Zemeckis, che vede protagonista l’attore americano, è un viaggio nel Luna Park del Natale (così ce lo illustra), sovraccarico di effetti speciali,di sali e scendi sulle rotaie, nella più classica tradizione dei rollercoaster. Protagonista di questa avventura in 3D è un ragazzino che, sotto la neve, la vigilia di Natale, sbarra gli occhi e prende al volo il Polar Express, fantasmagorico treno diretto al Polo Nord per incontrare Babbo Natale. Tratto da un libro dello scrittore Van Allsburg, Polar Express fa riferimento alla tradizione anglosassone del Natale, non tanto per le icone nordiche, quanto per la spettacolarizzazione (affascinante la sequenza del treno che scivola sul ghiaccio) e l’utilizzo del “musical” (pensiamo a White Christmas con Bing Crosby) come forma di ibridizzazione. Un esempio è l’apparizione di Babbo Natale con la moltitudine di folletti, vera immagine da concerto rock da stadio, e la digitalizzazione di Steven Tyler, cantante degli Aerosmith. Il ruolo dimaestro di cerimonie è perfetto per Tom Hanks, capace, anche in animazione, di esprimere severità e buoni sentimenti da vero leader, fino a moltiplicarsi in più personaggi. Certamente un prodotto per il pubblico giovanissimo che potrà rivivere la magia della favola di Natale come se fosse a Gardaland, fischiettando allegramente quelle canzoncine da festa sentite migliaia di volte. Un film furbo? Può anche darsi, ma modernizzare una tradizione è qualcosa che può riuscire solamente a chi ha ancora dentro, a oltre cinquant’anni, il bambino che c’è in noi, raccontandoci, con i fuochi d’artificio, che non bisogna mai smettere di credere e di sognare, perché la fantasia è uno dei motivi per cui vale la pena vivere.
Radiografia collettiva della Germania nell’autunno 1977 dopo il sequestro e l’uccisione dell’industriale Hans-Martin Schleyer; il dirottamento di un Boeing della Lufthansa a Mogadiscio con l’intervento di reparti specializzati che liberano gli ostaggi; la morte, nel carcere di Stammheim, dei terroristi Andreas Baader, Gudrun Esslin, Jan Carl Raspe e Ulrike Meinhof. Realizzato a ridosso della cronaca e già pronto nel febbraio 1978, mescola spettacolo e ideologia, analisi critica e indignazione civile, finzione e documentario. I racconti simbolici o metaforici si alternano con le testimonianze di taglio documentario. Per i temi che affronta – terrorismo, involuzione dello stato di diritto, crisi della sinistra, comportamento dell’opinione pubblica – riguarda anche gli italiani. Mandato in onda su RAI2 nel 1980.
L’onorevole Massimo Bonfili, attualmente impegnato nell’elaborare una riforma del diritto di famiglia, ha moglie, due figlie e una abitazione altoborghese. Ha però anche un’amante, Martina, una splendida attricetta che lui ha molto aiutato a trovare un suo spazio nel mondo dello spettacolo. C’è però il rischio di essere scoperto e Bonfili non se lo può permettere, non tanto sul piano della conservazione degli affetti familiari quanto piuttosto su quello della politica. La soluzione è a portata di mano: basta chiedere all’autista Mariano di fingere di essere l’amante della ragazza.
Un film di Delbert Mann. Con Richard Thomas, Ernest Borgnine, Patricia Neal Titolo originale All Quiet on the Western Front. Guerra, Ratings: Kids+16, durata 150 min. – USA 1979. MYMONETRO Niente di nuovo sul fronte occidentale valutazione media: 2,93 su 11 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Un giovane tedesco s’arruola volontario nella prima guerra mondiale, infiammato dalle sparate retoriche del suo professore. Scoprirà al fronte che la guerra non ha niente di bello e di glorioso: è solo fango, morte, paura. Morirà anche lui, l’ultimo giorno del conflitto. Nuova versione del libro di Erich Maria Remarque che già era stato portato sullo schermo da Lewis Milestone nel 1930.
Un film di Henri Verneuil. Con Anthony Quinn, Michael Redgrave, Grégoire Aslan, Virna Lisi. Titolo originale La vingtcinquième heure. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 127 min. – Francia 1967. MYMONETRO La venticinquesima ora valutazione media: 2,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nel 1940, in Romania, un contadino viene deportato come ebreo perché il capo della polizia locale vuole rubargli la giovane sposa. Il poveretto riesce a scappare a Budapest, ma, nuovamente arrestato dai nazisti, se la cava solo accettando di entrare nelle SS
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