Tratto da un’idea dello scalatore Reinhold Messner, il film narra la sfida tra Vince Roccia, un famoso rocciatore solitario, e un giovane e presuntuoso tecnico della scalata. In realtà l’unico uomo ad aver raggiunto la vetta è qualcun altro, che ha avuto il gusto di lasciare una piccozza con una foto di Mae West. Strutturato come un buon film televisivo ma al di sotto delle aspettative per un autore come Herzog. È stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia.
Nei mari della Groenlandia il capitano di un cacciatorpediniere USA dà la caccia a un sommergibile non identificato (presumibilmente sovietico), disposto a scatenare un conflitto atomico. Vigoroso, teso, efficiente dramma marinaresco sulla guerra fredda di taglio antimilitarista dove si mescolano i temi di Il dottor Stranamore e di L’ammutinamento del Caine. Recitazione di classe.
Un western vecchio stile. Lo sceriffo salva il vecchio Pop che sta per essere linciato per un omicidio non commesso. Ha tutti contro, specie gli allevatori. Finale trionfo per i buoni.
Ettore è bambino, negli anni ’50, in Sicilia in una famiglia alto borghese, dove il padre tradisce sistematicamente la madre. Ettore si divide tra i giochi e gli insegnamenti di un colto aristocratico, figura fondamentale della storia perché introduce il ragazzo nel mondo della cultura. Dopo la morte del padre, Ettore si trasferisce a Milano. Suona e trova piacere anche nella scrittura e proprio nel capoluogo lombardo il giovane uomo fa incontri importanti per la sua completa maturazione, attraverso le varie forme d’Arte, la filosofia, la meditazione a cui si avvicina per trovare se stesso. La storia del protagonista (ovviamente l’autobiografia del regista) è il filo conduttore del film, ma il personaggio di Ettore non si impone sulla scena, ma lascia spazio alle atmosfere (del Sud e del Nord del Paese), ai luoghi, ai personaggi-guida del suo cammino interiore. Tante citazioni, tante parodie e gag surreali per un racconto che segue i pensieri, i ricordi, le emozioni del narratore.
Alfie ha lasciato la moglie Helena perchè, colto da improvvisa paura della propria senilità, ha deciso di cambiare vita. Ha iniziato così una relazione (divenuta matrimonio) con una call girl piuttosto vistosa, Charmaine. Helena ha cercato di porre rimedio alla propria improvvisa disperata solitudine cercando prima consiglio da uno psicologo e poi affidandosi completamente alle ‘cure’ di una sedicente maga capace di predire il futuro. La loro figlia Sally intanto deve affrontare un matrimonio che nonfunziona più visto che il marito Roy, dopo aver scritto un romanzo di successo, non è più riuscito ad ottenere un esito che lo soddisfi. Sally ora lavora a stretto contatto con un gallerista, Greg, che comincia a piacerle non solo sul piano professionale…
Trascinato dall’amico Androclo, re di Tebe, Ercole lascia il Mediterraneo alla ricerca di Atlantide, dove regna la perfida e dispotica Antinea, per trovare conferma di sinistre profezie che minacciano il mondo civile. Con Ercole al centro della terra è il miglior peplum degli anni ’60. Scritto da Sandro Continenza e Duccio Tessari, è lesto nel ritmo, spiritoso e ironico tra le righe, ricco di allusioni antimilitariste e antirazziste (l’iconografia di Atlantide col suo impianto teocratico-scientifico richiama quella del nazismo). Campione solare delle forze della luce, Ercole non può vincere che con il sole, come l’esplosione finale conferma.
Al suo 4° film, esposto fuori concorso a Cannes 2005, Ji-woon Kim, anche sceneggiatore, racconta la storia di una caduta, quella di Sunwoo, giovane direttore di albergo, che, trasgredendo a un ordine del suo padrone, boss malavitoso, inizia una inesorabile traiettoria che, in un crescendo di violenza, lo porta all’uccisone dei suoi nemici e all’autodistruzione. È un noir dove – più dei personaggi, pur ben delineati – contano gli spazi in cui si muovono. Conta l’atmosfera più che l’azione. Conta soprattutto il contrasto tra luce e buio, l’idea della luce come vita. Lo indicano concretamente le tante lampadine che i personaggi accendono e spengono. È un efficace esempio del modo con cui un regista di talento ricorre alle convenzioni di un genere e le cambia per esprimere quel che vuole. Non riproduce la realtà, la inventa.
Tratto da un racconto folcloristico coreano, Two sisters, fa parte del filone orrorifico del cinema orientale degli ultimi anni. Inquietante e lentissimo, simbolico e con qualche buco di sceneggiatura, il film di Kim Jee-Woon è la storia di due sorelle inseparabili tornate a casa dopo una lunga malattia in seguito alla tragica morte della madre. Su Mi, la maggiore, nutre un grande rancore nei confronti della matrigna e del padre, considerati colpevoli del dramma, e cerca di proteggere la sorellina Su Yeon, terrorizzata dalla situazione domestica. Incubi notturni, immagini del passato, morti che appaiono vivi nella mente. Qualcosa di terribile si nasconde nella mente di Su Mi e nei suoi ricordi. Formalmente impeccabile, con inquadrature geometriche di spazi e persone, Two sisters esplora i luoghi bui della nostra mente, ricreando fantasmi ed esperienze traumatiche che rimangono segni indelebili di una vita. Sebbene siano presenti violenze di diverso tipo, il sangue appare in un simbolico rosso, privo di ogni elemento granguignolesco, ma estremamente efficace nel generare uno stato di ansia in chi guarda. La sceneggiatura, sfortunatamente, pecca di eccessiva complessità e di alcune contraddizioni che coinvolgono i personaggi, lasciando più di qualche quesito irrisolto nello spettatore. Un lento (anche troppo) e inesorabile viaggio nei tormenti della psiche.
Un anno dopo le avventure del 1° capitolo: i fratelli Peter, Edmund, Susan e Lucy frequentano la scuola mentre infuria ancora la seconda guerra mondiale, quando vengono di nuovo proiettati nel mondo magico di Narnia. Ma anche lì tutto è cambiato: quasi tutti gli abitanti sono stati uccisi dagli invasori Telmarini il cui capo legittimo, il principe Caspian, è stato messo in fuga dal perfido zio re Miraz che vuole ucciderlo e usurpargli il trono. I fratelli Pevensie ovviamente lo aiutano. Il 2° episodio della saga, tratto dal 4° libro di C.S. Lewis, prodotto dalla Disney e diretto dallo stesso regista, è più spettacolare e dinamico del precedente grazie anche al supporto di una sceneggiatura meglio articolata e al gruppo degli interpreti, cresciuti in età ma anche in maturazione professionale.
Dopo un tremendo attacco aereo a Londra durante la 2ª guerra mondiale, 4 fratelli (Lucy, Edmund, Susan e Peter), vengono portati in una casa di campagna di un eccentrico professore affinché stiano lontani dagli orrori e dai pericoli. Mentre giocano a nascondino, scoprono un armadio magico che li porta nel mondo incantato di Narnia, condannato a un gelo perenne dall’incantesimo della Strega Bianca (una temibile T. Swinton). Guidati da un Leone buono, i fratelli combattono la strega per liberare Narnia e tutti gli animali parlanti che vi abitano e riportare il sole nel loro mondo. Tratto dal 1° dei 7 libri di Clive Staples Lewis – docente di lingue antiche a Oxford, amico di J.R. Tolkien – girato in Boemia e Nuova Zelanda, diretto da A. Adamson ( Shrek ) con tecnica “mista”, cioè in live-action ma con molti personaggi realizzati al computer, è un film di avventure fantastiche maestoso ma senza emozioni, per ragazzi di tutte le età. Adamson sottolinea il prologo realistico (che nel libro è breve) proprio per entrare con maggior enfasi nella magia, come avviene nella testa di un bambino che si rifugia nella fantasia per allontanare i brutti ricordi. Le creature fantastiche (centauri, elfi, fauni, uccelli e castori parlanti) funzionano ma non lasciano il segno, e la spettacolare battaglia sembra non finire mai.
La sbrigliata quattordicenne Megghy convince zia Stefania ad accompagnarla in vacanza sull’isola greca di Ios (o Nio, Cicladi) dove ha deciso di perdere a tutti i costi la verginità. Sull’isola la squinzia punta sul maturo Andrea, ignorando che è il recente ex di Stefania. 5 anni dopo I piccoli maestri , Luchetti torna al grande schermo con una commedia degli equivoci dove lo scavo psicologico dei personaggi e una certa malinconia di fondo dovrebbero sopperire all’impianto minimalista della storia. L’operazione gli riesce soltanto nel personaggio della zia, affidato a S. Montorsi, sua compagna nella vita e cosceneggiatrice con Ivan Cotroneo e il regista stesso. Sul resto è meglio tacere.
All’inizio dell’Ottocento, un’istitutrice assunta per seguire la bimba d’un nobile prova simpatia per il padre della piccina, ma è sconvolta dal grande mistero che aleggia sulla casa. Scoprirà alla fine che la prima moglie dell’uomo, diventata pazza, è nascosta nel castello. Un provvidenziale incendio renderà il nobile vedovo e gli consentirà di sposare la ragazza.
Fuochi nella notte nei dintorni di una piantagione dell’Africa centrale indicano un attacco dell’esercito nazionale rivolto a stroncare una rivolta popolare fomentata da un ribelle detto “le boxeur”. Mentre le istituzioni locali invitano tutti i cittadini occidentali ad abbandonare il paese, Maria Vial, proprietaria di una storica piantagione di caffè, rifiuta l’allarmismo del governo ed è determinata a non perdere il raccolto della stagione. Una determinazione che la porta ad incontrare ostilità tanto dalla popolazione locale che dalle forze regolari, dall’ex marito André e dal figlio indolente Manuel. Principale esponente di un cinema dell’intellettualismo postcoloniale, Claire Denis si interessa da sempre a tematizzare gli incontri fra differenti identità culturali in maniera non pacificata, conflittuale. Le sue opere raccontano di un mondo multietnico ma non globalizzato, interculturale ma non serenamente comunicante, ponendo enfasi sulle eredità che gravano sulle nuove generazioni figlie della decolonizzazione. Con quest’ultima opera, la regista francese si dirige verso il “cuore di tenebra” del suo cinema e della sua biografia, facendo ritorno nei suoi luoghi d’infanzia e puntando dritto all’incrocio fra capitalismo e colonialismo, fra materia-merce e materia umana. Lo stesso titolo, White Material si riferisce da una parte ai semi non lavorati del caffè (bianchi, prima della tostatura), materia di smercio con cui la protagonista costruisce la sua piccola impresa; dall’altra, al termine dispregiativo con cui i ribelli camerunensi si riferiscono agli intrusi caucasici e ai loro beni materiali. Il personaggio di Maria Vial è parto naturale di questo intreccio: a un tempo carattere illuminato capace di guardare con sincerità oltre l’etnia e il retaggio culturale, all’altro vittima di un attaccamento ossessivo ai propri possedimenti. La Denis è molto abile a mettere in scena questa contraddizione, concentrando l’attenzione tanto sul volto sofferente di Isabelle Huppert, quanto sui dettagli dei vestiti di lino e dei preziosi di Maria, così come sui dollari con cui questa è disposta a comprarsi il lavoro e il passaggio ai posti di blocco dei ribelli. È il punto di vista da cui racconta la storia a fare problema. Così come la storia di Maria è quella di una donna che implicitamente afferma la sua superiorità sentendo che la riuscita dei propri affari ha importanza maggiore del conflitto civile che la circonda, il conflitto civile messo in scena dalla Denis resta solo meramente pretestuale e delegato a fare da sfondo ideale per una storia che parla di identità (multi)culturali attraverso un unico punto di vista: quello del padrone. Una visione travestita di umanesimo che sotto la volontà di denunciare alcune barriere culturali, finisce col porne di nuove.
Remake del film di Chan-wook Park (2003), liberamente tratto dal manga del giapponese Tsushiya Garon disegnato da Minegishi Nobuaki: 1993, odioso pubblicitario cialtrone, incline all’alcol, pessimo padre e marito, è rapito e rinchiuso in una stanza nella quale resta 20 anni. Nutrito e accudito. Unica compagnia, un televisore dal quale apprende che sua moglie è stata assassinata – unico accusato, lui – e la figlia di 3 anni adottata. Quando riesce a evadere (o così crede) si dedica a scoprire chi e perché gli ha fatto ciò e a vendicarsi. Tremendo finale. Teso thriller, intriso di melò con le fosche tinte di una tragedia greca: sceneggiato da Mark Protosevic, è più lineare e meno grottesco della versione coreana, violento e sanguinario, più realistico nel suo non realismo. Distribuito da Universal.
Preferibile la versione originale di Chan-wook Park ma buona anche questa
Gianni era un bravissimo imitatore con un grande problema psicologico che gli impediva di riconoscersi allo specchio e affermare la propria vera identità. Un problema con radici in un trauma infantile e che, insieme al grande senso di colpa per aver preso parte ad uno schema criminale servendosi del proprio talento vocale, lo ha portato al suicidio. Anni dopo la figlia Giulia indaga sulla morte del padre cercando di scoprirne le ragioni e comincia la sua ricerca dallo psicanalista che aveva in cura Gianni. Ma la ragazza non si limita ad una lettura psicanalitica e, a suo rischio e pericolo, percorre anche la pista delle collaborazioni di suo padre a quel piano criminale che ha coinvolto magistrati e servizi segreti, produttori televisivi e giornalisti, ministri ed escort. La voce narra la storia dark dell’Italia come un B-movie vecchio stile, assai contrastato nei toni, con dialoghi sopra le righe e una fotografia sporca, fatta di primissimi piani e luci di taglio. Una vicenda scritta e diretta da Augusto Zucchi, attore, sceneggiatore e regista teatrale qui al suo lungometraggio di esordio. L’idea di partenza è davvero interessante, perché fa leva su un personaggio che ha segnato la televisione (e la cultura pop) italiana con la sua presenza carismatica e inquietante: Alighiero Noschese, l’imitatore che si è tolto la vita, pare, in seguito ad una profonda crisi di identità. Noschese è davvero un personaggio di grande potenziale drammaturgico, ed è sorprendente l’interpretazione di Rocco Papaleo nei panni dell’imitatore tormentato dal fantasma del suo illustre predecessore. Papaleo mette a frutto la sua versatilità d’artista e la duttilità della sua voce per calarsi nei panni di un uomo-maschera che vive un’esistenza allucinata e straniante misurando per gradi lo scollamento progressivo dal proprio vero sé e la graduale distanza dalle convenzioni di un mondo che lo esclude. Per quanto la messinscena sia eccessivamente artigianale ed eccessivamente caricata (al limite del caricaturale, con l’eccezione di Papaleo), spesso cinematograficamente sgrammaticata e totalmente priva di mezzi toni e sfumature, il risultato è curiosamente disturbante. Chi ha nostalgia dei film complottisti anni Settanta (di grana grossa) e chi è curioso di vedere alla prova il talento drammatico di Rocco Papaleo, con tanto di scena en travesti, è invitato alla visione.
Un film di Sergio Corbucci. Con Jack Palance, Tony Musante, Franco Nero, Giovanna Ralli.Avventura, Ratings: Kids+13, durata 105′ min. – Italia 1968. MYMONETRO Il mercenario valutazione media: 2,50 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Per combattere i regulares chiamati dal padrone di una miniera contro i minatori in rivolta, il rivoluzionario Paco Roman (Nero) assolda il mercenario Serghei Kowalski (Musante) detto il Polacco, ma poi acquista una coscienza rivoluzionaria. Più film d’avventure che vero e proprio western, e con previsti risvolti politici come si conviene a un soggetto di F. Solinas e G. Arlorio. Alto costo, grande spettacolo, attori famosi, un certo ritmo.
In una guerra tra stati senza nome e senza caratteristiche particolari (l’inglese parlato dai personaggi, si spiega all’inizio, è solo una convenzione) i soldati di un fronte atterrano per errore oltre le linee nemiche e dovranno adoperarsi per arrivare sani e salvi nel loro territorio. Per farlo saranno costretti a prendere una ragazza prigioniera, dividersi, viaggiare lungo il fiume e ad un certo punto fermarsi per cercare di uccidere un generale e un capitano nemici. Invisibile per decenni per volontà dello stesso autore, che lo riteneva nulla più che un esercizio di gioventù, il primo lungometraggio di Stanley Kubrick ha cominciato a circolare clandestinamente dopo la sua morte fino a trovare recentemente una vera e propria edizione in Blu-Ray e l’uscita in sala. Non sorprende che siano proprio la guerra e le assurdità che la compongono le tematiche al centro dell’esordio di un regista che ha fatto dell’epopea militare la pietra fondante di una filmografia per il resto estremamente eterogenea (almeno un terzo dei film di Stanley Kubrick riguardano la guerra). A sorprendere semmai è come in Paura e desiderio si trovino già tutte le idee del regista riguardo il conflitto bellico con in più atmosfere esistenzialiste all’epoca sconosciute al cinema di guerra. C’è un nemico incombente ma quasi invisibile (come in Orizzonti di gloria), una totale identità tra i due fronti, la follia che sembra parte integrante della mentalità dei soldati (come in Full metal jacket) e una curiosa maniera di relazionare violenza e sessualità (come in Il dottor Stranamore e in Full metal jacket). Stanley Kubrick mostra di avere le idee chiarissime e una lucidità minimalista nel metterle in scena per nulla comune nei registi giovani. Tuttavia Passione e desiderio lo stesso non è lontano da quel che l’autore diceva di esso. Indeciso su diversi registri, capace di trovate di indubbia efficacia (come la sorpresa dopo l’attentato al generale) ma anche in difficoltà nella gestione dei tempi e dell’equilibrio del racconto, l’esordio indipendente (i soldi per molti versi dovette metterceli anche Kubrick stesso) dopo qualche anno di lavoro come fotografo per la rivista Look, appare oggi come un film anticonvenzionale e molto audace per gli standard del 1954 ma anche un passo più lungo della gamba. Kubrick fa quasi tutto: il regista, il direttore della fotografia e il montatore, mentre la sceneggiatura è dell’amico Howard Sackler (anche scrittore del successivo Il bacio dell’assassino), eppure il film sembra capace di trovare un senso solo grazie al lavoro sulle immagini. Mentre il montaggio non è sempre fluido, sperimentando eccessivamente senza la capacità di mantenere un ritmo e una comprensibilità coerenti, il regista sembra appoggiarsi alla sua più grande abilità dell’epoca, concependo le inquadrature come foto, con i soggetti spesso immobili. Passione e desiderio infatti, meglio ancora dei capolavori da venire, riesce e puntare il riflettore sull’abilità di Kubrick di concepire immagini in grado di parlare più e meglio qualsiasi parola o prova d’attore. Senza sofisticazioni particolari ma con una chiara visione di quello che importa in ogni momento e di cosa in ogni scena sia in grado di colpire, Kubrick mette in scena sequenze audaci come l’approccio alla prigioniera da parte del soldato matto o altre di pura tensione, navigando nell’indecisione fino a che non sopraggiunge un’idea visiva di assoluto livello a risolverle. Idee filmiche e gesti registici di una complessità e di un’inventiva non comuni per un esordiente di 24 anni eppure non sufficienti a sorreggere un film debole dal punto di vista della struttura e dello storytelling.
Dopo 18 anni di assenza Ilin (Ljubšin), camionista che si spaccia per un importante ingegnere, torna a Mosca alla fine degli anni ’50 e passa cinque serate nell’appartamento collettivo di Tamara (Gur&9 enko) con cui vorrebbe ricominciare una nuova vita. “Se soltanto non ci fosse stata la guerra!” è il refrain di un dolente e denso film – tratto dal testo teatrale (1959) di Aleksandr M. Volodin – uno dei migliori di N. Michalkov, figlio dello scrittore Sergej Michalkov e della poetessa Natalija Konçaloskaja, fratello cadetto del regista Andrej Michalkov-Kon&9 alovskij. “È il più alto esempio di scrittura registica delle ultime stagioni sovietiche… una mise en scène d’autore, che spiazza completamente il privilegio di Volodin-sceneggiatore. La drammaturgia è bruciata nella regia…” (G. Buttafava). L’attore A. Adabas’jan ha collaborato alla sceneggiatura e curato la scenografia.
Un film di guerra così non si era mai fatto. È il 1° sulla 92ª Divisione dei Buffalo Soldiers, l’unica dell’intera US Army che durante la guerra 1939-45 – quando furono reclutati 1 milione di cittadini afroamericani adibiti ai servizi nelle retrovie – fece parte della Quinta Armata, impiegata sul fronte italiano e formata da 15 000 fanti agli ordini di ufficiali bianchi, spesso sudisti. Quello dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema (Lucca, 12-8-1944: 560 vittime civili tra cui donne, bambini e il parroco) è solo un episodio nella storia di 4 fanti della Buffalo bloccati, al di là delle linee nemiche, in un paese della valle del Serchio che attraversa la Garfagnana. Uno dei 4 porta con sé un bambino italiano scampato alla strage. Scritto da James McBride (da un suo romanzo del 1993) con Francesco Bruni, è un film corale e complesso, polemico e favolistico. Sullo sfondo storico s’innestano varie storie private. Agli orrori della guerra e alla polemica sul modo con cui erano trattati e mandati al macello i Buffalo Soldiers dai loro superiori bianchi, si alternano episodi di compassione, amicizia, dignità, differenza di pelle e di lingua con la popolazione dell’Appennino tosco-emiliano. Purtroppo è un film riuscito a metà. A una 1ª parte dove quasi tutto funziona, coinvolge e convince, segue una 2ª in cui quasi tutto ha un suono falso, approssimativo, convenzionale e turgido fino a diventare inverosimile e confuso nella battaglia nel paese. Lee ha saputo raccontare con brio gli italoamericani perché li ha frequentati nel Bronx, ma non ha la più pallida idea di quel che sono e soprattutto di quel che erano gli italiani nel 1944. E che dire del finale sdolcinato in riva al mare che si contrappone al fulmineo avvio nell’ufficio postale di Harlem 1983?
Nera, bella, con tre uomini, Lola è una ragazza indipendente e disinibita. Tenta invano di stabilire un amichevole ménage à quatre , ma ogni uomo la vorrebbe solo per sé. Opera prima a basso costo di Lee, è una commedia libertina e tutta black , girata in bianconero con una sequenza a colori. Descrive il quadro di una piccola comunità nera senza demagogia. Belle le musiche di Bill Lee, padre di Spike.
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