Faccendieri ambiziosi e imprenditori rampanti, cortigiane – vergini per niente candide che si offrono al drago, addestrate da molti anni di pubblicità sessiste e trasmissioni strillate – politici corrotti, giullari, acrobate: è il circo che sta intorno a Silvio Berlusconi, nella “rielaborazione e reinterpretazione a fini artistici” messa in scena da Paolo Sorrentino.
A Parigi per la settimana del prêt-à-porter (abito di serie su modello di sartoria) convergono giornalisti, stilisti e curiosi di mezzo mondo. Dalla A di Aiello alla W di Whitaker, sono 31 personaggi (meno dei 49 di Il matrimonio , più dei 24 di Nashville e dei 22 di America oggi ), senza contare le 14 celebrità, da Belafonte a Trussardi, nella parte di sé stessi. Stroncature acide o irritate dai critici di lingua inglese, accoglienze severe o deluse dalla maggior parte degli europei. Divertente, elegante, leggero. Spumeggiante perché il suo oggetto è la spuma, superficiale perché il suo tema è la superficialità, l’epopea dell’effimero. Sotto il vestito niente, e filmare il niente non è facile. L’atteggiamento di Altman verso il mondo della moda è ambivalente: ammaliato perché lo vede come uno spettacolo di circo (puro teatro), ma non può far a meno, dall’alto dei suoi 70 anni, di descriverlo con l’ironia lucida di un profanatore. Il suo vero bersaglio non è la moda, ma il microcosmo che vi gravita intorno. Tutti i personaggi dei media son messi sulla graticola. Con gli altri (compresi i due giornalisti chiusi in camera senza vestiti) si diverte, ma ride con loro, non di loro. Fa eccezione quello di A. Aimée cui è affidata la serietà, un po’ anche la morale della storia con la sfilata a sorpresa delle modelle nude nel sottofinale. L’epilogo all’aperto potrebbe essere di Ferreri: un sorriso o un ghigno?
Anni ’70. Patrizia Reggiani conosce a una festa Maurizio Gucci, rampollo della dinastia Gucci, una tra le piu` celebri nel mondo della moda. Nasce una storia d’amore, dapprima osteggiata dal patriarca della famiglia, Rodolfo Gucci, ma poi arriva il matrimonio e la prole. La sfrenata ambizione della donna, che vorrebbe indirizzare le politiche aziendali del marchio Gucci, la porterà a tessere spericolate strategie, come quelle con lo zio del marito, Aldo Gucci, che incrineranno i rapporti familiari, innescando una spirale incontrollata di tradimenti, decadenza, vendette.
A Sweethaven, villaggio ai bordi del mare, giunge il marinaio Popeye alla ricerca del padre. Lì comanda il misterioso Commodoro e si paga una tassa per tutto mentre il minaccioso Brutus sta per sposare la vezzosa Olivia. Tra Popeye e la fanciulla nasce un’affinità che si consolida quando il marinaio inciampa in un cesto in cui si trova un bambino. Ora Popeye si sente madre di colui che chiama Pisellino la cui sicurezza è affidata a lui e ad Olivia, soprattutto quando il piccolo finirà nelle mani del Commodoro. Nel 1929 Elzie Crisler Segar creava Popeye (da noi trasformato in Braccio di Ferro) che successivamente Dave e Max Fleischer avrebbero portato sullo schermo. Il produttore Robert Evans ha l’idea di trasformare il personaggio disegnato in un eroe in carne ed ossa sulla scia del successo di Superman e Flash Gordon. Lo script viene affidato al corrosivo Jules Feiffer che non trova l’interesse degli interpellati Arthur Penn e Mike Nichols. Si arriva così a Robert Altman che vede nel soggetto la possibilità di fare della popolazione di Sweethaven una metafora della società americana ormai bloccata in avidi atteggiamenti stereotipati in cui irrompe l’ingenua vitalità del marinaio con un occhio solo.
Walter Hill, maestro dei film d’azione, ricrea i temi e le atmosfere tipiche della “frontiera” trasponendole in un’ambientazione suburbana di imprecisa collocazione temporale. Il suo film è un western post-moderno, dove un eroe solitario armato di Winchester e muscoli (Paré) corre al salvataggio della sua bella (Lane), superdiva rock rapita dalla banda di teppisti motorizzati capeggiata dal cattivissimo Raven (Dafoe, che rivedremo in Platoone L’ultima tentazione di Cristo). Non mancano sparatorie, brutti ceffi, inseguimenti e, naturalmente, il duello finale. Il tutto sottolineato da un’eccellente colonna sonora (Ry Cooder tra gli autori).
Altre comiche disavventure del maresciallo di Pane, amore e fantasia, questa volta ambientate oltre confine. Il protagonista vuole rimandare le nozze con la sua promessa e parte con la banda da lui diretta alla volta della Spagna. Qui è preso di mira da una bella indigena e si infatua di una danzatrice; questa però è legata ad un ragazzo, lui allora riparte per il suo paese in nave, ma quando vede sul molo la fidanzata e la bella spagnola preferisce non sbarcare.
Per sposare la levatrice, che è una ragazza madre, maresciallo deve dare le dimissioni. Si rifà vivo, però, il seduttore. Intanto la Bersagliera ha un amore contrastato con carabiniere. Seguito, altrettanto fortunato per successo di pubblico, della commedia strapaesana, con risvolti di amarezza e satira sociale, inventata da Margadonna che qui ha l’aiuto di Eduardo De Filippo. 2° campione d’incasso della stagione dopo Ulisse di Camerini.
Dave Buznik è un bravo ragazzo, abitualmente mite e pacato. La sua unica colpa è quella di aver perso la pazienza durante un volo aereo. Condannato dal giudice per tentata aggressione, Dave è costretto a sottoporsi ad una terapia comportamentale per un migliore autocontrollo. Purtroppo a sorvegliare i suoi prgressi viene chiamato Buddy Rydell (Jack Nicholson), un terapeuta dai metodi alquanto bizzarri e decisamente inadatto al compito… Da quando Woody Allen ha dato l’esempio, Hollywood si è resa conto delle potenzialità comiche del rapporto psicanalista – paziente. L’ennesima variazione sul tema non è purtroppo tra le più riuscite. Non basta mettere insieme due mostri sacri (almeno per il mercato USA) per ottenere un buon risultato. Specialmente se ai due viene data briglia sciolta per nascondere le carenze di uno script anonimo. Tra continui (e a volte insopportabili)gigioneggiamenti e situazioni per lo più risapute, Terapia d’urto è il classico esempio – ahimè sempre più frequente – di commedia brillante che perde lo smalto appena dopo l’inizio: e 106 minuti diventano lunghi. Cameo per John McEnroe, John Turturro, Woody Harrelson e per l’ex sindaco di NY Rudolph Giuliani.
Frank Goode è un ex operaio in pensione e ora vedovo. I suoi quattro figli, che avrebbero dovuto raggiungerlo e per i quali sta preparando una festosa accoglienza, accampando le più diverse motivazioni si defilano. Frank, nonostante il parere contrario del medico, decide che, se loro non possono venire, andrà lui a trovarli facendo loro una sorpresa. Si troverà così a scoprire che le vite di coloro ai quali pensava di avere dato il meglio non sono rosee come gli avevano fatto credere. La regola secondo la quale i remake (soprattutto quelli made in Usa) sono inferiori agli originali abbisogna ogni tanto di un’eccezione. Questo Stanno tutti bene di Kirk Jones rappresenta l’eccezione. Pur seguendo piuttosto fedelmente la sceneggiatura del film di Tornatore, Jones riesce a offrirne una rilettura attuale. Grazie a un De Niro che sfugge periodicamente (e per nostra fortuna) alle commedie ‘alimentari’ che il suo agente gli propone per tirare fuori il suo lato migliore che non è stato indebolito dallo scorrere degli anni. Perché qui la tendenza degli script americani a ‘spiegare’ assume valore quando all’inizio ci viene presentata la vita metodica di Frank, ex operaio con un milione di cavi messi in sicurezza alle spalle. Quel milione di cavi che gli ha consentito di pensare che i suoi figli avrebbero vissuto un American Dream diverso dal suo. Il Frank di De Niro esprime con gli occhi, che stanno diventando sempre più delle fessure, una convinzione che ha costruito con fatica dentro di sé sentendo però nel profondo di stare mentendo a se stesso. La convinzione è quella di aver fatto il suo dovere di padre spingendo i figli a dare sempre di più e, soprattutto, a tenere il fiato sul collo a David il più refrattario e, al contempo, quello che si sentiva più in dovere di realizzare le aspettative paterne. Non si dimentica Mastroianni vedendolo in azione. Ci si accorge invece che quando una sceneggiatura valida viene rivisitata con rispetto e con un cast all’altezza (Rockwell e Barrymore in particolare) non si è fatta solo un’operazione commerciale ma le si è restituita la vitalità. Anche con quella molteplicità di finali che possono costituire il momento più commovente ma anche il più debole. Che qui viene abilmente marcato dall’ambiguità inserendolo nel contesto del Natale, ampiamente retoricizzato dal cinema americano.
Divisa tra la passione erotica per Walter e l’attrazione sentimentale per Andrea, Anna, ballerina in un night-club di Milano, si fa suora in un ospedale quando il 1° è ucciso dal 2°. Film su commissione, prodotto da Ponti/De Laurentiis per la Lux italo-francese, scritto in 6 (G. Berto, F. Brusati, L. Malerba, I. Perilli, D. Risi, R. Sonego), apre _ preceduto da Catene (1949) e I figli di nessuno (1951) di Matarazzo _ il genere del melodramma contemporaneo nel cinema italiano col retroterra del tema cattolico colpa-redenzione, sebbene l’impegno di Anna non sia la ricerca di Dio, ma l’impegno verso il prossimo come infermiera. L’adesione di Lattuada al progetto è stilistica e figurativa (fotografia: Otello Martelli) nel netto contrasto tra bianchi e neri e nella rinuncia quasi totale agli esterni. 1° film italiano a incassare un miliardo sul mercato interno e a essere distribuito doppiato in USA. Brevi apparizioni di Lamberto Maggiorani e Sophia Loren. Tutti i 6 attori del nostro cast sono doppiati. Musiche: Nino Rota. La canzone “El negro zumbòn” di Trovaioli-Giordano fu venduta in single negli USA in un milione di copie.
Da un racconto di Mauricio de la Serna. Due giovani tranvieri di Città del Messico, ubriachi dopo una festa, rubano il vecchio tram n. 133, condannato alla rottamazione, e percorrono le vie cittadine provocando situazioni insolite o grottesche. “Quella che… si apre come un’opera realistica diventa… attraverso una costante negazione della normalità, lo specchio di quella realtà seconda (o surrealtà) che svela l’autentica natura delle cose e degli uomini” (A. Bernardi). Pur penalizzato, come il solito, dal modesto brio degli interpreti, la commedia punge con il suo garbo capriccioso e anarchico.
Film politico collettivo diviso in 11 sequenze con introduzione ed epilogo: 1) “Bomb Hanoi!”; 2) “A parade is a parade”; 3) “Johnson piange”; 4) “Claude Ridder”; 5) “Flashback”; 6) “Camera Eye”; 7) “Victor Charlie”; 8) “Why We Fight”; 9) “Fidel Castro”; 10) “Ann Uyen”; 11) “Vertigo”. 6 registi e 150 tecnici per un film militante _ girato in 16 e 35 mm, prodotto e supervisionato da Chris Marker _ che sposa esplicitamente una tesi, quella contro gli Stati Uniti e a favore del popolo vietnamita. Fu il preludio agli Stati generali del cinema, creati in Francia durante il maggio ’68, e aprì la strada ad altre esperienze collettive di cinema militante che furono fatte in Francia e in altri Paesi d’Europa dopo il ’68 e negli anni ’70. Le sequenze documentaristiche in senso stretto (portaerei americana, Saigon, la giungla, manifestazioni pro e contro la guerra) sono dovute a Ivens, Lelouch, Klein o ad anonimi operatori di cinegiornali. L’episodio più citato (“Camera Eye”) è la confessione di Godard che _ tra paradossi, sincerità, dubbi, incertezze, esibizionismi _ ricalca la tesi guevarista dei molti Vietnam; il più problematico (“Claude Ridder”) è di Resnais-Sternberg che tenta il ritratto di un intellettuale parigino “di cattiva coscienza e dunque di mala fede”. Come organizzatore e impaginatore, il vero autore del film è Marker con la sua visione terzomondista e la sua appassionata utopistica volontà che il Vietnam parli all’Europa.
Berit è una ragazza che è già finita in riformatorio a causa di una difficile vita familiare. I genitori provano una profonda ostilità l’uno per l’altra e la madre ha nei suoi confronti una proiettività priva di amore. La ragazza, dopo aver tentato il suicidio, incontra un marinaio rientrato a Goteborg al quale si concede in breve tempo. L’uomo è tentato di non rivederla ma poi inizia con lei una relazione che la spinge a confidarsi raccontandogli un passato che suscita la sua gelosia retroattiva. Giunto alla sua quinta regia Bergman mostra qui una particolare attenzione al cinema neorealistico italiano. Rossellini sembra essere la sua fonte d’ispirazione in un film in cui gli esterni sono soprattutto dedicati a mostrare la quotidianità del lavoro in una città portuale. Questa scelta favorisce una riflessione che, partendo dalla vita di coppia e dai sentimenti (o dalla loro distorsione), si apre a una denuncia dell’assetto sociale di una società come quella svedese considerata da molti in Europa come un modello. I primi ad essere sottoposti alla lente d’ingrandimento sono i servizi sociali e coloro i quali si occupano delle giovani da ‘redimere’. Ne viene rilevata la scarsa attenzione nei confronti della ricerca delle cause di ciò che viene considerata devianza in favore di una rigida applicazione delle regole. Ciò su cui però decide di appuntare con forza la propria critica è il doppio regime in materia di aborto. Berit avrà modo di denunciare esplicitamente che l’aborto clandestino viene praticato a due livelli: quello garantito e in guanti bianchi per i ricchi e quello a rischio della vita per chi non si può permettere i costi del primo. Il finale è di quelli a doppia lettura: apparentemente posticcio e troppo solare lascia comunque aperta una domanda nello spettatore sul futuro dei due protagonisti che restano comunque dei soggetti non allineati al conformismo del tempo.
I subita sono stati tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni.
Girato da Buñuel in un momento di transizione, questo film è uno dei meno noti e riusciti del grande regista. Valerio, medico condotto in Corsica, deve difendere un amico, Renzo. Costui, cacciato dal fondo che lavorava, ha perso la moglie stroncata della fatica e si è vendicato uccidendo il ricco padrone.
L’audio nella versione italiano non è granché purtroppo.
Un bandito, d’una ferocia così esagerata da apparire quasi comica, rapisce una ragazza. Un commissario, altrettanto violento, non riesce ad incriminarlo.
Francia, anno di grazia 1123. Goffredo, nobile cavaliere, uccide incosapevolmente il padre della donna che ama. Avrà la possibilità di rimediare all’errore ingerendo una pozione magica che lo porterà indietro nel tempo quel tanto che gli consenta di rimediare al tragico errore. Per l’eccessiva dose ingoiata il cavaliere si ritrova invece, con il suo scudiero, 900 anni dopo. Di fatto ai nostri giorni. A contatto con la civiltà moderna e le sue storture, il cavaliere avrà più di una sorpresa, ma riuscirà a tornare infine ai suoi bei dì e a salvare in tempo il padre dell’amata. Una trama non originalissima, mutuata da Wells e da un racconto di Mark Twain, che in Francia ha battuto ogni record d’incassi. E per quanto il doppiaggio sottragga al divertimento originale, il successo risulta incomprensibile. Un film baciato dalla sorte, ma che presso il nostro pubblico non ha sortito alcun effetto. La regia non ha ritmo sufficiente e i personaggi sono francamente poco simpatici.
Nella campagna del Drôme una donna con sette figli manda avanti una piccola fattoria. Appartiene a un duro capitalista rurale che ha, poco distante, un’altra fattoria e una famiglia ufficiale con due figli già grandi. Questa nuova Madre Courage, dolce, forte, ma vulnerabile, è così stanca della vita da essere tentata di farla finita. 1° lungometraggio di S. Veysset che l’ha anche scritto, premio Delluc in Francia, scandito sul ritmo lento di 3 stagioni, dall’estate all’inverno, è un film molto fisico che mescola con originale finezza fiaba e visione realistica del lavoro e della campagna, evitando le trappole del melodramma, del miserabilismo agreste, del sanguinoso fatto di cronaca. Storia patetica senza sentimentalismo. Film sull’amore materno raccontato come un’arte. Il modo con cui la svizzera D. Reymond, attrice di teatro, si è calata nel suo personaggio di contadina ha del miracoloso. Dedicato “Alle stagioni che passano e agli spettatori che restano”.
A bordo di un’immensa astronave che si divide in più piccole ma sempre gigantesche (26 km di diametro) basi spaziali semoventi, gli aggressori galattici cominciano a devastare Washington, New York, Los Angeles. Grazie a un giovane scienziato ebreo il 4 luglio, anniversario dell’indipendenza (1776) dagli inglesi, gli americani passano al contrattacco. Fantacolosso manicheo fondato sull’estetica dell’accumulazione e sulla simbiosi di vari generi con 54 citazioni di film di ieri e dell’altroieri. I pacifisti e i mistici dell’ecologia sono derisi. L’ottimismo, il patriottismo, il politicamente corretto, tutti americani a 18 carati, sarebbero nauseanti se non sforassero spesso nel ridicolo involontario. Intermezzi comici tristanzuoli, effetti speciali con poco di speciale. Film americocentrico in cui il resto del mondo sembra Albania. “La tentazione di ribattezzare il film Incontri ravvicinati del Terzo Reich è forte” (P. Cherchi Usai). Costato 70 milioni di dollari (+ 20 per il lancio), fu un successo planetario.
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