Scoppia una guerra atomica. La famiglia Baldwin, che aveva lasciato Los Angeles per una vacanza, vive giorni di terrore, alla ricerca di un rifugio sicuro, in una situazione disperata dove prevale la legge del più forte. 4° dei 5 film, e uno dei più interessanti, diretti dall’attore Milland, in linea con la SF americana, assai sensibile negli anni ’60 alla minaccia di un conflitto atomico. La prima parte è la migliore.
James Miller, un noto saggista, presenta a Firenze il suo ultimo libro intitolato «Copia conforme» nel quale sostiene che le copie abbiano un valore intrinseco superiore all’originale. Lei, una piccola mercante d’arte, assiste con il figlio alla presentazione e poi fa in modo di conoscere l’autore per fargli firmare alcune copie. Il giorno successivo, domenica, lo accompagnerà a Lucignano per ‘mostrargli una sorpresa’. Mentre i due si trovano in un piccolo locale e lui è uscito per rispondere a una telefonata, la proprietaria allude a loro come a una coppia sposata e Lei sta al gioco. Gioco che proseguirà anche al rientro di James. Alla non più tenera età di 70 anni (portati peraltro benissimo) è nato un nuovo Kiarostami. Se ne era avuta una prima avvisaglia nell’incerto episodio di Ticketsma oggi, dopo il teorico Shirin, ne abbiamo una piacevolissima conferma. Intendiamoci: il pluripremiato e osannato dalla critica (che a Cannes è sembrata oltremisura spiazzata) non ha affatto smesso di interrogarsi sulla natura umana e non ha neppure rinunciato a una ricerca stilistica. Ha però scelto una modalità diversa di approccio. Ha deciso cioè di compiere ancora, come spesso è accaduto nel suo cinema, un viaggio che comportasse non solo uno spostamento fisico nello spazio ma un percorso, talvolta doloroso, nelle psicologie dei personaggi. È quanto accade anche questa volta ma con una leggerezza e una voglia di ‘giocare’ (non dimentichiamo mai che in francese e in inglese recitare diventa ‘to play’ e ‘jouer’) con un doppio livello di rappresentazione.
Nel film si recita ovviamente (brava, ça va sans dire, Juliette Binoche ma altrettanto efficace il baritono prestato al cinema William Shimell) ma gli stessi personaggi, da un certo punto in avanti ‘recitano’ il ruolo di una coppia sposata da quindici anni. Ne nasce un’ analisi di speranze, illusioni e disillusioni che attraversano tante ‘cop(p)ie conformi’ sullo sfondo di una Toscana che diviene a sua volta protagonista. Kiarostami ha deciso di girare un film non ‘alla Kiarostami’. Viva Abbas
Celestina sembra un’efficiente donna di affari, ma in realtà dirige una casa di appuntamenti. Denunciata, se la cava grazie all’intervento di potenti politici. A. Noris torna al cinema dopo vent’anni di assenza e firma il soggetto e la produzione di questa allegra commedia a risvolti satirici che il più delle volte mancano il bersaglio. Ispirata alla lontana a La Celestina (1499) di Fernando de Rojas.
La guerra di Troia, dal rapimento della bella moglie di Menelao fino all’incendio. L’impostazione è filotroiana con Elena onesta, sposa malmaritata, Paride eroicizzato, atleta senza macchia né paura che tende all’apertura a sinistra, capace di mandare al tappeto un marcantonio come Aiace. Ulisse: scettico pacifista. Achille: un bullo. Gli Atridi fanno la peggior figura. Colosso Warner Bros girato a Cinecittà. Tolte poche scene di massa, gestite da Yakima Canutt (e da Raoul Walsh non accreditato), sembra diretto da Wise soltanto per ritirare la paga. Record degli strafalcioni storici concentrati in una sola scena: quella in cui Paride presenta Elena a Priamo.
Cantante famoso va ad Amalfi per alcune esibizioni e trova che la precedente visita di un suo sosia gli sta creando non pochi problemi. Chiarito l’equivoco, va in vacanza a Capri, dove l’attende una sorpresa. Una commedia umoristica fatta su misura per le poche, innegabili doti del “molleggiato nazionale”, che interpreta molto bene sé stesso.
La prima informazione utile per lo spettatore è che questo NON è il seguito de Il Patto dei lupi, sgangherata ma divertente pellicola di qualche anno fa. Altra informazione utile è che questo L’Impero dei Lupi è altrettanto sgangherato ma meno divertente. Scritto da Jean-Christophe Grangé, autore dei due I Fiumi di Porpora e di Vidocq, L’impero dei lupi è il classico thriller/action/horror in salsa transalpina, che nulla aggiunge e nulla toglie alla pluralità di generi cui appartiene. La regia di Chris Nahon è tutto sommato valida, il ritmo ed il montaggio serrati, ma la storia pecca di credibilità e pathos, ricorrendo troppo spesso a soluzioni grandguignolesche per distrarre il pubblico da carenze gravi riscontrabili sia in sede di dialoghi (banali) che di sceneggiatura (poco credibile). Il cinema francese dà il peggio di sé quando cerca di imitare Hollywood e non riesce nemmeno ad ottenere gli stessi, scarsi, risultati: le scene action tendono ad essere davvero troppo “finte” e coreografate e la disamina del mondo dell’immigrazione clandestina è troppo superficiale e frettolosa. A salvare il film dalla totale insufficienza ci sono le performances dei tre protagonisti, in modi diversi, tutte positive: Reno è oramai “lo sbirro” per antonomasia, ma è sempre gradevole a vedersi, la Morante, dotata di indiscusso fascino, per una volta non è in lacrime, ma volitiva e tenace, e Arly Jover rappresenta una piacevole sorpresa di cui sentiremo ancora parlare. Film di genere, come il cinema italiano non sa o non vuole più fare da anni, è consigliabile solo per una serata di intrattenimento “a cervello spento”.
L’archeologo George Hacker compie importanti scavi in Egitto, riportando alla luce antichi reperti. Nel frattempo la moglie fotografa Emily e la piccola figlia Susie si godono le bellezze della zona. Ma una misteriosa mendicante cieca dà a Susie un amuleto, accompagnandolo con una frase minacciosa: “Le tombe sono dei morti”. George invece penetra in un’antica tomba dove, precipitato in un trabocchetto, entra in contatto con qualcosa di soprannaturale rimanendone accecato sia pure solo, prevede l’oculista, per alcuni mesi. Tornati a casa a New York, dove c’è anche il figlio più piccolo Tommy, la vita familiare comincia presto a complicarsi: George è seccato per la sua temporanea cecità e Susie si comporta stranamente, coinvolgendo il fratellino.
George sorprendentemente torna a vedere prima del tempo e, preoccupato, decide di scoprire la verità su ciò che ha visto nella tomba maledetta, che è quella di Abnubenor, il dio del male. Ma le cose precipitano in un vortice di orrore con la stanza dei ragazzi che sembra essere diventata una misteriosa porta di collegamento spazio-temporale con l’Egitto. Forse solo l’intervento dell’occultista Adrian Marcato può risolvere il problema. La possessione demoniaca sprigionata da scavi archeologici e trasportata in una metropoli americana richiama L’esorcista e il titolo (oltre che il nome di uno dei personaggi) richiama Rosemary’s Baby, ma la storia più che all’horror demoniaco guarda a quello cosmico lovecraftiano, come denota anche la citazione che apre il film. Ci sono aspetti promettenti e originali, ma la vicenda si incarta in uno sviluppo di maniera nel quale gli spunti migliori – i “viaggi”, il collegamento nello spaziotempo – sono sottoutilizzati. Il ritmo è inoltre piuttosto lento e poco coinvolgente. Gli avvenimenti si accumulano in modo programmatico senza generare sufficiente suspense, alla ricerca di facili effetti momentanei. Fulci, in una prova decisamente minore, non riesce a dare vita e tensione agli avvenimenti. Il suo stile resta inconfondibile, ma qui il regista è poco ispirato: per generare apprensione infila una serie smisurata di primissimi piani di occhi preoccupati e per scuotere gli spettatori utilizza a profusione urla raccapriccianti. I risultati sono modesti. Il talento visionario di Fulci si sprigiona solo raramente, trovando immagini adeguatamente suggestive solo nel truculento assalto finale. La sceneggiatura pone più enigmi e quesiti di quanti ami risolvere e l’insieme è, per un film di Fulci, insolitamente fiacco. La musica di Fabio Frizzi è sin troppo preponderante anche in momenti in cui non sarebbe necessaria, ma era lo stile del momento. Nel cast più che il monolitico e monocorde Christopher Connelly si fa apprezzare la sensibile Martha Taylor (alias Laura Lenzi). La piccola posseduta è Brigitta Boccoli, futura star televisiva.
Una bella donna, moglie di un avvocato, confida al suo psichiatra di aver sognato che ammazzavano una sua vicina di casa. Qualche giorno dopo la vicina viene ammazzata davvero.
Un commissario governativo e scrittore si reca con il fratello a Dawson City per documentarsi sui cercatori d’oro nel Klondike. I due sono accompagnati da una guida indiana che ha con sé il figlioletto e il lupo Zanna Bianca. Un losco avventuriero, notate le straordinarie qualità dell’animale, non esita a uccidere la guida indiana per impadronirsene, facendo poi anche altre vittime. Nella lotta contro il malvivente, alla fine comunque avrà la meglio il commissario.
Un film di Agnès Varda. Con Michel Piccoli, Marcello Mastroianni, Julie Sayet Titolo originale Les Cent et une nuits de Simon Cinéma. Commedia, durata 100 min. – Francia, Gran Bretagna 1995. MYMONETRO Le cento e una notte (di Simon Cinéma) valutazione media: 2,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Girato dalla regista Varda durante il centenario del cinema, il film delude non poco. Una ragazza appassionata di cinema deve tenere desta l’attenzione di Monsieur Cinema mentre viene realizzato un film indipendente. Tra i numerosi camei troviamo: De Niro, Depardieu, Belmondo, Delon, Jeanne Moreau e Anouk Aimée.
Dopo alcuni anni nel carcere di San Quentin per omicidio l’ex combattente Roy Tucker (G. Hackman) viene fatto evadere e ospitato in una villa dove ritrova la moglie (C. Bergen). Gli si propone, in cambio dell’ottenuta libertà, di assassinare un importante uomo politico. Se rifiuta, ne andrà di mezzo la moglie. Epilogo tragico. Tratto da un romanzo di Adam Kennedy, è un altro film sulla sindrome del complotto, assai diffusa _ almeno al cinema _ negli anni ’70, con obliqui rimandi all’assassinio di John F. Kennedy e riferimenti espliciti a misteriose organizzazioni di cui la delinquenza organizzata sarebbe soltanto una delle componenti. A qualsiasi livello, è indifendibile.
Un film di Larry Charles. Con Sacha Baron Cohen, Pamela Anderson, Ken Davitian Titolo originale Borat: Cultural Learnings of America For Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan. Commedia, durata 84 min. – USA 2006. – 20th Century Fox uscita venerdì 2marzo 2007. – VM 14 – MYMONETRO Borat – Studio culturale sull’America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan valutazione media: 2,33 su 231 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Irriverente, sovversivo, oltraggioso. Borat Sagdiyev è un reporter kazako in viaggio negli Stati Uniti d’America per girare un documentario che riprenda le usanze e i costumi del nuovo mondo, per poi riportare la preziosa e fedele testimonianza al suo paese. Misogino, antisemita e razzista, semina il panico e lascia il segno a ogni suo passaggio, scardinando di volta in volta le certezze e le ipocrisie di una cultura carica di pregiudizi e oscenità. Dal creatore di Ali G., Sacha Baron Cohen, un film che promette di far ridere a crepapelle dall’inizio alla fine della pellicola. Su un carrettino di gelati, insieme al suo goffo collega, Borat viaggia in lungo e in largo negli States alla ricerca di qualcuno che gli indichi le buone maniere, lo stare in società, ma soprattutto la strada per raggiungere il suo obiettivo unico e solo: incontrare l’eroina del suo telefilm preferito.
Un giovane sottrae una ragazza a un mascalzone che organizza la tratta delle bianche. Costui per vendicarsi fa arrestare il rivale. La poverina, incinta, muore dopo aver partecipato, per ottenere qualche soldo, a una massacrante maratona di danza preparata dal cattivo. Il giovane fugge dal carcere: ucciderebbe il cattivo se non intervenisse la polizia.
Due leggendari clan ninja rivali, entrambi esperti nelle arti segrete dello shinobi, sono costretti con l’inganno dal sovrano dei sovrani a tornare in guerra, affinché si distruggano a vicenda e non possano più costituire, con il loro terrificante potere, una minaccia per gli equilibri dell’impero. Un mini-kolossal d’azione dagli effetti imponenti e dall’animo garbato, questo è Shinobi. Intrattenimento stile manga-videoludico e tendenza all’epico, tipicamente giapponese, trovano qui un sodalizio fruibile, ricordando da vicino per atmosfere il successo fantasy di Hong Kong The Storm Riders. Amore, odio e guerra: non tutto fila, tra geometrie di ragionamento spicciole e dissertazioni filosofiche usa e getta, ma con il giusto filtro mentale, orientato al faceto, la visione potrebbe risultare piacevole.
Un film di Hyun-seung Lee. Con Jung-Jae Lee, Ji-hyun Jun, Mu-saeng Kim, Seung-Yeon Jo Titolo originale Si Wall Ae. Commedia rosa, – Corea del sud 2000. MYMONETRO Il mare valutazione media: 2,00 su 1 recensione.
Abbandonati gli studi di architettura a un passo dalla conclusione, Han decide di trasferirsi nella casa che il padre, famoso architetto, ha disegnato per lui. L’abitazione, ribattezzata dal giovane “Il Mare”, sorge su una spiaggia isolata, luogo ideale per mettere ordine tra i pensieri. Primo abitante della casa, Han troverà nella cassetta delle lettere la missiva di una donna, Kim, che sostiene di aver abitato “Il Mare” prima di lui. A seguito di una lunga corrispondenza, i due realizzeranno che in realtà Kim ha abitato la casa dopo Han, e che la cassetta delle lettere altro non è che una finestra temporale tra il 1998 e il 2000, anno da cui la donna invia le proprie missive. Lo sfiorarsi di due solitudini in circostanze tanto bizzarre porterà i due ad avvicinarsi fino a cercare l’incontro, ostacolato dai due anni che li separano. La fornace cinematografica coreana conferma ancora una volta il proprio standard di ineccepibile appeal visivo e qualità tecnica, dando vita a un prodotto contraddistinto da fotografia eccezionale, cast di buon livello e regia diligente. Con un concept a metà tra C’è Posta per Te e Frequency, Siwurae presenta una vicenda romantica immersa tra le pieghe del tempo, che porta con se forti influenze del tradizionale melò coreano ravvivate da un contesto anomalo, non nuovo per il panorama sud-coreano contemporaneo. A colpire nel segno svariati spunti interessanti costruiti sul postulato di base, viziati però da un contesto orientato al poetico-commerciale, in cui ci si affanna a sfruttare le potenzialità di situazione dell’idea cardine senza curare in modo adeguato lo sviluppo di quest’ultima.
Un film di Baltasar Kormákur. Con Gunnar Eyjólfsson, Hilmir Snær Guðnason, Hélène De Fougerolles, Kristbjörg Kjeld Titolo originale Hafid (The Sea). Drammatico, durata 109 min. – Norvegia 2002. MYMONETRO Il mare [2] valutazione media: 2,25 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
In uno sperduto villaggio islandese i vecchi pescatori stanno cedendo il passo alle multinazionali per lo sfruttamento del fondale marino. Thordur, vecchio patriarca di una delle compagnie locali, rifiuta di arrendersi.Il regista è famoso in patria in ambito teatrale.Qui mescola con mestiere malinconia e umorismo ‘nordici’.
La storia è quella di due fuorilegge reduci da un colpo (dove hanno indossato, a bella posta, divise da ufficiali nordisti). Durante la fuga s’imbattono in una carovana, i cui componenti li scambiano per autentici militari e affidano loro il comando. Uno dei fuorilegge s’immedesima nel ruolo e porta in salvo un convoglio a Forte Alamo. L’altro invece non si ravvede: il suo compare buono dovrà ammazzarlo.
Un film di Sidney Lumet. Con Diana Ross, Michael Jackson, Nipsey Russell, Ted Ross, Mabel King. Titolo originale The Wiz. Commedia musicale, Ratings: Kids+13, durata 133 min. – USA 1978. MYMONETRO I’m Magic valutazione media: 2,00 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Tratto dal libro e dalla commedia musicale di L. Frank Baum, la storia di Dorothy (Diana Ross) nel fantastico mondo di Oz insieme ai suoi amici: lo spaventapasseri (un non ancora famoso Michael Jackson), l’uomo di latta e il leone. Il film è il più costoso musical mai realizzato, ma non regge il confronto con Il mago di Oz di Fleming (’39) con la quindicenne Judy Garland.
Indagando sull’impiccagione di una ragazzina, la polizia arriva a una organizzazione di giovanissime squillo con molti clienti d’alto rango. Gli italiani non brillano nel poliziesco, ma è grave, come in questo caso, quando per parlare di violenza si fa violenza, per criticare gli orrori si mostrano orrori senza il filtro di un linguaggio, di uno stile, dunque di un’etica.
Una banda molto agguerrita, comandata da un gangster di origine francese, ha steso una rete fittissima di ricatti e intimidazioni sui commercianti e i gestori di locali notturni romani. Dopo aver tentato di combatterla con le vie legali, un commissario guida un manipolo di disperati in una imboscata ai pezzi grossi della gang. Massacrogenerale.
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