Caccia grossa, ma senza fucili, in Tanganika per cacciatori bianchi che devono rifornire gli zoo. L’equilibrio del piccolo gruppo maschile è turbato dall’arrivo di una fotografa italiana (Martinelli) che s’innamora del ruvido capo (Wayne). Lui la ricambia, ma non vuole ammetterlo. Critici e spettatori ottusi gli rimproverano di non avere una vera storia. Come se fosse indispensabile per fare un buon film. Hatari! è ottimo nella sua rara miscela di emozionante racconto di avventure percorso da una costante brezza di umorismo che qua e là diventa irresistibile buffoneria. Scritto da Leigh Brackett, è un compendio del cinema di Hawks e dei suoi temi: un piccolo gruppo di uomini, legati da una fraternità solidale e dal comune amore per il mestiere; la guerra dei sessi che si risolve con l’apparente vittoria del maschio; l’internazionalismo; l’ironia e l’umorismo che cementano, insaporendola, l’amicizia; l’elogio del professionismo. Molte sequenze, comprese quella della caccia al rinoceronte, sono girate dal vero senza trucchi né controfigure. È un film di amici, tra gli amici, per gli amici. Un Hawks a 18 carati. Musiche frizzanti di Henry Mancini.
Harry e Sally s’incontrano tre volte nell’arco di dieci anni e lui ogni volta ci prova, ma non va. Poi diventano amici e un bel giorno finiscono a letto insieme. Da una sceneggiatura, scritta da Nora Ephron, abile, non troppo originale ma ricca di battute frizzanti, R. Reiner, figlio di Carl, ha cavato una piacevole commedia a tratti davvero divertente, con due bravi protagonisti, belle musiche (Berlin, Gershwin e Goodman) e qualche strizzata d’occhio a Woody Allen e Blake Edwards.
Toshio assume Yasaka, appena uscito dal carcere, nella sua piccola officina. Convivendo con Toshio e la sua famiglia, Yasaka si fa strada a poco a poco nelle simpatie della piccola Hotaru e la aiuta a imparare a suonare l’harmonium. Dopo qualche tempo Toshio comincia a sospettare che ci sia una complicità tra sua moglie Akie e Yasaka, mentre quest’ultimo impercettibilmente rivela di serbare del rancore nei confronti di Toshio, legato a misteriosi eventi del passato. L’instabile equilibrio è destinato ben presto a crollare.
Un film di John Woo. Con Chow Yun-Fat, Anthony Wong Titolo originale Lashou Shentan. Poliziesco, durata 125 min. – Hong Kong 1992. MYMONETRO Hard Boiled valutazione media: 3,17su 5 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Durante un’azione di polizia in una sala da tè, perde la vita un agente amico di Tequila (Chow Yun-fat). La sete di vendetta di quest’ultimo lo porterà involontariamente a ostacolare i piani dell’agente Alan (Tony Leung), infiltrato nell’organizzazione del sadico trafficante d’armi Johnny (Anthony Wong). The Killer rappresenta il lirismo dello heroic bloodshed, A Better Tomorrow la componente più melò ed essoterica,A Bullet in the Head il lato più politico e nel contempo personale; ma se si cerca la summa del cinema d’azione duro e puro secondo John Woo occorre rivolgersi a Hard Boiled. Nonostante le ingenuità di sceneggiatura e gli eccessi, è evidente sin dalla prima di una lunga serie di coreografie action, la sparatoria nella sala da tè, che Hard Boiled rappresenti una sfida lanciata da Woo a se stesso, per verificare fin dove è possibile alzare l’asticella dell’action movie, aggiornando la lezione di Siegel e Peckinpah alle esigenze, in termini di sangue ed energia cinetica, di fine millennio. La balistica dei proiettili e le evoluzioni aeree dei contendenti sono esaltate da coreografie impensabili (la morgue o una sala da tè usati come corpi cinematografici funzionali allo shoot-out, immobili in un contesto in cui uomini e macchina da presa sono acrobati in perenne movimento), che portano alle estreme conseguenze l’invincibilità di eroi e malvagi e la sostanziale inesauribilità dei proiettili. Se i villain sono autentiche caricature, con Philip Kwok nei panni del killer spietato e infallibile e l’eclettico Anthony Wong in quelli del boss psicopatico Johnny, è il lavoro sugli eroi a esaltare la concezione del mondo e dei rapporti umani secondo John Woo. Tequila è uno dei personaggi più emblematici di Chow Yun-fat, nel contempo umile sergente che preferisce l’arte (il clarinetto) e il disimpegno (nelle relazioni) alla carriera, ma che è immediatamente disposto a sacrificare la vita per assicurare i criminali alla giustizia o per vendicare un amico; impagabili i siparietti con un barista ex-poliziotto interpretato da Woo stesso e che – ovviamente – incarna alla perfezione gli ideali del regista. Ma ancor più suggestivo di Tequila è il personaggio di Tony Leung Chiu-wai, il cui approccio minimalista contrasta con la recitazione sopra le righe di Chow e Wong; è dal contrasto stridente tra gli stili recitativi che viene evidenziata la peculiarità di una psiche complessa (o comunque più complessa della media Woo) come quella di Alan, scissa tra personalità multiple e contrastanti: oggi killer implacabile delle triadi e domani poliziotto pronto a tutto pur di mettere fine al racket di Johnny. Un anticipo del tema sull’identità su cui Alan Mak costruirà la trilogia intera di Infernal Affairs. Metafore come il richiamo a Shakespeare – quintessenza del dubbio – sono semplici e dirette, ma è il linguaggio che Woo meglio conosce per esporre la propria etica. Quando ricorre alle parole, naturalmente; per il resto c’è pur sempre il piombo.
Il samurai Hanshiro si reca presso la casa del clan Ii, che ha a capo il ricco Kageyu, per chiedere l’autorizzazione a commettere suicidio rituale. Kageyu lo informa che ormai accade sempre più spesso che ci siano samurai in povertà che fingono di volersi suicidare solo per poter accedere alle case dei ricchi per chiedere aiuto in denaro. Gli racconta così la vicenda di un giovane samurai, Motome, il quale aveva avanzato la stessa richiesta per poi rivelare di aver bisogno di un aiuto per curare la moglie ammalata e il figlioletto morente. Il clan lo aveva costretto a morire di una morte atroce perché obbligato a suicidarsi con la spada di bambù che aveva sostituito quella metallica venduta per bisogno. Hanshiro ascolta ma poi mostra di conoscere bene quella storia. Non tutti i remake vengono per nuocere, si potrebbe dire dinanzi a questa opera di Takashi Miike che riprende un film degli Anni Sessanta.
La storia è molto semplice. I protagonisti si amano, emigrano in Argentina, si lasciano e si ritrovano fino a che uno dei due decide di fare ritorno ad Hong Kong. Ciò che rende interessante il film è che, nei panni dei due protagonisti, troviamo due attori divenuti famosi grazie a film d’azione. C’è poi la regia, sempre estremamente attenta all’uso del mezzo, di Wong Kar-Wai che ci trasmette l’inumanità di un mondo che non riesce ad accogliere l’umanità disperata che lo abita.
Una famiglia dell’alta borghesia a Calais. Il padre è il fondatore di un’azienda che ora è guidata dalla figlia e dal riottoso nipote. I due debbono risolvere il problema di un grave incidente che ha causato una vittima. Al contempo il fratello di lei, passato a seconde nozze, ha problemi con la figlia di primo letto che viene a vivere con lui dopo il ricovero della madre. Intorno a loro il Mondo che affronta ogni giorno altri tipi di problematiche.
Una fotomodella viene trovata uccisa e il giovane tenente che si occupa delle indagini perseguita uno degli amici della ragazza, Steve. Tanto accanimento non è naturale e Steve, rischiando ad ogni passo di finire in prigione, risale all’amicizia che legava l’uccisa al poliziotto. In quel legame sta il filo della matassa.
Claude va a New York per arruolarsi nei Marines che vanno in Vietnam. Nel Central Park fa amicizia con una combriccola di ragazzi e trascorre con loro i due giorni che lo separano dalla partenza. Tra di essi c’è Sheila, della quale Claude s’innamora. Per consentire a Claude di rivederla, George organizza un’incursione a casa di certa gente, dove appunto si trova la ragazza. Finiscono tutti in gattabuia, ma per poco. Poi Claude parte per il campo-addestramento. George lo raggiunge al campo con la ragazza e si sostituisce all’amico per permettergli di stare con la fanciulla. Andrà a finire che sarà George a partire per il Vietnam. Trasposizione cinematografica della nota commedia musicale messa in scena per la prima volta nel 1967.
Moon-kyung è un regista donnaiolo, o forse solo uno che si fa credere tale. Con l’amico critico Joong-sik rievoca il loro incontro di anni prima. Ma i due non sanno quanto quel giorno abbia cambiato le loro vite
Morto il papa, a sorpresa i cardinali in conclave eleggono il francese Melville che accetta, ma al momento di affacciarsi al balcone di San Pietro urla la sua angoscia. Si convoca d’urgenza l’illustre psicoanalista Brezzi, ma l’eletto non cambia idea, anzi, in borghese sfugge alla sorveglianza della scorta, gira per Roma e cerca sé stesso. Lo recuperano in un teatro mentre assiste alla messinscena del Gabbiano di &8 echov. Prodotto dall’autore (Sacher) e da Procacci (Fandango), scritto con Francesco Piccolo e Federica Pontremoli, il 12° di Moretti, storia di una fuga impossibile, è un film complesso e stratificato. Mescola tragedia e commedia, generosità e melanconia, metafore e rimpianti, pessimismo e speranza, trovate geniali (nessuno tra i cardinali vuole essere eletto) e momenti banali, il senso del vuoto e la scissione tra Maschile e Femminile. Ha il suo atout in Piccoli, un’interpretazione memorabile, e collaboratori ineccepibili tra cui Alessandro Pesci (fotografia) e Paola Bizzarri (scene) che ha ricostruito gli interni del Vaticano in teatro. È forse il più importante, sicuramente il più ambizioso film di Moretti, ma non il più riuscito perché viziato dal suo narcisismo, quello per esempio che gli fa trascurare l’ex moglie psicoanalista di Brezzi e lo fa dilungare troppo nel torneo di pallavolo. 3 David di Donatello: attore protagonista (Piccoli), scenografo (Bizzarri), costumista (Lina Merli Taviani).
Yasuko, Yoichi, Koichi e Bill sono quattro studenti delle scuole superiori che cercano di sfuggire, indulgendo nel sesso di gruppo, a uno schiacciante senso di alienazione che li allontana dal mondo intorno a loro, tutto per vedere se siano in grado di emanciparsi dalle corruzioni della società adulta. Dopo aver rivelato di aver avuto una relazione con la sua insegnante, Yasuko si sente come una prostituta, perché è come se avesse ridotto il sesso a una transazione economica piuttosto che a qualcosa che ha a che fare con il piacere. Inizia allora un’odissea che ha come obbiettivo l’esplorazione di sé.
Un film di Harmony Korine. Con Jacob Reynolds, Nick Sutton, Lara Tosh, Jacob Sewell, Darby Dougherty, Chloë Sevigny, Carisa Glucksman, Jason Guzak, Casey Guzak, Wendall Carr, James Lawhorn Drammatico, durata 89 min. – USA 1997. MYMONETRO Gummo valutazione media: 2,73 su 19 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Xenia. Ohio. Una cittadina di provincia è stata sconvolta dall’uragano Gummo. Il protagonista è un giovane ragazzino, contaminato dall’amoralità dei mostri che vivono intorno a lui e con i quali interagisce. Fuma e piscia sopra un cavalcavia con in testa orecchie da coniglio, uccide gatti insieme ad un amico per venderli ad un ristorante cinese e comprarsi della colla da sniffare, si lascia lavare dalla mamma in una vasca di acqua putrida, mentre mangia degli spaghetti. Tra puttane extralarge, down e pervertiti, il film è uno spaccato, tanto disordinato quanto potente, della normale vita disgustosa dei “white trash”, i coatti americani. Colonna sonora ricca di perle heavy-metal anni ottanta. Una sorta di documentario senza logica, dove la ricerca visiva, affascinante nel degrado, riesce a coinvolgerti oltre i limiti di una narrazione poco convincente. Esordio alla regia di un autore che si presenta subito come unico.
Un film di Jacques Becker. Con Jean Gabin, Delia Scala, Lino Ventura, Vittorio Sanipoli, Jeanne Moreau. Titolo originale Touchez pas au grisbi. Drammatico, b/n durata 94′ min. – Francia 1954. MYMONETRO Grisbi valutazione media: 3,67 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Due gangster, vecchi amici, vogliono chiudere la carriera con un grosso colpo. Una ragazza rivela a un rivale il progetto. Raro film nero dove il ritmo spedito dell’azione coabita con la finezza dell’analisi psicologica. Un’elegia sull’amicizia virile nel mondo della malavita. Da un romanzo (1953) di Albert Simonin. Becker filma con grande discrezione senza concessioni allo spettacolo né dialoghi brillanti. La musica di Jean Wiener contribuisce all’atmosfera.
Un aspirante giornalista americano di nome Matt, espulso ingiustamente da Harvard, decide di voltare pagina raggiungendo la sorella a Londra. Appena sbarcato nel vecchio continente, Matt si imbatterà nel proprio cugino acquisito, fratello del cognato, leader della frangia più violenta degli ultrà del West Ham United, football club londinese. Il giovane si ritroverà così catapultato in una guerra tra fazioni, vero e proprio motivo di vita per gli hooligans; accolto nella “famiglia”, ne sposerà la filosofia e non tarderà a rivestire un ruolo di rilievo tra i ranghi del gruppo. Distaccandosi per stile cine-genico dal nostro pur valido Ultrà, il titolo affronta in modo patinato ma onesto il ben noto turbine di violenza ai margini degli stadi, contestualizzando la spirale di rabbia non solo come solito sfogo a frustrazioni quotidiane, bensì come catalizzatore capace di mascherare il vuoto esistenziale in senso più ampio: si delinea così a tinte forti e in modo netto il fenomeno come un enorme Fight Club a cielo aperto, dove la componente violenta arriva ad essere completamente slegata da quella sportiva, ridotta a trascurabile pretesto. A fronte di un messaggio trasparente, stagliato su risvolti drammatici grazie al forte effetto contrasto, uno script che amalgamandosi con un discreto stile registico funziona tutto sommato anche a livello di story-telling.
Prodotto dalla casa indipendente fondata dallo stesso regista Park Chul-Soo, Green Chair ha partecipato al Sundance ed al festival di Berlino per poi approdare al Far East di Udine, senza ancora aver trovato una distribuzione in Corea, colpevole un concorso di censura e presunta inadeguatezza alle richieste di mercato. Quest’opera pare ripercorrere la strada segnata da tanti titoli coreani snobbati o rifiutati in patria, primo su tutti Lies di Jang Sun-Woo, costretti a fare la giostra tra i festival internazionali prima di trovare finanziatori disposti a sfruttarne la fama così acquisita. Mun-Hee, trentenne divorziata, viene arrestata perché colpevole di aver fatto sesso con un minorenne, Hyun. Una volta uscita di prigione, la donna incontrerà nuovamente il ragazzo e i due passeranno diversi giorni in un albergo fuori mano. Colta da insicurezza Mun-Hee tenterà di troncare la relazione, ma la determinazione di Hyun decreterà un ulteriore sviluppo del rapporto.
Dal romanzo McTeague (1899) di Frank Norris: nel 1908 McTeague (Rowland), ex minatore diventato abusivo a San Francisco, uccide la moglie (Pitts), patologicamente avara, fugge con 5000 dollari, da lei vinti a una lotteria nel deserto della Death Valley; il suo ex amico Marcus (Hersholt) lo raggiunge, ma ne è ucciso dopo averlo ammanettato; McTeague muore accanto al suo cadavere e alla borsa dell’oro. Massimo esempio di film “maledetto” e uno dei capolavori mutilati del muto. Spinto dal suo impeto visionario (sei mesi di riprese, quasi tutte in esterni), von Stroheim fece di questo suo primo film di ambiente americano una prima edizione di 3 ore e 40 (da proiettare in 2 parti) che, attraverso successivi montaggi, ridusse a 3. Affidato alla sceneggiatrice June Mathis il film fu compresso, con la supervisione di I. Thalberg, a 135 minuti e poi a 108′. “Credo di aver fatto un solo film nella mia vita e nessuno l’ha visto. I suoi poveri resti, mutilati, furono proiettati col titolo di Greed”. Il regista vi portò alle estreme conseguenze la sua esigenza di verità totale: visionario della realtà, arriva a trasfigurarla attraverso il suo accanimento naturalistico. Personaggi dominati da una triplice fatalità (ereditaria, sociale ed esistenziale) che li trascina alla distruzione. Nessuno sullo schermo ha mai espresso l’avarizia come ZaSu Pitts. Si sono fatti i nomi di Zola e Dickens; bisogna aggiungere quello di Sade di cui Stroheim traduce in immagini l’imperativo etico di vedere chiaro e sino in fondo in sé e negli altri, scoprendovi le più segrete pulsioni di vita e di morte. Nel 1999 entrò in comercio una ricostruzione di Greed della durata di 4 ore e 3 miuti (presentata alla 56ª Mostra di Venezia e poi alle Giornate del Cinema Muto in versione video) con l’aggiunta di 589 foto di scena delle sequenze tagliate, circa 600 didascalie originali e citazioni del romanzo di Norris, effetti di colore che Stroheim aveva previsto, facendo ricorso al Processo Handshiel. Musiche di Robert Israel. Frutto di un’operazione discutibile ha il merito di avvicinarci a quella che rimane una delle vette del muto e dell’itinerario registico di Stroheim.
Gli astronauti Ryan Stone e Matt Kowalsky lavorano ad alcune riparazioni di una stazione orbitante nello spazio quando un’imprevedibile catena di eventi gli scaraventa contro una tempesta di detriti. L’impatto è devastante, distrugge la loro stazione e li lascia a vagare nello spazio nel disperato tentativo di sopravvivere e trovare una maniera per tornare sulla Terra. Lo spazio non è più l’ultima frontiera, nel nuovo film di Cuaròn non c’è nulla da esplorare, si rimane a un passo dal nostro pianeta ma lo stesso la profondità spaziale continua a non essere troppo distante dalle lande desolate del cinema western, un luogo talmente straniante da confinare con il mistico, l’ultimo rimasto in cui esista ancora la concreta sensazione che tutto possa accadere, in cui si avverte la presenza dell’ignoto e quindi in grado di mettere alla prova l’essenza stessa dell’essere umani. C’è tutto questo nel blockbuster con Sandra Bullock e George Clooney che Alfonso Cuaròn è riuscito a realizzare senza muovere un passo dalle convenzioni hollywoodiane, quelle che impongono l’inevitabile coincidenza dell’avventura personale con un mutamento interiore e il superamento del solito trauma radicato nel passato. Eppure dietro i dialoghi ruffiani e dietro una tensione obbligatoriamente costante (tenuta con una padronanza della messa in scena, tutta in computer grafica, che ha del magistrale ma non sorprende dall’autore di I figli degli uomini) non è nemmeno troppo nascosto uno dei film più umanisti di un’annata che ha visto il cinema statunitense proporre, a Cannes, anche la straordinaria storia di sopravvivenza individuale contro gli elementi (marittimi) di Robert Redford in All is lost. La visione prettamente americana dello spazio, un luogo d’avventure in cui l’uomo deve combattere contro ogni avversità naturale, stavolta è fusa con quella promossa dallo storico rivale, il cinema sovietico degli anni ’70, in cui lo spazio è il posto più vicino possibile alla metafisica, terreno di visioni interiori che diventano realtà e di incontro con il sè più profondo, fino a toccare anche l’idea di origine (o ritorno) alla vita di 2001: Odissea nello spazio in un momento di struggente bellezza, in cui il corpo di Sandra Bullock pare danzare con meravigliosa lentezza. Per Cuaròn lo spazio può essere tutto questo insieme, allo stesso modo in cui il suo film può essere sia un blockbuster sia un’opera che cerca di toccare la profondità dell’animo umano, realizzata con una sceneggiatura densa di dialoghi e molto fondata sulla recitazione (come un film a basso budget) animata da una messa in scena interamente in computer grafica (da grande film di fantasia), un lungometraggio che più che essere di fantascienza pare d’avventura (nel senso classico del termine), in cui l’essere umano lotta in scenari naturali mozzafiato, nel quale anche solo un raggio di sole che entra dall’oblò al momento giusto può far battere il cuore.
Salvando la vita al boss Sawada, il cameriere Ishimatsu Rikuo fa il suo ingresso nel mondo della yakuza. Nell’ambiente è però considerato un cane rabbioso e il suo comportamento gli impedisce di crearsi una cerchia di seguaci fedeli come si converrebbe ad un vero leader. Imprigionato in seguito a un regolamento di conti, Ishimatsu fa amicizia con Imamura, un esponente della gang rivale Giyu, che al termine della condanna di cinque anni viene ad aspettarlo assieme a Chieko, donna a cui Ishimatsu è legato da un tormentato rapporto di amore e violenza. Una notte, credendo che Sawada lo voglia uccidere per aver picchiato dei superiori, non esita a sparare al proprio capo ferendolo gravemente. È la goccia che fa traboccare il vaso…