Convinto di essere stato scambiato nella culla con un altro bambino, quindi di essere cresciuto in una famiglia non sua e di aver vissuto la vita di un altro, Thomas – chiamato con il vezzeggiativo di Toto – ospite nel 2027 di una casa di riposo, fantastica di uccidere colui che gli ha rubato la vita, Alfred, ricco e potente. Opera prima del belga Van Dormael (1957), il film è narrato con una serie di sconnessioni temporali, secondo il libero flusso dei ricordi e delle associazioni mentali di Thomas. È una storia sotto il segno della morte, ma sorvegliata dagli angeli custodi di un’allegra ironia e di un bizzarro umorismo, molto fiammingo anche nei suoi estri surreali, che le conferiscono un indubbio fascino e l’hanno reso uno dei film più premiati, ammirati e un po’ sopravvalutati del 1991.
Dopo l’8 settembre del ’43 il partito fascista di Ferrara stringe le fila, ma è lacerato tra due diverse tendenze: quella del moderato federale Bolognesi e quella del fanatico Aretusi, che fa assassinare il primo e, attribuendo il delitto agli antifascisti, scatena una violenta rappresaglia, facendo fucilare undici ostaggi. Ma il tempo cancella molte cose: il figlio di una delle vittime, Franco, fuggito in Svizzera, torna a Ferrara dopo 18 anni e incontrando Aretusi gli stringe cordialmente la mano.
Ferrara, inizi del 1500, Corte Estense, una delle più illustri del Rinascimento. Pochi mesi dopo la morte del duca Ercole I, si scatenano le gelosie e i rancori sopiti tra i quattro figli: Alfonso erede del ducato e sposo di Lucrezia Borgia, Ippolito, Giulio nato al di fuori del matrimonio, e Ferrante. La vita di corte procede tra festini, lussi e cortigiane. Durante una festa Ippolito si vede rifiutato dalla bella Angiola a favore di Giulio. Ippolito ordina di sfigurare il fratello che insieme a Ferrante covano vendetta e decidono di congiurare contro Ippolito ed Alfonso. Benemerito tentativo di uscire dai binari convenzionali del cinema italiano.
Film neorealista sulla Resistenza, incentrato sulle vicende di un soldatino che alla fine, dopo alcune avventure sentimentali, s’arruolerà tra i partigiani. Si ricorda soprattutto la scena in cui un sacerdote, condotto alla fucilazione dai tedeschi, riesce a far ribellare i contadini recitando le litanie. Il prete è interpretato da Carlo Lizzani.
Ballin Mundson, proprietario di un losco casinò di Buenos Aires, sposa un’ex ballerina, già amata da Johnny, il suo fedele collaboratore. Il triangolo che si regge su un complesso rapporto di amore-odio non si spezza nemmeno con la morte (apparente) di uno dei tre. Film di culto per i fan di Rita, corpo d’amore ribelle al suo ruolo di oggetto, che canta meravigliosamente “Put the Blame on Mame” e danza splendidamente “Amado mio”. L’assurdità dell’intrigo diventa un difetto secondario in questa miscela di noir e melodramma passionale in cui i dialoghi di Marion Parsonnet sono di un Kitsch che sfiora il sublime. La latente carica omosessuale di questa pietra miliare nella storia del divismo fu scoperta soltanto dalla critica europea.
Sandra Luzzatti torna con il marito Andrew da Ginevra a Volterra, nella casa natale dove incontra il fratello Gianni con cui ebbe un rapporto morboso; la madre, inferma di mente, è rinchiusa in una clinica. Il passato ritorna, anche quello del loro padre, studioso ebreo morto in un lager. Andrew chiede un chiarimento e parte, invitando la moglie a seguirlo, mentre il fratello la scongiura di restare. Dramma intimista e decadente dove, tentando di conciliare Sofocle (Elettra) con D’Annunzio (Forse che sì, forse che no), Visconti si sforza di elevare a livello tragico la vicenda e si scontra con le modeste dimensioni drammatiche dei personaggi. Scritto dal regista con Suso Cecchi D’Amico e Enrico Medioli; fotografia di A. Nannuzzi con insolito uso dello zoom; musiche di C. Franck. Una fulgida Cardinale. Leone d’oro a Venezia, immeritato come sarebbero stati meritati quelli per La terra trema, Senso, Rocco e i suoi fratelli.
Ingredienti: 4 tra le più grandi attrici italiane di fama internazionale e 5 tra i più grandi registi italiani di fama internazionale, 2 attrici emergenti. Amalgamate il tutto con dell’ironia anni ’50 tenendo ben separati però i vari ingredienti. Tempo di preparazione: 93 minuti. Ecco pronto Siamo donne.
1899: un celebre pistolero, ormai vecchio, decide di lasciare il West e partire per l’Europa. Incontra un giovanotto che lo ammira e gli si mette alle costole, costringendolo a un’ultima, memorabile impresa… È un proseguimento ideale dei Trinità (manca Bud Spencer) e per molti versi è meglio dei suoi “genitori”: la contrapposizione Hill-Fonda è un’invenzione furbesca che tiene in piedi un western allegro e divertente. Ideato e prodotto da Sergio Leone.
Un film di Dziga Vertov. Titolo originale Tri pesni o Lenine. Muto, b/n durata 58′ min. – URSS 1934.
Le due diverse date fornite qui sopra riflettono la storia della copia attualmente disponibile. La versione sonora di Tri pesni o Lenine (Tre canti su Lenin) venne approntata nel 1934, quella muta nel 1935. Nel 1938 fu richiesto a Vertov di rimontare entrambe le versioni: nel frattempo le purghe staliniane avevano raggiunto il culmine e i “nemici del popolo” che erano stati fisicamente eliminati entro i tardi anni Trenta dovevano essere cancellati anche dal film. Le versioni originali del 1934 e 1935 non esistono più, ma possiamo supporre che differissero notevolmente da quelle ora disponibili.La prima della versione sonora di Tri pesni o Lenine si tenne al festival di Venezia nell’estate del 1934; in quella stessa estate il film fu presentato a Mosca ai delegati del primo Congresso degli scrittori sovietici: distribuito a novembre (sei mesi dopo che era stato completato), ebbe un considerevole successo sia in patria che all’estero. Lo scrittore inglese H.G. Wells (che aveva conosciuto Lenin) raccontò che pur avendo visto il film senza traduzione aveva compreso ogni parola.
La versione muta (1935) fu preparata per le sale di provincia non attrezzate per il sonoro (in Russia si videro film muti sino alla fine degli anni Quaranta). Queste versioni mute erano in genere reputate inferiori: si sapeva che erano fatte dagli aiuto-registi e di norma non venivano recensite. Nel caso in questione tuttavia la versione muta non era soltanto la parente povera della sonora: sappiamo che Vertov e la Svilova vi avevano lavorato e che le due versioni differiscono considerevolmente: non dal punto di vista qualitativo, ma nel contenuto e nel montaggio.La versione sonora di Tri pesni o Lenine è costituita da tre parti ognuna delle quali basata su materiali folklorici. La prima parte ritrae il leader sovietico attraverso canti e racconti popolari; la seconda è un requiem commorativo di Lenin; la terza (quella ottimista) asserisce l’immortalità di Lenin attraverso l’immortalità delle sue idee. Per Vertov, Lenin era un nuovo dio e ciò riflette la nuova religiosità comunista del cineasta. Nel film, Lenin è evocato come fosse un Messia, colui che non solo ha indicato alla Russia la nuova via, ma che – anche oltre la tomba – può continuare ad aiutare il paese a progredire. È propaganda, ma non soltanto. Vertov chiamava il tipo di montaggio qui adottato “spirale” e diede una forma a spirale alle stesse didascalie. Il sogno di Vertov (annunciato nei suoi tanti manifesti) era sempre stato quello di usare il potere del cinema per costruire l’Uomo Nuovo (ovvero, il Nuovo Adamo, come lui soleva chiamarlo). In questo film Lenin è il Futuro Adamo di Vertov e il montaggio a spirale è il suo genoma, scoperto da Vertov prima dei genetisti. Vertov cercò di fare ciò che l’Internazionale prometteva a parole e ciò che i Bolscevichi non riuscirono a fare nella pratica: costruire il Nuovo Mondo sulle rovine di quello vecchio. Il film fu per Vertov un trionfo, ma un trionfo che professionalmente non gli aprì nuove strade. Coloro che erano al potere si assicurarono che Vertov non avesse più l’opportunità di fare un fim messianico come questo.La versione muta di Tri pesni o Lenine omette le interviste post-sincronizzate per cui la versione sonora era diventata famosa. Ma questa versione muta non è Tri pesni – Tre canti – senza il sonoro. Le didascalie sono le stesse, ma qui ci sono scene nuove, mentre per certe scene già note vengono usate inquadrature alternative a quelle girate per il film sonoro. Vertov si avvale anche di quanto fatto in precedenza sul tema di Lenin. Come in Leninskaia Kino-Pravda (Kino-Pravda su Lenin), la versione muta inizia con il (muto) discorso rivolto al pubblico da un lavoratore, il quale dice di essere l’uomo che nel 1918 aveva catturato Fanny Kaplan, dopo che costei aveva tentato di uccidere Lenin sparandogli con una pistola. Era questo un argomento tornato di grande attualità, visto che uno dei più importanti esponenti del governo sovietico, Sergei Kirov, era stato assassinato nel dicembre del 1934. La versione muta vanta anche delle impeccabili riprese che non troviamo nel prototipo sonoro mentre nel montaggio riconosciamo il Vertov muto migliore. Se la versione sonora era l’ispirato inno di Vertov all’Uomo Nuovo, quella muta, in sintonia con il Vertov degli anni Venti, è un inno al Nuovo Cinema.
Nel profondo sud, una donna di quarant’anni nevrotica e passionale tradisce il marito. L’amante, un riccone di Chicago, le offre il matrimonio, ma la donna è incinta e ha paura di rivelarglielo per non perderlo. Ma si ferisce gravemente e muore all’ospedale per le ferite, nonostante le cure del marito medico.
Un film di Henri Verneuil. Con Jean Gabin, Alain Delon, Amedeo Nazzari, Lino Ventura Titolo originale Le clan des sicilians. Drammatico, durata 113′ min. – Francia 1969. MYMONETRO Il clan dei siciliani valutazione media: 3,94 su 7 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Dopo aver messo a segno un grosso colpo, vecchio patriarca del crimine uccide un complice per motivi d’onore e finisce in carcere con i figli. Gangster-film ad altissimo costo con 3 star del cinema francese in prima fila. Sono 3 film in uno che non ne fanno nessuno. La confezione è di lusso, ma la scatola è vuota. Da un romanzo di Auguste Le Breton.
Un film di Bernard Vorhaus. Con John Wayne, Charles Coburn, Sigrid Gurie Titolo originale Lady from Louisiana. Avventura, b/n durata 82′ min. – USA 1941. MYMONETRO La riva dei peccatori valutazione media: 1,75 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
New Orleans nel primo Novecento. Gestita da un ex generale ignaro, una lotteria serve da copertura ai loschi affari di una banda di malfattori. La figlia del generale s’innamora, ricambiata, di un giovane avvocato che si prepara a smascherare gli illeciti. Mediocre poliziesco in cui l’intrigo soffoca i personaggi. Molto folclore.
Una ragazza di ricchissima famiglia viene rapita in Messico; le indagini della polizia e di un detective privato non portano a nulla. Uno psicologo ha allora un’idea geniale: visto che la ragazza è sempre stata sfortunatissima, soltanto uno sfortunato come lei potrà ritrovarla… La scelta cade su un oscuro contabile perseguitato dalla malasorte.
Una grande famiglia dell’alta borghesia danese si riunisce in una lussuosa residenza di campagna per festeggiare il 60° compleanno del patriarca (Moritzen). Durante il pranzo Christian (Thomsen), il primogenito, pronuncia un discorso in cui denuncia il comportamento pedofilo e incestuoso del padre, accusandolo di essere responsabile del recente suicidio della sua gemella Linda. 2° film di Vinterberg tra i firmatari, con Lars von Trier e altri registi danesi, del polemico manifesto del collettivo Dogma 95. Anche a prescindere dalla feroce demolizione della figura paterna, è forse il film antiborghese più crudele degli anni ’90. Il febbrile impeto espressivo con cui una festa di famiglia si trasforma in un rito cannibalico risulta troppo programmatico nella sua ridondanza, e incline a una certa rozza ingenuità nello sforzo di rinnovare a livello stilistico una materia che ha i suoi ascendenti nel teatro di Ibsen e Strindberg, nel cinema dell’ultimo Bergman. Premio della giuria a Cannes e quello dell’Avvenire del cinema europeo a Strasburgo. Proclamato il miglior film nordico del 1998.
Un gangster viene arrestato per omicidio e condannato a morte. Ha ucciso un uomo che voleva violentare la sua donna. Riesce a fuggire e si convince che il suo assistente gli abbia portato via l’amante. Uno dei grandi film del muto di von Sternberg.
Figlia di un pastore protestante, la terrorista Marianne muore in carcere in circostanze dubbie; sua sorella Juliane, progressista e femminista, indaga sulla sua morte, dopo averne preso in custodia il figlio. Su un tema che le è caro (il rapporto tra due sorelle), Trotta ha fatto un film di alta tensione morale il cui tema centrale non è tanto il terrorismo nella Germania Federale quanto la presenza del passato e la rimozione che ne hanno fatto i tedeschi per cancellare i loro sensi di colpa. Nella collisione tra il “dentro” privato e commosso di questo rapporto e il “fuori” accidentato della Storia trova momenti in cui etica ed estetica, passionalità e dialettica, commozione e lucidità coincidono senza neutralizzarsi. Ispirato alla storia vera di Christiane Ensslin e di sua sorella Gudrun che nel ’77, dopo 4 anni di carcere, trovò la morte per impiccagione nel carcere di Stammheim. Leone d’oro a Venezia.
Un film di Henri Verneuil. Con Anthony Quinn, Michael Redgrave, Grégoire Aslan, Virna Lisi. Titolo originale La vingtcinquième heure. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 127 min. – Francia 1967. MYMONETRO La venticinquesima ora valutazione media: 2,50 su 4 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Nel 1940, in Romania, un contadino viene deportato come ebreo perché il capo della polizia locale vuole rubargli la giovane sposa. Il poveretto riesce a scappare a Budapest, ma, nuovamente arrestato dai nazisti, se la cava solo accettando di entrare nelle SS
Dal romanzo McTeague (1899) di Frank Norris: nel 1908 McTeague (Rowland), ex minatore diventato abusivo a San Francisco, uccide la moglie (Pitts), patologicamente avara, fugge con 5000 dollari, da lei vinti a una lotteria nel deserto della Death Valley; il suo ex amico Marcus (Hersholt) lo raggiunge, ma ne è ucciso dopo averlo ammanettato; McTeague muore accanto al suo cadavere e alla borsa dell’oro. Massimo esempio di film “maledetto” e uno dei capolavori mutilati del muto. Spinto dal suo impeto visionario (sei mesi di riprese, quasi tutte in esterni), von Stroheim fece di questo suo primo film di ambiente americano una prima edizione di 3 ore e 40 (da proiettare in 2 parti) che, attraverso successivi montaggi, ridusse a 3. Affidato alla sceneggiatrice June Mathis il film fu compresso, con la supervisione di I. Thalberg, a 135 minuti e poi a 108′. “Credo di aver fatto un solo film nella mia vita e nessuno l’ha visto. I suoi poveri resti, mutilati, furono proiettati col titolo di Greed”. Il regista vi portò alle estreme conseguenze la sua esigenza di verità totale: visionario della realtà, arriva a trasfigurarla attraverso il suo accanimento naturalistico. Personaggi dominati da una triplice fatalità (ereditaria, sociale ed esistenziale) che li trascina alla distruzione. Nessuno sullo schermo ha mai espresso l’avarizia come ZaSu Pitts. Si sono fatti i nomi di Zola e Dickens; bisogna aggiungere quello di Sade di cui Stroheim traduce in immagini l’imperativo etico di vedere chiaro e sino in fondo in sé e negli altri, scoprendovi le più segrete pulsioni di vita e di morte. Nel 1999 entrò in comercio una ricostruzione di Greed della durata di 4 ore e 3 miuti (presentata alla 56ª Mostra di Venezia e poi alle Giornate del Cinema Muto in versione video) con l’aggiunta di 589 foto di scena delle sequenze tagliate, circa 600 didascalie originali e citazioni del romanzo di Norris, effetti di colore che Stroheim aveva previsto, facendo ricorso al Processo Handshiel. Musiche di Robert Israel. Frutto di un’operazione discutibile ha il merito di avvicinarci a quella che rimane una delle vette del muto e dell’itinerario registico di Stroheim.
Dio è un essere volgare che tiranneggia la moglie e i figli e governa il mondo con il computer in base al principio “odia il prossimo tuo”. JC, il figlio maggiore, è fuggito e ha cercato di rimediare agli errori del padre, ma ha fallito. Ci riprova Ea, la figlia di 10 anni, che invia a tutti gli uomini una mail con la loro data di morte. “Fu giudicato da molti il film più delirante presentato quest’anno a Cannes” (Guillaume Gas). Opera d’arte cinematografica totale che fluisce e refluisce continuamente dal comico al tragico, dal dramma alla satira, dall’ironia alla poesia, dall’iperreale al surreale, dal grottesco all’epico, in un fuoco d’artificio di invenzioni narrative, figurative e registiche di altissimo livello che sorprendono e spiazzano fino a rapirti nella visione e a trasportarti nella dimensione della pura fantasia. L’assunto di partenza – l’esistenza di un Dio sadico che si diverte a torturare gli uomini – può sembrare un’idea balzana: si tratta invece di un’eresia gnostica risalente al I secolo a.C., che fu ripresa nel XII dalla chiesa dei catari, poi annientata con una crociata (1208) dalla chiesa cattolica.
Due ragazzi di nome Gerry (Matt Damon e Casey Affleck, autori insieme a Van Sant della sceneggiatura) si perdono nel deserto. Questo il plot del film che ha segnato il punto di svolta dello stile registico del pittore dello schermo americano. Gerry costituisce infatti il primo capitolo di una trilogia dedicata alla giovinezza (Elephant e Last Days i due successivi), nella quale Van Sant, rinunciando al ritmo del montaggio, si fa portavoce di una concezione lenta e meditativa del tempo cinematografico. La steadycam segue gli ipnotici vagabondaggi dei due protagonisti attraverso lunghi piani sequenza che registrano la loro quotidianità e in sottofondo i suoni della natura di questo paesaggio ostile, privo di un centro e di punti di riferimento, all’interno del quale anche noi spettatori finiamo per perderci. In questo “western dell’anima” protagonista si fa allora il cammino, mezzo di liberazione e purificazione attraverso le prove alle quali il deserto (metafora della vita) sottopone i due Gerry. E non importa quale sia la meta, tanto – dice Gerry/Damon – “tutte le strade portano nello stesso posto”. I dialoghi beckettiani al limite dell’assurdo, il minimalismo narrativo, lo scenario ora selvaggio ora lunare del deserto della Death Valley, ne fanno un’opera profonda e poetica in cui regna un senso di attesa quasi metafisico.
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