Nell’autunno del 1945 un giovane americano, di nascita tedesca e di buona volontà, ritorna nella patria in rovina, trova un posto come conduttore di vagoni-letto e, grazie a un coinvolgimento amoroso, si fa incastrare da un gruppo terroristico di Lupi Mannari, irriducibili nazisti non rassegnati alla sconfitta. Cocktail di thriller e melodramma con una componente umoristica. Più che la storia, artificiosa e quasi banale, e più che i personaggi, conta l’apparato tecnico-formalistico: colore contrapposto al bianconero, sovrimpressioni, obiettivi deformanti, cinepresa dinamica, scenografie di taglio espressionistico. Antitedesco nella sostanza, è profondamente tedesco nella forma.
Una donna nella sabbia bagnata ,si lascia trascinare dalle onde del mare e dopo poco emette un urlo di disperazione e liberazione.In questa sequenza iniziale c’e’ tutto il film di medea.Von trier ,dopo epidemic, torna alla macchina da presa e dirige un film decisamente interessante e profondo,prendendo la sceneggiatura di dreyer e riadattandola con delle sue creazioni personali.
Usa Anni ’70. Jack è un serial killer dall’intelligenza elevata che seguiamo nel corso di quelli che lui definisce come 5 incidenti. La storia viene letta dal suo punto di vista che ritiene che ogni omicidio debba essere un’opera d’arte conclusa in se stessa. Jack espone le sue teorie e racconta i suoi atti allo sconosciuto Verge il quale non si astiene dal commentarli.
2° capitolo, dopo Dogville , della trilogia americana del danese Trier, da lui anche scritta. Lasciate le Montagne Rocciose, nel 1933 Grace arriva a Manderlay (Alabama) dove vige ancora la schiavitù e cerca di usare il potere, donatole dal padre gangster, per imporre libertà e democrazia, scoprendo alla fine un mondo dove sono gli schiavi a volere un padrone. Divisa in 8 capitoli, l’azione è chiusa in un set cinematografico: scenografie soltanto accennate, disegnate sul pavimento (bianco, non più scuro) e cinepresa mobile a spalla (Anthony Dod Mantle, lo stesso Trier). Se Dogville può essere preso come un racconto filosofico, il seguito è esplicitamente politico. Dedurne la sua attualità con l’occupazione dell’Iraq è facile, ma Trier va oltre con un discorso atemporale sul potere e le sue pratiche. Anche in Italia divise i critici. Bruno Fornara, il più acuto dei suoi difensori, è ricorso all’ alétheia di Heidegger, la nozione di verità come non-nascondimento, sostenendo che il compito di Trier non è di dire delle verità, smascherando la falsità del cinema come luogo di menzogne e di trappole, ma di mostrare come sia complicato non nasconderle. Il cambio degli interpreti principali non nuoce al funzionamento della macchina.
Attraverso l’ipnosi uno psicanalista-stregone del Cairo estorce al protagonista il racconto del suo ritorno in Europa sulle tracce di uno psicotico che ammazza ragazzine, una ricerca in cui rischia di perdersi. Impressionante, delirante esordio del danese Trier in una detective story che raddoppia sé stessa e sostiene la necessità di identificarsi col colpevole per poterlo scoprire. Ricco di rimandi letterari, filosofici e filmici, da Blade Runner a Stalker, dal noir americano a Eraserhead.
Ravn vuol vendere la sua azienda, ma ha un problema: da quando l’ha costituita, si è inventato un falso capo irraggiungibile sul quale scaricare la responsabilità di decisioni impopolari. Poiché i futuri compratori islandesi insistono nel voler negoziare il trapasso col capo in persona, assolda per impersonarlo un attore che però gli rovina il piano. Giunto ai 50 anni, von Trier ha scritto e diretto per la prima volta una commedia che è una commedia nella commedia. Molto parlata. Lo spunto è ingegnoso e allude alla realtà, a una strategia padronale che ognuno di noi conosce. Qua e là il film è faticoso da seguire, e persino sgradevole. Nei titoli di testa il nome del direttore della fotografia è sostituito da un dispositivo tecnico: AUTOMAVISION. Siamo o no nel campo dell’informatica? Von Trier dichiara che non era lui a tenere il controllo, ma il computer. È difficile credergli; il “grande capo”, quello vero, è il regista. C’è da divertirsi, comunque, a sentire gli islandesi insultare i danesi che li hanno governati per quattro secoli. V.M. 14 anni.
Un regista e uno sceneggiatore lavorano alla scrittura di un film, ma la sceneggiatura viene cancellata per errore. In pochi giorni i due devono così riscriverne un’altra che tratta della diffusione di una terribile epidemia in Europa. Ma il virus comincia a propagarsi veramente, in un’alternanza di fiction e realtà.
Un film di Lars von Trier. Con Baard Owe, Ernst Hugo, Kristen Rollfes, Ernst Hugo Järogård, Kirsten Rolffles, Søren Pilmark, Holger Juul Hansen, Ghita Norby, Jens Okking, Birthe Neumann. Formato Serie TV, Titolo originale Riget. Fantastico, durata 272′ min. , numero episodi: 11. – Danimarca 1994. MYMONETRO The Kingdom – Il regno valutazione media: 3,63 su 20 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Il Regno è il soprannome di un mastodontico ospedale a Copenaghen, ricostruito nel 1958 sulla base di un vecchio ospedale che nel 1919 era stato teatro di un infame delitto, la tortura e l’uccisione di una bambina da parte di un famoso scienziato. Il fantasma della piccola lo frequenta ancora, come scopre una vecchia sensitiva. Intanto nell’ospedale accadono fatti strani, intrighi, misfatti, trasgressioni, riunioni di una loggia massonica e un finale alla grand-guignol. Scritto dal regista con Niels Vørsel e Tómas Gislason, girato in 12 settimane frettolose, diviso in 4 puntate per la TV, distribuito nelle sale in 2 parti, ebbe un enorme successo nei Paesi scandinavi, ma scarso in Italia (1997-98). Impregnato di perverso umorismo, già percepibile nei film precedenti di von Trier, è uno svergognato e inventivo pastiche dove si coniugano la soap opera ospedaliera con l’horror, le intenzioni satiriche con un’ideologia spiritualistica e la denuncia dell’arrogante scienza medica. Girato alla carlona, “è un film creato interamente al montaggio” (T. Porcelli). Seguito da Riget 2 in 4 episodi.
Edit 28/2/24 aggiunta la rarissima stagione 2, la terza è introvabile.
Edit 5/5/2024 purtroppo mi è stato segnalato che il quinto episodio della prima stagione è corrotto. Non ho trovato un 1×05 alternativo ma l’intera stagione in un file unico che potete scaricare qui sotto:
Edit 10/5/24 Grazie ad un utente aggiungo anche la terza stagione. E’ in lingua originale con subita (tradotti con google, potrebbero esserci delle imprecisioni) e subeng. La trovate qui sotto:
L’anziano Seligman, uscito per fare la spesa in una giornata nevosa, trova a terra il corpo insanguinato di una donna, Joe. La porta nel suo appartamento e la soccorre. Qui Joe gli rivela di essere una ninfomane. Se vuole può raccontargli la sua vita ma sarà una lunga narrazione che prende le mosse dai libri di anatomia del padre medico per poi passare alle competizioni con una coetanea a chi ha più rapporti nel corso di un viaggio in treno. Ma è solo l’inizio. Con Nymphomaniac Lars Von Trier chiude la trilogia sulla depressione che lo ha visto dirigere in successione Antichrist e Melancholia. Lo fa con una lunga narrazione divisa in due parti offrendoci alla fine il trailer della seconda.
Nella villa di un quartiere residenziale di Copenaghen una decina di giovani adulti hanno deciso di giocare all’idiozia sia fingendosi in pubblico idioti (ritardati mentali, spastici, ecc.) per esplorare negli altri i confini della tolleranza sia cercando “il piccolo idiota che è in ciascuno di noi”, infrangendo le interne barriere all’idiozia (dal greco idios che indica privazione). Fa da guida l’inibita Karen (Jorgensen) che casualmente si aggrega al collettivo e vi trova sollievo all’atroce dolore di aver perduto un figlio neonato. Film spiazzante con un esplicito programma di provocazione e di disturbo verso lo spettatore, si chiude con una sequenza che forse è il suo momento espressivo più alto e dolente. Girato in video e trasferito su pellicola 35 mm per la distribuzione, nasce come Dogma 2, contemporaneo a Dogma 1 che è Festen di T. Vinterberg, anch’esso presentato a Cannes 1998. I due registi fanno parte del movimento danese Dogma 95 e ne hanno sottoscritto il manifesto ( Voto di castità ) in 10 punti che esige, tra l’altro, la cinepresa a mano, la rinuncia alla musica, al bianconero, alle luci addizionali, ai trucchi ottici, ai filtri, alle scenografie, al cinema di genere, ad armi e omicidi e persino al nome del regista, regola peraltro non rispettata. L’edizione italiana è stata tagliata per circa 5 minuti: scene di nudo, particolari sgradevoli, una penetrazione genitale.
Film in un prologo, 8 capitoli e un epilogo. Bess ha deciso di sposare Jan, tecnico su una piattaforma petrolifera, nonostante il parere contrario degli anziani della comunità che non apprezzano l’ingresso di un ‘estraneo’. Bess, che ha un dialogo interiore con Dio, ama Jan con tutta se stessa, corpo e anima. Un giorno lui rimane vittima di un incidente sul lavoro che lo immobilizza per sempre su un letto. Chiede allora a Bess di rifarsi una vita perché la comunità non le consentirà mai di divorziare: deve fare l’amore con un uomo e poi descrivere a Jan quanto accaduto. A lui sembrerà di rivivere sensazioni che non può più provare. Bess inizialmente oppone resistenza ma poi decide di cedere. Per amore. I titoli italiani in più di un’occasione hanno tradito l’originale. Questa volta più che mai. Il destino non c’entra nulla con il titolo (Breaking the Waves= Infrangere le onde) e tantomeno con il film. Le onde che Lars Von Trier ha fatto diventare cinema in questa prima opera della sua trilogia al femminile sono (in positivo) quelle prodotte dalle vibrazioni del cuore e del cervello e in negativo quelle di chi è incapace di comprendere cosa sia la bontà e in cosa consista l’amore. Vedendo questo film in cui la macchina da presa diventa essa stessa oggetto di vibrazioni, di sussulti, di trasalimenti, di piacere e di dolore, lo spettatore che sappia staccarsi dalla rassicurante ripetitività di tanto cinema potrà comprendere perché la Giuria di Cannes ’95 gli abbia assegnato il Gran Premio.
Sfuggita all’inseguimento di due killer, la bella Grace arriva nella sperduta cittadina di Dogville. Grazie all’aiuto di Tom, portavoce della comunità, Grace riesce ad ottenere protezione a patto che sia disposta a lavorare per la comunità. Ma quando si viene a sapere che la donna è una grossa ricercata, gli abitanti di Dogville avanzano nei confronti di Grace sempre maggiori pretese. Ma Grace nasconde un segreto che farà pentire tutta Dogville di aver mostrato i denti contro di lei… Lars Von Trier ha ripulito il proprio cinema da quel sospetto di manierismo autoreferenziale che lo rendeva inviso a molti. Il Dogma e’ alle spalle. Resta solo un ‘Dog’ nel titolo del film ma il regista danese, con l’avvio di questa trilogia rompe col passato confermando paradossalmente la continuita’. Niente piu’ camera a mano o sfocature estemporanee ma un’assenza quasi totale di scenografia in favore della parola e dei gesti. L’influenza di Brecht e’ dichiarata ma non si tratta di un omaggio retro. Siamo invece di fronte a una storia narrata per capitoli in cui si concretizza il bisogno di una moarle che non rinvii la punizione e che, soprattutto, non risolva tutto con un perdono generalizzato. Le colpe vanno punite. Le protagoniste ‘cuordoro’ della trilogia precedente trovano in Grace un personaggio femminile pronto a subire fino in fondo ma che alla fine sapra’ come non soccombere. Von Trier ha forse superato una volta per tutte il piacere sottile di cercarsi dei detrattori con la dimostrazione della capacita’ di valorizzare un cinema purificato dall’esibizione stilistica e capace di mettersi al servizio degli attori. Prima fra tutti una straordinaria Nicole Kidman ma senza dimenticare l’apporto di attori del calibro di Ben Gazzara o James Caan. Lauren Bacall non fa il cameo role ma e’ li’ a ricordarci che il cinema ‘classico’ non puo’ morire. Non pero’ conservarlo in una cineteca della memoria. Bisogna sapersi rimettere in gioco. Sempre. Lei lo fa da maestra.
Poiché von Trier ha tra i suoi modelli Bergman, oltre a Tarkovskij cui dedica il film, diciamo che questo suo Scene da un matrimonio è discutibile sin dal titolo. Diviso in 6 capitoli: “Prologo”, “La paura”, “La pena”, “La disperazione”, “I 3 mendicanti”, “Epilogo”. L’ha ideato, scritto e diretto come terapia per uscire da una grave depressione. 2 personaggi in scena (anzi nel bosco) più 1. Lei è fuori di testa dopo aver visto, durante un coito, il suo piccolo Nic cadere dalla finestra della loro casa in città. Per curarla il marito psichiatra la porta in una capanna in mezzo a una foresta. Oltre a quella del sesso, esistono altre 2 pornografie, fondate sulla violenza e sull’imbecillità. Qui sono caoticamente fuse tutte e 3. Che cosa si proponeva l’autore con questo eurofilm dell’horror genitale, osceno e ossessivo, iperbolico e monocorde: scandalizzare il pubblico borghese? Spacciare il proprio forsennato formalismo per un discorso etico, simbolico, allegorico? Ostentare la propria misoginia? Sadicamente sottoporre a una performance estrema i 2 attori che, d’altronde, gareggiano in ardimento mimico-recitativo? Musica: G.F. Händel. Distribuzione: Lucky Red.
Dancer in the Dark era una canzone cantata, e ballata, da Fred Astaire in Spettacolo di varietà. Ed è la metafora della vita di Selma, operaia arrivata in America dalla Cecoslovacchia, minata da una cecità progressiva che diventerà totale, e che fantastica, appunto, sui musical. Lavora in tutti i turni in fabbrica, si porta a casa altri lavori, non ha svaghi, non ha amori, non ha niente, tranne un figlio che ha la sua stessa malattia, ma che potrà essere operato. Selma risparmia il denaro per l’operazione centesimo dopo centesimo. Quando un poliziotto (Morse) che le sembrava amico le ruba i soldi, tutto precipita, il film diventa un altro film. Anarchico, provocatorio, alla ricerca esasperata del non convenzionale (a cominciare dalla macchina a spalla che però abbandona quando serve) è anche il più spietato degli autori contemporanei (Altman è una specie di Capra edulcorato al confronto). Tutte le vicende partono dalla speranza e dalla dolcezza e finiscono nella più profonda e un po’ compiaciuta, tragedia. L’estremizzazione è una pratica legittima ma l’artificio della musica e delle canzoni servono a von Trier come alibi per un approdo troppo disperato e agghiacciante. Vincitore della Palma d’oro a Cannes (naturalmente). Davvero straordinaria la cantante Bjork, a sua volta premiata come migliore attrice. Rivisto il “fantasma grasso” di Catherine Deneuve che il non convenzionale Lars fa diventare un’operaia alla catena di montaggio.
Ogni tanto gli anniversari non vengono per nuocere. È il caso del sessantesimo del Festival di Cannes che ha spinto il suo Presidente e mentore Gil Jacob a celebrare offrendo ai registi di cui sopra la possibilità di realizzare un film di 3 minuti avente al centro la sala cinematografica o comunque l’idea di film già realizzato. Quindi niente lavoro del set, registi e attori ecc.. ma l’opera finita e il suo rapporto con il luogo che resta ancora (almeno idealmente) al centro della sua fruizione. Ne è uscito un mosaico davvero interessante di letture e di spunti. È impossibile citarli tutti e quindi tratteremo, molto soggettivamente, di quelli che più ci hanno colpito. Lars Von Trier ha ancora una volta ‘esagerato’ (nel senso positivo del termine) mettendosi in scena nella proiezione ufficiale di Manderlay con a fianco un produttore che comincia a parlare di quanto sia divenuto ricco grazie al cinema. Lars lo massacrerà nel senso più preciso del termine. Takeshi Kitano si è regalato il ruolo di un proiezionista in un cadente cinema di campagna che, grazie alla sua imperizia, mostra all’unico spettatore in sala solo dei frammenti di un film distribuito dal…Kitano Office. Se i Coen mettono in scena un cowboy che va a vedere un film turco che finisce col piacergli Abbas Kiarostami stupisce tutti rendendo omaggio a Franco Zeffirelli e al suo Romeo e Giulietta mostrando un cinema pieno di donne che si commuovono dinanzi al film del quale sentiamo il sonoro della sequenza finale. Polanski ci riporta alla proiezione di Emmanuelle e a una coppia borghese scandalizzata da uno spettatore che, molte file più indietro, sembra intento a masturbarsi. Sembra… Non mancano i film densi di nostalgia (ben due omaggi a Bresson e tre, se non abbiamo contato male, a Fellini). A cui si aggiunge l’autocitazione di Lelouch e del legame che si era creato tra suo padre e sua madre e Ginger Rogers e Fred Astaire. Un’ultima annotazione per la nutrita presenza (i registi non sapevano nulla dei progetti altrui) di non vedenti in un film collettivo sul cinema. Non è per nulla strana come si potrebbe pensare in un primo momento. Il cinema ha un significato anche per chi non vede ed è giusto che la cecità abbia assunto qui il ruolo di metafora forte.
Justine arriva con il neomarito alla festa delle nozze che il cognato e la sorella Claire le hanno organizzato con un ritmato protocollo. Justine sorride molto ma dentro di sé prova un disagio profondo che la spingerà ad allontanarsi in più occasioni dai festeggiamenti provocando lo sconcerto di molti, marito compreso. Non si tratta però solo di un malessere esistenziale privato. Una grave minaccia incombe sulla Terra: il pianeta Melancholia si sta avvicinando e, benché il mondo scientifico inviti all’ottimismo, il rischio di collisione e di distruzione totale del globo terrestre è più che mai realistico. Tempo dopo, con Melancholia sempre più vicino, sarà Claire a invitare a casa sua la sorella. Dopo il harakiri a tutto schermo di Antichrist Lars Von Trier decide di rinunciare ai colpi bassi nei confronti dello spettatore offrendogli, in versione apocalittica, la sua visione delle sorti dell’umanità su questa Terra. Lo fa con un prologo wagneriano (“Tristano e Isotta”) di alta e simbolica qualità estetica a cui fa seguire una bipartizione che vede protagoniste le due sorelle (prima Justine e poi Claire). Due sorelle, due donne che il ‘misogino’ per definizione del cinema europeo prende questa volta, in particolare Justine, come rappresentanti di se stesso. Di Justine condivide la sensazione viscontiana di fine di un mondo che merita di dissolversi e, al contempo, il dissacrante e sofferente distacco da tutte le convenzioni. In Claire vede il bisogno (registico) di ‘mettere ordine’, di trovare un senso, di controllare anche l’ineluttabile. Le circonda di una folla vinterberghiana (Festen) ritrovando parte degli stilemi del Dogma, nella prima parte, per poi, progressivamente, lasciarle sole con il figlio bambino della seconda e con la Natura. Una Natura che in Von Trier è sempre ‘avanti’ rispetto all’essere umano sia che avverta i segni di una catastrofe sia che ne anticipi la dissoluzione. Sulla complessità di un mondo che vorrebbe poter amare non riuscendoci, il regista danese fa intervenire il suo amore per l’Arte che si è data il compito di ‘leggere’ per noi la realtà nel profondo. Nel farlo getta un ponte (più o meno conscio non sappiamo) con un Maestro del Cinema come Andrej Tarkovskij. Come non pensare a Lo specchio dinanzi alla doppia proposizione de “Il ritorno dei cacciatori” di Pieter Brueghel il Vecchio? Ma, soprattutto, come non ricordare Sacrificio, l’ultimo film del regista russo che affrontava una tematica analoga partendo da premesse differenti ma con la stessa volontà di messa in gioco di uno sguardo e una ricerca ‘alti’? Uno sguardo e una ricerca che Von Trier vuole condividere con lo spettatore, convinto com’è che “può darsi che non ci sia nessuna verità per cui provare un ardente desiderio ma che il desiderio di per sé stesso è già vero”.
Nel 2000 Lars chiede al suo vecchio amico Jørgen di girare 5 rifacimenti di Det perfekte menneske ( L’uomo perfetto , 1967), un corto sperimentale di 12 minuti, assegnandogli ogni volta compiti precisi e regole da seguire. Nell’ordine gli impone di girare a Cuba e Bombay, di filmarlo con la tecnica dell’animazione, di ambientarlo in un hotel di Bruxelles e di rinunciare a ogni regola. Per 3 anni J. Leth incontra L. von Trier 5 volte, sottoponendosi alle critiche del suo collega che gli somministra premi o punizioni in un tipico rapporto sadomasochistico. O terapeutico? In questo caso “non è chiaro chi dei due sia davvero il paziente e chi l’analista, chi la cavia e chi lo sperimentatore.” (A. Morsiani). Alla fine, nonostante tutto, i due rimangono amici. O era tutta una finzione, un giuoco? Film unico, nato da un progetto inedito, che può irritare o affascinare per le stesse ragioni. Difficile una via di mezzo: prendere o lasciare.
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