Sze-to, ex-campione di judo affetto da glaucoma, sopravvive a se stesso gestendo un bar malfamato e dandosi all’alcool e al gioco. Il suo destino, apparentemente segnato, si incrocia con quello di Mona, aspirante cantante squattrinata, e di Tony, giovane esuberante innamorato del judo. L’entusiasmo trasmesso dai due e la tragica morte dell’ex-maestro restituiranno a Sze-to la fiducia in se stesso e la voglia di rimettersi in gioco, senza badare alle conseguenze.
Un’unica lunga operazione antidroga, che inizia con la cattura di un gruppo di corrieri portatori di pacchetti di cocaina dentro il proprio corpo e mira ad arrivare fino alla cupola del narcotraffico. Tutto è visto attraverso le azioni di Lei, un funzionario di polizia sveglio e totalmente dedito alla causa (come il resto del suo team), e attraverso il rapporto che sviluppa con Ming, trafficante pentito che decide di fare il doppio gioco per la polizia tradendo i suoi sodali. L’ultimo film di Johnnie To è uno dei più rigorosi e obbedienti nei confronti delle regole della censura cinese e al tempo stesso uno dei più belli. Per poter trattare il complesso tema della guerra alla (e per la) droga in Cina, il regista è dovuto passare attraverso non poche difficoltà, in primis la serie di lunghi controlli sulla sceneggiatura e sull’esito finale da parte del governo. Il risultato è un film che abbraccia il manicheismo e mostra il trionfo della giustizia sulla criminalità senza appello o ambiguità.
Jack (Leon Lai) e Martin (Lau Ching-wan) sono i killer di due boss rivali. Il destino li ha messi l’uno contro l’altro, ma non ha impedito ai due di diventare amici. Quando i boss stringono un’alleanza decidono di sbarazzarsi dei due killer: sembra la fine di Jack e Martin, ma gli eroi non muoiono mai. Forse la summa della poetica di Johnnie To, A Hero Never Dies incarna nel più flamboyant dei modi la sua elaborazione, personale e arricchita, dell’epos eroico di John Woo (e per traslato di Peckinpah); dove l’estetica Milkyway (la società di produzione di To), sin qui alla pervicace ricerca di una via nuova e più vera per ridare linfa alla tradizione noir di Hong Kong, si trasforma in erede della tradizione stessa. Con A Hero Never Dies lo stile Milkyway come fin lì inteso smette di esistere, mentre noir e melò trovano un impossibile punto di congiunzione tra luci al neon, pistole e lacrime.
Una donna, un uomo, due bambini. Lei di origine francese, lui cinese. All’improvviso la morte che entra in casa per mano di sicari che compiono una strage. Solo la donna si salva. Suo padre, Costello, raggiunge l’Estremo Oriente con un proposito preciso: vendicare la morte del genero e dei nipoti. Per farlo ingaggia tre killer che ha scoperto in azione mentre eliminavano l’amante infedele di un boss della malavita.. Con il loro aiuto cercherà di portare a compimento la missione che si è prefisso. Johnnie To si è finalmente (e speriamo definitivamente) scrollato di dosso i vincoli narrativi che almeno fino ad Election ne avevano in qualche misura ostacolato la genialità visiva. Sembrava cioè che il regista si sentisse in dovere di giustificare da un punto di vista sociologico l’agire dei suoi personaggi preoccupandosi quindi oltre misura del contesto. Intendiamoci: oltre misura per un regista come lui assolutamente in grado di intervenire sui generi interpolandoli con lo scopo di andare ‘oltre’ la verosimiglianza per puntare dritto al piacere della visione. Qui, a partire dall’esplicito omaggio a Melville sottolineato nel cognome del protagonista, è un susseguirsi di luoghi del cinema pronti a sottoporsi a reinvenzione. Se dispiace che il ‘samurai’ melvilliano Delon abbia rifiutato il ruolo di protagonista il dispiacere è di breve durata perchè Johnny Hallyday è praticamente perfetto nei panni del vendicatore che pronuncia le battute più improbabili con la stessa determinazione con cui reciterebbe Shakespeare. Con un interprete così To è libero di giocare con le immagini (indimenticabile lo scontro con i contendenti che si proteggono con inusuali barriere individuali) raggiungendo un livello di astrazione che fonde magistralmente cinefilia e spettacolo.
Empatico e folle, Bun è un investigatore in pensione che rientra in servizio per risolvere un misterioso caso di omicidio. Lasciato dalla moglie e in fuga dalle cure psichiatriche dettategli dallo psicanalista, l’investigatore stregone (come da traduzione italiana) utilizza metodi poco convenzionali per giungere alla soluzione degli intricati delitti cui si trova a far fronte. La necessità di immedesimarsi con le vittime per provarne le ultime sensazioni, lo porta a rotolare chiuso in una valigia per una rampa di scale oppure a farsi seppellire vivo in un bosco. Ed è per questo motivo che è stato prematuramente cacciato dalle forze di polizia, soprattutto dopo essersi tagliato un orecchio per omaggiare l’incorruttibilità di un superiore sul viale del tramonto. Grande cinema targato Hong Kong e Milkyway – l’inseparabile casa di produzione di Johnny To – per una gangster story originale e non priva di fascino. Un detective che riesce a vedere i demoni del male che governano gli esseri umani intorno a lui, un poliziotto corrotto e un intreccio dai mille volti che rimanda direttamente al genio di Orson Welles e alla sua “Lady from Shangai”, in un gioco di specchi che entusiasmerà i cinefili del sol levante: pazzi per le triadi mafiose raccontate da uno dei più prolifici registi orientali. Film d’essai che difficilmente troverà spazio, però, all’interno dei circuiti ufficiali. Non tanto per le scene di violenza di cui si nutre, ma per una difficile decodifica da parte di un pubblico poco avvezzo ai simbolismi orientali, con i suoi riconoscibili codici e le sue affascinanti peculiarità. Prendere o lasciare, questo è in fondo il cinema di Johnny To.
Una donna, un uomo, due bambini. Lei di origine francese, lui cinese. All’improvviso la morte che entra in casa per mano di sicari che compiono una strage. Solo la donna si salva. Suo padre, Costello, raggiunge l’Estremo Oriente con un proposito preciso: vendicare la morte del genero e dei nipoti. Per farlo ingaggia tre killer che ha scoperto in azione mentre eliminavano l’amante infedele di un boss della malavita.. Con il loro aiuto cercherà di portare a compimento la missione che si è prefisso. Johnnie To si è finalmente (e speriamo definitivamente) scrollato di dosso i vincoli narrativi che almeno fino ad Election ne avevano in qualche misura ostacolato la genialità visiva. Sembrava cioè che il regista si sentisse in dovere di giustificare da un punto di vista sociologico l’agire dei suoi personaggi preoccupandosi quindi oltre misura del contesto. Intendiamoci: oltre misura per un regista come lui assolutamente in grado di intervenire sui generi interpolandoli con lo scopo di andare ‘oltre’ la verosimiglianza per puntare dritto al piacere della visione. Qui, a partire dall’esplicito omaggio a Melville sottolineato nel cognome del protagonista, è un susseguirsi di luoghi del cinema pronti a sottoporsi a reinvenzione. Se dispiace che il ‘samurai’ melvilliano Delon abbia rifiutato il ruolo di protagonista il dispiacere è di breve durata perchè Johnny Hallyday è praticamente perfetto nei panni del vendicatore che pronuncia le battute più improbabili con la stessa determinazione con cui reciterebbe Shakespeare. Con un interprete così To è libero di giocare con le immagini (indimenticabile lo scontro con i contendenti che si proteggono con inusuali barriere individuali) raggiungendo un livello di astrazione che fonde magistralmente cinefilia e spettacolo.
Storie di crisi. Ad Hong Kong nei giorni precedenti al crollo delle borse occidentali, dovuto al crack della Grecia, si incrociano vite, speranze e problemi di diverse persone che a modo loro devono confrontarsi con uno scenario economico in ribasso. La consulente finanziaria di una banca d’investimenti si trova di fronte alla possibilità di rubare 5 milioni senza che nessuno lo possa sapere, gli sgherri di un boss cercano di rimediare i soldi per tirare fuori di prigione un loro compare, un poliziotto e sua moglie devono acquistare un nuovo appartamento. La giornata di crollo della borsa sembrerà sconvolgere la vita di tutti e il rischio rientrato non placherà il senso di precarietà. Qualsiasi cosa debba dire Johnnie To la dice attraverso le sue figure archetipe, attraverso la sua passione per le storie di poliziotti e criminali e attraverso il suo contesto metropolitano. In Life without principle non viene sparato nemmeno un colpo di pistola (anche se una persona è uccisa) e al centro delle tre storie c’è la borsa con i soldi, il mcguffin più tipico possibile, tuttavia il nuovo film del regista di Election non è un poliziesco, ha più i toni della commedia e utilizza quella cornice per concentrarsi su altro.
Un rapitore invisibile di neonati tiene sotto scacco la polizia. Solo la misteriosa Wonder Woman ostacola i piani del criminale: unendo le proprie forze alla cacciatrice di taglie Chat, le due riescono a svelare l’identità del nemico e il folle piano del suo diabolico mandante. In Irma Vep, guardando una sequenza di The Heroic Trio, Jean-Pierre Léaud – alter ego cinematografico di Olivier Assayas, che sposerà l’attrice – si innamora di Maggie Cheung, icona bellissima e inafferrabile di un cinema radicalmente diverso da tutto ciò che c’è stato prima. Ed è in questo senso che occorre approcciarsi a The Heroic Trio, così radicale nella sua singolarità da rimanere tale anche a decenni di distanza dall’uscita in sala. Cercare un senso nell’intreccio o una qualche verosimiglianza nella rappresentazione scenica è uno sforzo totalmente vano. Johnnie To, ancora privo di uno stile ben definito, si affida al coreografo di arti marziali più ricercato dell’epoca, il Ching Siu-tung di Storia di fantasmi cinesi, che caratterizza con il suo inconfondibile look i set tra cui si muovono le supereroine e i relativi villain. Pur con un budget estremamente ridotto e con ingenuità in serie – incongruenze logiche, effetti kitsch, ecc. The Heroic Trio affascina, talora quasi inspiegabilmente, per la sua capacità di trasportare la mente dello spettatore in un luogo in cui le consuete leggi spaziotemporali non hanno senso e, di conseguenza, dove tutto è possibile. Un oggetto pop non identificato, caratterizzato da un uso di colori e luci che sta tra il Batman psichedelico degli anni Sessanta e il Burton di Beetlejuice, che si lascia andare a efferatezze horror sorprendenti, in barba a qualsiasi codice etico. Nemmeno i bambini piccoli sono infatti risparmiati dal delirio gore di To e Ching.
Dopo aver inseguito dei teppistelli e subìto un pestaggio, il sergente Lo si accorge di aver perso la pistola d’ordinanza. Gli agenti della PTU, l’Unità Tattica di Polizia, si offrono di aiutarlo a ritrovarla. La semplicità della trama è solo superficiale: tratto identificativo – e vincente – del cinema di To è la condensazione in un ridotto lasso temporale, sia reale sia filmico – tutto in una notte – di tanti piccoli avvenimenti che si concatenano per creare l’incedere iperbolico verso la resa dei conti finale. Lo spettatore viene invitato a marciare tra le varie situazioni come gli agenti della PTU, i quali si muovono nelle loro ronde per le strade di Hong Kong rigorosamente a piedi. La stratificazione della resa dei conti finale è un espediente meraviglioso di To, che scioglie tutti gli equivoci con il confronto personale tra boss e collettivo, polizia e criminali.
2 anni sono passati ed è di nuovo tempo di elezioni. La fratellanza dei membri anziani è chiamata a nominare il nuovo presidente e l’unico candidato sembra essere ancora Lok, ma un 2° mandato andrebbe contro la tradizione. Il giovane Jimmy, che aveva avuto un ruolo determinante nella vittoria di Lok, si fa avanti e sembra avere tutte le carte in regola per battere il suo boss. Il 2° capitolo conferma la regia impeccabile di To nell’evoluzione dei personaggi del 1° film. L’avidità, il potere e la spartizione di esso, ma anche l’onore rinnegato e tradito, le tradizioni calpestate sono tutti elementi che fanno parte del gioco: vincerà chi si dimostrerà più spietato nella resa dei conti finale.
Ogni 2 anni i membri anziani della triade Wo Shing, la più vecchia di Hong Kong, si riuniscono per eleggere uno dei boss più giovani come Presidente. I favoriti sono 2, molto diversi tra loro: Lok, apparentemente il più equilibrato, che si nasconde dietro una facciata di onesto padre di famiglia; e Big D, criminale senza scrupoli e senza limiti, pronto a tutto per raggiungere il suo obiettivo. Un cast stellare magistralmente diretto da To, che ritorna nel territorio delle triadi dopo l’altrettanto riuscito The mission (1999). Lo stile asciutto con cui ogni personaggio viene delineato nella sua pacata malvagità è il segno caratteristico del suo cinema. Regia consapevole, montaggio e fotografia da manuale trascinano lo spettatore nello stesso vortice di avidità e soprusi in cui finiscono i protagonisti. Largo uso di campi lunghi per mostrare le azioni dei malviventi, quasi a voler prendere le distanze da quello che viene compiuto. 1° di 2 capitoli, è stato presentato a Cannes.
Isola di Macao, fine anni ’90, in 3 giorni e 3 notti. 2 sicari devono uccidere Wo, ex compagno da poco rientrato dall’esilio, reo di aver tradito Fay, boss di Hong Kong. S’imbattono in altri 2 killer, accorsi per difendere la vittima. Tutti e 5 sono uniti da una vecchia amicizia. Fay mette una taglia sui 5, decretandone la morte. Il film si apre e si chiude su una sparatoria, ricca di ralenti e iperboli coreografiche che dilatano gli spazi e moltiplicano i punti di vista. Molti debiti verso Peckinpah e Leone. L’azione è contraddistinta da una ripetizione quasi isterica e dall’ironia con risvolti malinconici sull’amicizia virile. Scritto da Szeto Kam-yuen, Yip Tin-shing e il Milkway Team. Montaggio: David Richardson. Brillanti effetti speciali. Distribuito da Ripley. In concorso a Venezia 2006.
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