L’unico conforto di Andràs Szabó, giovane infermiere in un manicomio, è il violino. Intorno a sé, la realtà quotidiana e scialba di un’anonima cittadina ungherese. L’altro conforto di Andràs è l’alcool, capace di consolare la sua solitudine, i contrasti, le lotte e le sue incomprensioni con il mondo che lo circonda.
Tornato dal servizio nel corpo militare di stato, Laci è costretto a vivere con la moglie operaia Irén e la figlioletta nell’angusto appartamento dei suoi genitori, in attesa che il piano alloggi gliene fornisca uno. Il padre di Laci mal sopporta la nuora, imputandole l’incapacità tanto di educare la bambina quanto di mettere da parti soldi per far fronte alle spese comuni. Le incomprensioni crescenti porteranno all’inevitabile frattura del nucleo famigliare. Prodotto dai Béla Balázs Studio, l’esordio nel lungometraggio del giovane Béla Tarr affronta una problematica di stretto carattere politico-sociale, com’è la carenza di case nel sistema comunista ungherese, mediante il linguaggio di un cinéma-vérité aggressivamente polifonico. A conferma dell’interesse pubblico di quanto si vedrà sullo schermo, ad aprire è una didascalia inequivocabile nella sua chiarezza: «È una storia vera, non è accaduta ai personaggi del nostro film, ma sarebbe potuta accadere anche a loro». L’effervescenza dell’impianto di un lavoro tanto fisico sta nell’impiego di attori non professionisti, nel suono in presa diretta, nella macchina a spalla orientata – come la lente di un microscopio – a focalizzare stralci di frasi, dialoghi sovrapposti, reazioni mimiche, spostamenti improvvisi dei corpi. Affine alle sperimentazioni di altre cinematografie, il primo metodo di Béla Tarr costituisce, invero, il punto d’incontro tra il vivo desiderio di ancorarsi alla realtà e la pochezza dei mezzi a disposizione, in un’intercambiabilità tra programma estetico e politico dove è già possibile scorgere quella deriva della condizione umana che sarà tema prediletto dei titoli maturi. Al di là del filtro di un “cassavetismo incolpevole”, allora Tarr non conosceva l’opera del cineasta americano, il dramma personale e ugualmente pubblico di Laci e Irén acquista sottigliezza psicologica caricandosi di credibilità ad ogni nuovo scontro-dialogo, fino alla resa dei conti delle due, splendide, confessioni finali in cui è palese il sapore schiacciante della sconfitta. Con un titolo che rimarca, per antifrasi, l’inferno della convivenza, Nido familiare costituisce, insieme a The Outsider, Rapporti prefabbricati e, in parte, Almanacco d’autunno, il periodo realista del regista prima della svolta stilistica segnata da Perdizione.
Mainon conduce una vita semplice e priva di prospettive ai bordi del mare. Quasi non si accorge della realtà che lo circonda e ha ormai accettato la solitudine in cui è immerso. Finché un giorno diviene testimone di un omicidio. La sua vita subisce uno sconvolgimento. È costretto a chiedersi cosa separi il bene dal male e quale sia la sottile linea che divide l’innocenza dalla complicità. Progressivamente è costretto a porsi domande, che aveva sempre rimosso, sul senso ultimo della vita. Il film è tratto da un romanzo di Georges Simenon. Il figlio dello scrittore ha detto in proposito: “Le vite di alcuni personaggi creati da mio padre non sono facili da trasporre in un film o in televisione. Questo vale anche per L’Homme de Londres perché la macchina da presa aspira a seguire la suspense che ha luogo nella mente del protagonista e l’impresa sembra impossibile. Bela Tarr ne ha fatto un esercizio di stile che mi ha toccato nel profondo”. In effetti tutti i film del regista ungherese sono esercizi di stile. Primo fra tutti Satantango, suo capolavoro della durata fiume di 7 ore e mezzo. Ma lì, come in altre sue opere, era presente una ricerca cinematografica destinata a un ristretto pubblico di cinefili ma ricca di creatività e di senso. In questo The Man from London c’è invece la sterile applicazione di uno stile a un testo altrui. Si ammirano pertanto i lentissimi movimenti di macchina da un punto di vista estetico, ma ci si chiede se siano funzionali alla narrazione. La risposta è spesso negativa.
“Qual è la differenza tra un pessimista e un ottimista? Il primo pensa che le cose non possano andare peggio di così. Il secondo è convinto di sì.” È la battuta chiave di un film comicamente amaro sulla guerra in ex Jugoslavia e, per traslato, su tutte le guerre di questi nostri tempi. Ciki e Nino, un bosniaco e un serbo, nel corso della guerra del 1993 si trovanio bloccati in una trincea nella terra di nessuno. Con loro c’è un terzo combattente che è sdraiato su una mina che rischia di esplodere a un suo minimo movimento. Le truppe dell’Onu intervengono per aiutare, ma gli alti livelli creano più problemi che soluzioni in una guerra che è vista dall’esterno o come un terreno per esercitazioni diplomatiche o un grande set ‘naturale’ da cui far provare al mondo il brivido della morte (altrui). Abbiamo visto altri film che denunciavano le guerre-spettacolo, ma pochi dotati della saldezza di conduzione (opera prima) e dell’ironia affilata di No Man’s Land. Dice Tanovic: “La lingua parlata dai Serbi, dai Croati e dai Bosniaci è di fatto la stessa. Oggi i Serbi la chiamano serbo, i Bosniaci bosniaco e i Croati croato. Ma quando parlano si capiscono perfettamente tra loro”. È una frase su cui meditare.
Nei territori Comanche del 1719, la giovane Naru cerca di dimostrarsi una cacciatrice al pari dei giovani maschi della comunità, guidati da suo fratello Taabe. Ha la sua occasione quando, seguendoli di soppiatto, si unisce a una spedizione di caccia al leone. Strada facendo incontra le tracce di un altro più pericoloso predatore, ma non riesce a convincere nessuno che non si tratti di un semplice orso.
Alan è un ex agente assicurativo e grafico mancato che è stato lasciato dalla moglie, vive in uno scantinato dormendo su un materasso e sfoga la propria rabbia contro un sacco da boxe o attraverso disegni in cui l’unico colore è il rosso sangue. L’ex moglie Giulia se ne è andata dopo sette anni di incomprensioni e di soprusi, e non vuole più avere niente a che fare con lui. Ma Alan non si rassegna e la tempesta di telefonate e messaggi via Internet, appostandosi sotto casa sua e cercando di ristabilire con lei una relazione. Ines è la procacciatrice multilevel di una ditta di energie rinnovabili capitanata da un coach che è un incrocio fra un guru New Age e un padrone delle ferriere (ed è anche l’ex capo di Alan). Ines vive sola, ha un’unica amica, Mina, e non riesce ad avere rapporti soddisfacenti con gli uomini, men che meno con l’insistente collega Adriano. Le strade di Alan e Ines sono destinate ad incrociarsi, perché i due hanno molto in comune: la solitudine, i problemi relazionali, la dipendenza da un regime aziendale improntato allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e sottoposto a continue riunioni motivazionali con tanto di “prove” come la camminata sui carboni ardenti), l’attrazione verso i siti di incontri in Rete.
Gli Arpel vivono in una villa ultramoderna, dotata di tutti i conforti elettromagnetici. Il loro figlio Gérard di nove anni preferisce ai genitori M. Hulot, lo zio materno, scapolo spensierato che abita in un quartiere popolare. 3° lungometraggio di Tati e 1° a colori, è fondato sulla contrapposizione di due mondi in cui l’autore riesce a conciliare il comico di osservazione con il burlesque attraverso una serie di invenzioni buffe che, pur sfiorando il surreale, hanno le radici in una plausibile quotidianità. “Per Tati soltanto il poeta e il bambino, grazie alla loro spontaneità, possono salvare la nostra società dalla disumanizzazione che nasce dalla standardizzazione” (G. Bellinger). Bisogna riconoscere che, anticipatore degli ecologisti, Tati diceva con garbo cose che non erano molto comuni alla fine degli anni ’50. Oscar per il miglior film straniero.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, in un villaggio coloniale dell’Africa orientale, il poliziotto Cordier si trascina in un’esistenza abulica e priva di senso. Abbruttito, privo di dignità e di coraggio, non soltanto non si cura dell’ordine pubblico, ma si lascia tradire dalla moglie e beffare dai guappi locali. L’arrivo in paese di Anne, maestrina tutta candore, scatena in lui qualche insospettabile alchimia, spingendolo a dare un “colpo di spugna” nel nome di un’allucinata giustizia che lo porta a far fuori tutti i suoi nemici (o supposti tali). Da un romanzo di Jim Thompson.
Dramma a sfondo fantascientifico che racconta la tragica vicenda di un uomo, Okuyama , rimasto orribilmente sfigurato nell’esplosione accidentale di un laboratorio chimico. Con il volto interamente fasciato dalle bende, egli tenta disperatamente di reinserirsi nella società, ma la sensazione di essere allontanato dai colleghi e la difficoltà di ristabilire una relazione affettiva con la moglie lo spingono a chiedere ad uno psichiatra – che è anche valente chirurgo – di applicargli una nuova faccia. L’operazione, tuttavia, non migliora la sua esistenza poiché l’uomo avverte, in maniera ancor più allarmante, una dissociazione della propria personalità, quasi che il nuovo volto voglia impadronirsi della sua anima. La vicenda di Okuyama si sviluppa parallelamente a quella di una giovane, anche lei deturpata nel viso, che si suicida dopo aver sedotto il proprio fratello in un impeto disperato di vita. Girato negli stessi anni anni del meno problematico film di Pavel Hobl Ztracena Tvar, Tanin no kao è un’allegoria sui temi dell’alienazione, dell’emarginazione del “diverso”, della dialettica tra realtà e apparenza. Sviluppato su due tragiche storie parallele con tecnica volutamente frammentaria e allusiva, è una delle opere più conosciute del regista Hiroshi Teshigahara, l’acclamato autore della Donna di sabbia (Suna no onna) del 1962.Machiko Kyô – che qui interpreta il ruolo della moglie di Okuyama – è nota al pubblico occidentale come protagonista di Rashômon e della Casa da té alla luna d’agosto.
Anthony è un impiegato di Tokyo, sposato con Yuriko e padre del piccolo Tom. Dopo la morte della madre di Anthony per cancro, il padre, un rinomato scienziato, lo sottopone periodicamente a delle visite apparentemente inutili. Ma un giorno Tom, sulla strada di casa, viene investito da un’automobile e muore sotto gli occhi del padre. Man mano che la rabbia e la sete di vendetta crescono in lui, Anthony si ritrova a trasformarsi in un essere di metallo, una vera e propria arma umana di distruzione che lo pone di fronte al terrore di uccidere contro la propria volontà.
Dopo essere stato investito da un’auto, un impiegato occhialuto (Taguchi), feticista dei metalli, si trasforma a poco a poco in un uomo metallico. Dovrà affrontare un suo simile (Tsukamoto) con il quale entrerà in simbiosi metallica. Autore completo (sceneggiatura, regia, fotografia, scenografia, effetti speciali, montaggio), “Tsukamoto costruisce un incubo surreale i cui contorni non sono mai definiti, celando il flusso di immagini in ambienti la cui unica funzione è quella di essere negata dalla violenza dei conflitti messi in scena” (G.A. Nazzaro). Apologo cyberpunk in cui la tecnica del videoclip è portata fino in fondo. Una tappa notevole nell’immaginario erotico e disumanizzato di fine secolo. Rintracciabile in home video.
Dopo che un figlioletto gli è stato rapito e ucciso, un impiegato (T. Taguchi) subisce una mutazione genetica, frutto di esperimenti condotti da suo padre, e si trasforma in una metallica macchina da guerra in grado di affrontare il capo (S. Tsukamoto) dei rapitori. Ancora factotum, Tsukamoto si ripete, rinunciando alla componente erotica e accentuando i suoi debiti letterari con J.G. Ballard e cinematografici con D. Cronenberg nella con-fusione tra carne e metallo, umano e non-più-umano. Ma il viaggio al di là dei recinti del visibile tollerato sa già di già visto.
Karl è un portatore di handicap psichico che uccide la madre e il suo amante. Quando esce dalla clinica psichiatrica fa amicizia con un ragazzino orfano che subisce la violenza del convivente della madre. Karl uccide ancora. Billy Bob Thornton, oltre a essere un valido attore e un interessante regista, ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura con questo film, che mette di fronte alla follia senza paraventi e non rinuncia a insinuare qualche domanda importante. Un flop al botteghino da recuperare in video
Per la Sicilia del ’53 con un autocarro, un tendone e una cinepresa Joe Morelli (Castellitto), sedicente inviato di una casa cinematografica romana, va in giro a fare provini (falsi) a pagamento, promettere fama e denaro,spacciare illusioni, alimentare speranze. Verrà duramente castigato. Nonostante le debolezze di sceneggiatura (scritta con Fabio Rinaudo), sono apprezzabili la direzione degli attori, il disegno dei personaggi minori (Trieste, Gullotta, Sperandeo), la sapienza concisa del narrare, le luci e il colore di Dante Spinotti, la forte sequenza dell’occupazione delle terre. Premio speciale della giuria a Venezia 1995 ex aequo con La commedia di Dio di Monteiro.
Sostituita versione con una che ho rippato direttamente da dvd originale
Nell’autunno del 1945 un giovane americano, di nascita tedesca e di buona volontà, ritorna nella patria in rovina, trova un posto come conduttore di vagoni-letto e, grazie a un coinvolgimento amoroso, si fa incastrare da un gruppo terroristico di Lupi Mannari, irriducibili nazisti non rassegnati alla sconfitta. Cocktail di thriller e melodramma con una componente umoristica. Più che la storia, artificiosa e quasi banale, e più che i personaggi, conta l’apparato tecnico-formalistico: colore contrapposto al bianconero, sovrimpressioni, obiettivi deformanti, cinepresa dinamica, scenografie di taglio espressionistico. Antitedesco nella sostanza, è profondamente tedesco nella forma.
Uno studioso, che si trova nel deserto per le proprie ricerche, chiede ospitalità in un villaggio. Lo portano alla capanna di una donna che sta in una fossa di sabbia alla quale si accede mediante una scala di corda. La mattina seguente lo scienziato si accorge di essere prigioniero poiché la scala è stata levata.
Ad Arpino (Frosinone) un vecchio esercente idealista resiste alla cessione, e chiusura, del suo cinema Splendor. Sono con lui una matronale collaboratrice e un proiezionista che coltiva l’amore per il cinema come surrogato della realtà. Con Nuovo cinema Paradiso di Tornatore e Via Paradiso di Odorisio, uno dei 3 film italiani del 1988 che lamentano la morte del cinema in sala. Fiacco come amarcord, inattendibile sul piano rievocativo, moscio nell’intreccio degli affetti privati, lamentoso e contraddittorio.
Cronaca di una giornata nella vita di un avvocato romano sessantenne in compagnia del figlio che fa il servizio militare a Civitavecchia. Affidato, più che a un intreccio, a una situazione, il film ha un andamento ondivago e un ritmo lasco, nonostante la ricchezza di spunti, sottofondi, scatti d’umore. Sul tema della difficoltà di comunicazione tra due generazioni è un veicolo per 2 prove di attore a confronto, indebolito da un improbabile M. Troisi, troppo anziano e troppo napoletano per la parte. Coppa Volpi ex aequo a Venezia 1989.
Un film di Bela Tarr. Con Peter Berling, Mihaly Vig, Putyi Horvath, Erika Bok Drammatico, b/n durata 465′ min. – Ungheria, Germania, Svizzera 1994. MYMONETRO Satantango valutazione media: 3,81 su 8 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
Diviso in 2 parti e in 12 capitoli per la durata di 7 ore e più, costato quasi 4 anni di lavoro (1991-94), tratto da un romanzo di László Krasznahorkai, adattato dall’autore col regista, è il più ambizioso dei film di Tarr, il narratore più estremo del cinema magiaro, attivo dal 1977. In un villaggio della pianura stepposa ungherese due gabbamondo, già dati per morti, convincono la popolazione a lasciare le proprie case e i loro risparmi, necessari a fondare una colonia collettiva dell’utopia. In cadenze allegoriche, anche se storicamente precise, è una satira antiautoritaria e, insieme, un apologo metafisico. Tema centrale: quelle che i padri della Chiesa cristiana chiamavano le figlie dell’accidia (filiae acediae), intesa come “la fuga dell’uomo davanti alle ricchezze delle proprie possibilità spirituali”: il torpore, il divertimento e soprattutto la disperazione, cioè la presuntuosa e compiaciuta certezza di essere già condannati alla rovina.(Leggere il Canto VII dell’Inferno di Dante). Influenzata dal cinema “improvvisato” di Cassavetes, ma anche dall’elegante rigore coreografico di Jancsó e Tarkovskij, la scrittura di Tarr è affidata a una esasperata dilatazione dello spazio e del tempo in lunghi piani-sequenza. La tensione che ne deriva corrisponde alla stasi spirituale mortifera del racconto e “si traduce in un’indagine ‘ontologica’ sul cinema stesso, sulla dialettica che lo fonda” (A. Piccardi). Fotografia: Gabor Medvigy.
Edit 19/2/24: Ho rippato un bdrip da 44gb e portato a 1080p h265. File unico ovviamente migliore della versione precedente dvdrip.
Da un romanzo di Alistair MacLean. Isola di Keros. Commando di partigiani deve impadronirsi di due cannoni messi in posizione strategica dai tedeschi. Ma c’è un traditore. Uno dei pochi film sulla 2ª guerra mondiale che ebbe un grandissimo successo di pubblico. Ambizioso con molte sequenze di forte suspense, è un po’ appesantito da dialoghi spesso retorici e filosofeggianti. Ottimo cast. 4 nomination, solo un Oscar agli effetti speciali.
Le richieste di reupload di film,serie tv, fumetti devono essere fatte SOLO ED ESCLUSIVAMENTE via email (ipersphera@gmail.com), le richieste fatte nei commenti verrano cestinate.