Come suggerisce il sottotitolo, ” La guerra in tasca ” , è una piccola storia personale; una storia secondaria incentrata sulle esperienze di un ragazzo di undici anni durante la Guerra di un anno e sulla sua comprensione del vero significato della guerra. Una svolta significativa per il franchise di Gundam all’epoca, Gundam 0080 ha ricevuto ampi consensi dalla critica.
Un film di Joachim Trier. Con Anders Danielsen Lie Titolo originale Oslo, 31. august. Drammatico, durata 95 min. – Norvegia 2011. MYMONETRO Oslo, August 31st valutazione media: 1,50 su 1 recensione.
Anders ha 34 anni, è un bel ragazzo e proviene da una famiglia per bene ma è profondamente tormentato per aver sprecato molte opportunità nella vita e aver deluso le persone intorno a lui. Ora si avvia alla conclusione del suo programma di disintossicazione dalla droga, in campagna. Nell’ambito di questo programma è autorizzato ad andare in città per sostenere un colloquio di lavoro. Anders approfitta dell’occasione per trattenersi fuori la notte, girovagando e incontrando le persone che non vede da molto tempo. Indagine emotiva e quasi fisica di una crisi esistenziale, il film di Joachim Trier, nonostante la buona regia, morbida, e la prova eccezionale del protagonista Anders Danielsen Lie, è un film sbagliato perché manca completamente l’obiettivo prefissatosi. L’intenzione di Trier è quella di mostrare come, nella verde, giovane e ricca Norvegia, dove pare che non esistano possibili storie da raccontare, i conflitti interni alla classe media esistono eccome. Le possibilità di scelta rispetto al proprio futuro, altrove negate in partenza, qui sono moltiplicate e possono sollevare aspettative non facili da soddisfare e grandi drammi. Eppure, l’impressione che non può non cogliere, alla visione di Oslo, August 31st , è proprio che la storia non ci sia, neanche tra le pieghe dell’osservazione e del pedinamento. I gesti di Anders non si scartano mai neanche un secondo da un percorso più che noto -la ribellione, l’alcool, il furto-, che sarà probabilmente obbligato nella vita ma non al cinema. La sua lenta marcia verso l’immobilità finale viene posta a contrasto con il dinamismo sociale della città e la sua incapacità di darsi una nuova identità, pacificata e “pulita”, col suo mutare rapidamente e continuamente forma. Ma anche questo è un discorso abbozzato, col ricorso alle immagini in Super8 dell’inizio, e non portato né in lunghezza né in profondità. Un’occasione mancata.
Un uomo si sveglia imprigionato nella intercapedine di un muro senza apparente via d’uscita. Com’è finito lì e come può uscirne? Strisciando nel buio, incontra una donna e insieme trovano la forza di andare avanti alla ricerca della libertà. Tsukamoto manifesta il suo istinto sperimentalista in 30 centimetri di spazio registico e 49 minuti di claustrofobica angoscia: rende benissimo un incubo senza capo né coda, ponendo il protagonista in situazioni sempre più estreme a ogni risveglio. Nella 1ª parte, la tensione si sviluppa in un crescendo costante, con mini-sequenze in cui i sensi sono acuiti dall’assenza di percezione del sé e dell’ambiente circostante. L’uso particolare delle luci e quello sapiente dei suoni immergono lo spettatore in un viaggio nel fastidio più puro e nell’incertezza dopo ogni centimetro conquistato. La 2ª parte, più criptica e simbolista, sembra invece suggerire che l’amore vinca su tutto e richiama la metafora platonica della mezza mela. V.M. 14 anni.
È il 1° film sul massacro degli armeni cristiani (il 1° genocidio del ‘900), progettato ed eseguito nel triennio 1915-17 dal partito sciovinista dei Giovani Turchi. Le cifre dell’eccidio variano da 700 mila a un milione e mezzo di vittime. Dopo un intervallo di 8 anni, occupati da due miniserie TV, i Taviani tornano al cinema, adattando il romanzo (2002) di Antonia Arslan, italiana di famiglia armena (Arslanian) che vive e insegna a Padova. L’hanno realizzato con una larga europroduzione che fa capo a Grazia Volpi, un cast internazionale e una squadra tecnica di prim’ordine (G. Lanci, A. Crisanti, R. Perpignani, L. Merli Taviani) con esterni in Spagna, Bulgaria, Padova, Venezia. Come il libro dell’Arslan, il 16° film dei Taviani è uno di quei romanz(on)i che, alla fine, lasciano i lettori/spettatori esausti. Somiglia a quei banchetti dove sfila un gran numero di piatti, non tutti di prima qualità. Fa da architrave la famiglia Avakian della ricca borghesia armeno-turca. Si susseguono amori contrastati, tradimenti, violenze feroci, stupri virginali, sacrifici, travestimenti, fughe fallite, contrasti culturali, letali marce forzate nel deserto. Fanno spicco due personaggi non soltanto pittoreschi: Ismene (Molina), lamentatrice greca, e Nazim (Bakri) della Confraternita dei mendicanti. Musiche: Giuliano Taviani.
Dopo due contatti (avvistamento, reperimento di tracce) con gli UFO si aspetta il loro arrivo in una zona del Wyoming. Un padre di famiglia, una donna il cui bambino è misteriosamente scomparso e uno scienziato francese stanno all’erta. E l’UFO atterra. La componente tecnica è straordinaria: fotografia di Vilmos Zsigmond (unico premio Oscar su 4 candidature), effetti speciali di Douglas Trumbull, i pupazzi semoventi di Carlo Rambaldi, il più grande set (l’interno di una vecchia aviorimessa per dirigibili) mai usato, la sapiente costruzione drammatica in due tempi affidata alla suspense, tipica del cinema spielberghiano. Ma c’è qualcosa di più: una indubbia carica mitica di timbro junghiano, un discorso sulla pace e l’amicizia con razze extraterrestri. È l’opera di un sognatore per sognatori. Nel 1980 Spielberg mise sul mercato un’edizione di 152 minuti con sequenze all’interno dell’astronave.
Un critico musicale russo, in Italia per ricostruire un episodio della vita del musicista russo Pavel Sasnowskj, incontra a Bagni Vignoni, una località termale presso Siena, un singolare personaggio, chiamato “il matto”, il quale afferma che per pacificare il mondo è necessario attraversare con una candela accesa la piscina di Santa Caterina. Dopo un soggiorno a Roma, dove il matto si dà fuoco in Campidoglio, il critico compie la traversata della piscina con la candela, ma muore d’infarto per l’immane fatica. Ancora un film sul tema, ossessivo per Tarkovskij, del “sacrificio” che è necessario per raggiungere la pace.
Regia di Andrei Tarkovsky. Un film con Igor Fomcenko, Vladimir Zamjanskij, Nina Arkangelskaja, Marina Adzubej, Yura Brusser, Slava Borisov, Aleksandr Ilin. Titolo originale: Katok i skripka. Genere Commedia – Russia, 1960, durata 55 minuti.
Al piccolo Saša l’esame del violino va male. Tuttavia il bambino matura una singolare amicizia con Serghej, un operaio addetto al rullo compressore. Saša riesce così a superare prove per lui difficili e inconsuete.
Marilyn Rexroth nutre un’autentica vocazione per il denaro che accumula collezionando, come figurine, mariti miliardari.Tra lei e i sogni a più zeri, lui, Miles Massey avvocato brillante di Beverly Hills, che prima la incastra, poi la sposa, poi le soccombe e poi la redime,si redime, irrimediabilmente. Tornano i fratelli Coen con una commedia feroce a camminare lungo i marciapiedi assolati “degli angeli”;a raccontare,questa volta, co-sceneggiati e all’ombra di ville iperboliche, della classe alto-borghese, quella annoiata intorno ad asettiche piscine “depurate” da poco opportuni amanti. Si avviano così le pratiche di divorzio,si organizzano cinicamente strategie post-matrimoniali dove gli avvocati drammatizzano, proprio come in un film dei Coen, persone e azioni con l’unico scopo di vincere, vincere e vincere. Massey, allora, costruisce davvero la sua perfettissima storia, anticipando successi e sconfitte del cuore,il suo, fino al romanticissimo epilogo sulle labbra Marilyn. Incredibile macchina spettacolare, quella dei Coen, governata dall’armonia totale degli elementi che dentro al loro cinema si corrispondono come una melodia. Una melodia che si avvia dalla “parola”, quella scritta,autoriale e definitiva dei Coen, quella che gli attori, pure superlativi, devono solo “dire” perchè al pubblico della prima come dell’ultima fila,arrivi nella sua “intollerabile” perfezione.
In una Russia messa a ferro e fuoco dalle invasioni asiatiche e sconvolta dalle lotte di potere tra piccoli potentati, il monaco Rublëv (1360 ca.-1430), pittore di icone, passa attraverso 9 capitoli (Il volo, Il buffone, Teofane il Greco, La passione secondo Andrej, La festa, Il giudizio universale, La scorreria, Il silenzio, La campana) che compongono un vasto affresco del Medioevo russo. Nel 1° è assente, in altri fa da spettatore o “passeggero”, nell’ultimo _ una delle più alte pagine filmiche di epica del lavoro umano _ è in disparte, testimone silenzioso. È uno dei grandi film degli anni ’60 (completato nel 1967, presentato a Cannes nel 1969, distribuito in URSS nel 1972 e in Italia nel 1975) il capolavoro di Tarkovskij è il più maturo risultato, in campo cinematografico, della cultura del dissenso nell’URSS. Epilogo a colori, 10 minuti di documentario sulla pittura di Rublëv: l’autore scompare, rimane l’opera.
Da un racconto di Charles Marquis Warren. Tornato a casa dopo tre anni di assenza, scopre che moglie e figli sono stati rapiti dai crudeli Apaches. Western tradizionale, ma non convenzionale, rallegrato dai battibecchi tra il protagonista e il “cattivo” di turno, l’immancabile Kennedy.
Fanciulla scompare da una villa sulla scogliera. Nel cercarla il suo innamorato scopre un passaggio segreto che porta a una città sottomarina abitata da esseri mostruosi guidati da un potente. Almeno per i fan del cinema fantastico i piccoli film di Tourneur sono chicche. Anche qui, specialmente nella 1ª parte, non mancano momenti di strana poesia. Più fiacca, anche per mancanza di mezzi, la parte subacquea.
Storia di un incubo in forma di interrogatorio al quale lo scrittore Onoff (Depardieu), apparentemente in preda all’amnesia, è sottoposto da parte di un commissario di polizia (Polanski). Fin dal titolo il 4° film di Tornatore è sotto il segno dell’ambiguità: oltre al suo significato di gergo burocratico-poliziesco, potrebbe essere letto come un esercizio di pura forma, ossia di stile, che mette in discussione lo statuto di credibilità delle immagini: qual è il confine tra fantasia e realtà? tra falso e vero? Allucinato dramma notturno di nordico onirismo, giocato sulla corda pazza dell’assurdo, è un film da prendere o lasciare, senza vie di mezzo. Chi prende ne gusterà la sagacia della costruzione, l’alta tenuta figurativa e sonora (fotografia di Blasco Giurato, musiche di Ennio Morricone), l’ammirevole concertazione degli attori: oltre a Depardieu e Polanski (doppiati da Corrado Pani e Leo Gullotta), c’è un incisivo S. Rubini come poliziotto che verbalizza.
Dal romanzo di Christopher Landon. Cirenaica 1942: un’ambulanza britannica con tre uomini e due ausiliarie cerca di raggiungere Alessandria d’Egitto tra campi di mine, pattuglie tedesche, sabbie mobili. Uno dei tre è una spia. I pezzi di bravura a suspense non mancano, con qualche eco di Vite vendute di Clouzot. Film robusto, ben ritmato, ma superficiale. Tra gli interpreti spicca A. Quayle. Intitolato anche Pattuglia disperata.
4 uomini uccidono un esattore delle tasse. Sua moglie riesce a vendicarsi di uno di loro ma finisce in prigione dove muore dopo aver partorito Yuki che, allevata da un samurai senza scrupoli, diventa una perfetta macchina di morte e porta avanti la vendetta iniziata dalla madre. Il fortunato binomio vendetta-donna si sublima in questo grande classico in cui viene descritto il sentimento che si può instillare goccia dopo goccia nell’animo puro di una bambina. Tarantino “saccheggerà” da qui a mani basse non solo per il personaggio di Kill Bill , ma anche per la colonna sonora – Shura no hana e Urami bushi – per la suddivisione in capitoli e le inquadrature particolari.
Dopo aver ucciso i suoi nemici, Yuki viene catturata e condannata a morte. Assoldata dalla polizia segreta guidata da Kikui, Yuki si ritrova a combattere per difendere la sua vita e quella di un regime politico prossimo al collasso. La giovane viene incaricata di infiltrarsi a casa di Ransui, un famoso anarchico, per ucciderlo e recuperare una lettera il cui contenuto è talmente importante che, se reso pubblico, farebbe cadere il governo.
Filippine, 1945. Il soldato Tamura, malato di tubercolosi, è l’unico sopravvissuto del proprio plotone. Vagando nella giungla in cerca di cibo, Tamura incontra altri commilitoni allo stremo delle forze che battono in ritirata, desiderosi di arrivare a Palompon per poi tornare a casa. Lo stile inconfondibile di Tsukamoto Shinya per la prima volta al servizio di un film bellico, in cui frastuoni intra ed extra diegetici e lampi di luci e colori raccontano il calvario di un soldato, in un percorso di morte che rasenta l’allucinazione. Tsukamoto riprende il romanzo “La guerra del soldato Tamura” di Ooka Shohei, già trasposto sul grande schermo nel 1959 da Ichikawa Kon con Fires on the Plain, per trasformarlo in una parabola sull’abiezione raggiunta dall’essere umano in condizioni estreme. In totale controtendenza con uno scenario politico e cinematografico che in patria vira verso il revisionismo – si veda il successo di The Eternal Zero e il diffondersi di un atteggiamento quasi vittimistico in merito alla Seconda guerra mondiale – Tsukamoto sceglie di autoprodursi un manifesto anti-bellico, che ripropone la sua riflessione sull’uomo mutandone il contesto circostante.
Un giovane barbiere di paese (siamo negli anni Venti) è paralizzato agli arti inferiori per una malattia psicosomatica. I medici credono che la malattia sia legata alla fine della sua love story con una ricca ragazza del posto. Infatti è vero: il giovane riprenderà l’uso degli arti quando riconquisterà per sempre il cuore della bella. Prima però accadranno tante cose (inclusa l’incarcerazione per antifascismo del giovanotto).
Virgil Oldman è un sessantenne antiquario e battitore d’aste di elevata professionalità. Conduce una vita tanto lussuosa quanto solitaria. Non ha mai avuto una donna al suo fianco e tutta la sua passione è rivolta all’arte. Fino a quando riceve un incarico telefonico da Claire, giovane erede di una ricca famiglia. La ragazza, che vuole venga fatta una valutazione degli oggetti preziosi che arredano la sua villa e di cui vuole liberarsi, non si presenta mai agli appuntamenti. Virgil viene così attratto da questa committente nascosta fino al punto di scoprire il suo segreto.
Omero viene creduto contaminato dalle radiazioni in maniera irreversibile e, per rendergli più piacevoli possibile gli ultimi giorni di vita, gli americani fanno a gara. Solo che Steve, il suo medico, ha sbagliato diagnosi e Omero è sanissimo. Alla giornalista che ha riempito pagine con lacrimevoli articoli sulla triste sorte del giovane non è possibile rimangiarsi tutto, perciò la ragazza obbliga Omero a “suicidarsi” gettandosi da un ponte: lui non muore, ma l’opinione pubblica non lo sa e la facciata è salva.
Non esiste dvd in italiano, non ho trovato altre versioni oltre questa in rete
Vincenzo, giovane napoletano mite e disoccupato, si accontenta di vivere da parassita in famiglia. Ascolta le pene d’amore dell’amico Tonino e s’innamora di Anna. Sempre senza slanci né entusiasmi. Nella sua apparente e un po’ ripetitiva staticità la commedia è costruita con tranquilla sapienza che attinge linfa, aggiornandola, dalla tradizione del teatro napoletano. Da antologia il dialogo sulla Madonna che piange.
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